giovedì 25 febbraio 2010

FALLING MARTINS - Shining Bright


25/01/2010
Rootshighway


In Italia i Falling Martins li abbiamo scoperti grazie ad un sorprendente (e torrenziale) doppio album dal vivo (Live At The Old Rock House), tante belle canzoni che in pochi avevano avuto l'occasione di sentire nei tre album in studio pubblicati fino a quel momento da questa formazione di St Louis. Curiosità e anche una certa attesa dunque per questo Shining Bright, quarto album di materiale originale, nonché il primo ad uscire dopo i tanti consensi riscossi nelle classifiche di fine anno (che a quanto pare però non sono valsi un contratto con un'etichetta di rilievo). Che è, a conti fatti, un disco per certi versi sorprendente, perché il live aveva evidenziato una band con un gran bel feeling e un discreto songwriting di stampo classico, ma anche con limitati orizzonti in termini di fantasia e varietà di soluzioni. Invece il vocalist Pierce Crask e compagni qui giocano la carta della disomogeneità e di una certa confusione tipica dei dischi in studio delle band del circuito H.O.R.D.E. che fu (per chi non lo ricorda, era un festival itinerante degli anni 90, il cui acronimo significava più o meno "orizzonti di un rock che si sviluppa ovunque"), vale a dire quel senso di grandi potenzialità spesso non pienamente espresse che davano alcuni dischi dei Widespread Panic o dei Blues Traveler, guarda caso band che loro hanno spesso seguito in tour come spalla.

I ragazzi qui sfruttano bene la loro capacità di scrivere belle ballate da strada degne delle migliore red dirt music moderna (Unkind), a volte impreziosendole con chitarre alla Neil Young (When Spring Came) o giocando un po' a camuffare la voce con i microfoni (Country Flower). Ma l'attacco di Bill Mauldin's Star pare un evidente tentativo di confezionare un brano molto radiofonico, che si distacchi dalla filosofia da band on the road, e bisogna ammettere che se l'intenzione era di creare un piacevole tormentone da car-radio, ci sono pienamente riusciti. Altrove invece altri tentativi di cambio di stile come la quasi swingata Everything That Glitters o la ballatona facile facile di Oasis (già sentita in miglior versione in apertura del live) sembrano un po' avere il fiato corto. Meglio quindi quando vanno sul sicuro con una slow-song epica (Colt In The Sun) o sentimentale (Black Label), o quando in No Surprise cercano anche tra le mura degli studios il ritmo trascinante di un finale di concerto (bello in questo caso il duello slide-wurlitzer).

Chiusura in versione bar-band con il piano balzellante di Outside The Door e tutti a casa dopo una canonica quarantina di minuti di pura american-music. Probabilmente Shining Bright conferma quanto già sospettavamo, cioè che la storia della musica americana non troverà nei Falling Martins un punto di svolta, quanto solo l'ennesimo combo che sa raccontare bene le proprie storie davanti ad un ascoltatore e non ad un registratore.
(Nicola Gervasini)

domenica 21 febbraio 2010

SHEARWATER - The Golden Archipelago


Febbraio 2010
Buscadero



Non si è mai capito bene se Jonathan Meiburg considerasse i suoi Shearwater un mero side-project degli Okkervil River, o semplicemente sia riuscito nel miracolo di tenere in piedi due delle più emozionanti epopee musicali degli anni 2000 con salomonica divisione di tempo e sforzi. Fatto sta che l’anno scorso è arrivata la sua decisione: gli Okkervil River restano la creatura di Will Sheff, lui invece dedicherà anima e corpo solo a questo strano progetto. Nati nel 2001 con l’effettivo intento di dare spazio ad una serie di brani sognanti che poco avevano a che fare il nuovo folk nervoso degli Okkervil River, gli Shearwater si sono guadagnati via via uno spazio grazie ad una costante maturazione. The Golden Archipelago, sesto capitolo della saga, è forse anche il più atteso, perché nel 2008 Rook aveva convinto tutti e aveva per la prima volta superato la band dell’amico Will in termini di riconoscimenti. E anche questa volta gli Shearwater non deludono le attese di chi si era innamorato delle atmosfere “liquide” della loro musica, eternamente sospesa in un immaginario marino (anche il nome della band è quello di un uccello di mare) che trova qui la propria apoteosi nella copertina, nel titolo, e nei testi a tema sulla vita in un isola solitaria (obbligatorio, in una prossima intervista, chieder loro i fatidici dieci Desert Island Records, visto che sembrano davvero credere all’eventualità di averne davvero bisogno). Ed è palese anche il tentativo di ricreare lo stesso ritmo schizofrenico di Rook, fatto di momenti lenti e onirici (Meridian ad esempio), inframmezzati da improvvise esplosioni (la minacciosa Black Eyes), sempre con la voce declamatoria di Meiburg sugli scudi. Quello che però sembra mancare stavolta è quel paio di momenti di pura esaltazione che elevavano ad alti livelli il predecessore, perché qui i pezzi forti (il singolo Castaways, la tesa Corridors o la poetica God Made Me ad esempio) non sembrano avere una marcia in più, anzi, semmai il freno a mano tirato da qualche sbadiglio di troppo negli intervalli (Landscape At Speed, Hidden Lakes). Nel complesso comunque l’opera gode di una piacevole unitarietà e riesce nell’intento di catapultare l’ascoltatore in questa sorta di eterna “waterworld” indipendente, con il rammarico forse per il finale frettoloso e in tono minore (si segnala solo Uniforms). Van Morrison questo tipo di fase artistica la chiamava “a period of transition”, quella, per intenderci, che servì a preparare in sordina nuovi grandi dischi. Sarà così anche per gli Shearwater? Noi vogliamo crederci.
Nicola Gervasini

giovedì 18 febbraio 2010

FREEDY JOHNSTON - Rain on the city


Febbraio 2010
Buscadero


Vi diremmo forse una bugia se dicessimo che aspettavamo con ansia questo Rain On The City di Freedy Johnston, uno che nelle nostre menti è un uomo del decennio scorso, un artista da citare quando ricordiamo quanta bella musica riusciva a passare nei trituranti ingranaggi delle major negli anni 90 (i suoi dischi uscivano per la Elektra). E il riferimento alla casa discografica in questo caso non deve essere letto come un mero nozionismo da critici musicali in cerca di argomenti per riempire una recensione, ma come la fondamentale ragione della scomparsa di questo autore, piombato nel silenzio nel 2001 dopo che il suo facoltoso datore di lavoro lo scaricò perché giudicato non sufficientemente redditizio. Fare una pausa era doveroso in effetti, visto che se titoli come This Perfect World del 1994 e Never Home del 1997 sono ancora oggi dei must have del periodo, i due successivi dischi buttarono un po’ al vento tutto il prestigio raccolto e l’idea che anche nell’era moderna potesse esistere un originale e capace prosecutore delle idee pop-rock di Elvis Costello e Graham Parker. Ma da allora a suo nome sono usciti solo dei dischi interlocutori (un live e un cover-album), e ora Johnston finalmente decide di tornare allo scoperto e provare le vie indipendenti di una piccola etichetta. Unidici brani brevi, che recuperano lo stile elettroacustico del suo primo periodo e schiacciano l’acceleratore sui toni più melodici, dimentichi quindi di certe asprezze rock provate ai tempi di Never Home. Il produttore Richard McLaurin d’altronde è uno dei nuovi artigiani della Nashville più smussata, ma questo non toglie che il pub-rock ante-litteram di Johnston riesca ancora a trovare zampate vincenti come Venus Is Her Name, The Other Side Of Love (ma qui c’è il wurlitzer di David Briggs che fa miracoli) e l’irresistibile singolo (ma ha senso parlare ancora di “singoli” oggi?) Don’t Fall In Love With A Lonely Girl. E in generale è tutto il disco che appare essere un piacevole e convincente gioiellino, che magari non riuscirà a far tornare gli “heydays” di This Perfect World, ma perlomeno ci recapita il pop-rock sopraffino di The Devil Raises His Own o il roots-rock alla Mellencamp di Livin’ Too Close To The Rio Grande, tutto materiale didattico utile per le nuove generazioni di indie-rockers. Dove Johnston non convince appieno è nella sue inedite versioni da folk singer (Lonely Penny, Central Station) o da club-jazzer (la quasi samba The Kind Of Love We’re In), quasi a dimostrare quanto i suoi giri armonici abbiano bisogno di ritmo per risplendere. In ogni caso bentornato Freedy, abbiamo passato questo decennio senza di te, e solo ora ci rendiamo conto che qualcosa effettivamente ci mancava.
Nicola Gervasini

martedì 16 febbraio 2010

RODNEY DECROO - Mockingbird Bible


29/01/2010
Rootshighway



Non abbiamo mai avuto l'occasione di vedere in azione sul palco Rodney Decroo, ma saremmo pronti a scommettere che il ragazzo sia capacissimo di emozionare e di penetrare nell'anima di molti con le sue lunghe e sofferte canzoni. La sensazione è palpabile tra le note di questo Mockingbird Bible, terzo disco di questo scarruffato artista di Vancouver, e lo si respira ovunque, nella voce strozzata dalle emozioni e tra le pieghe del suo verboso songwriting. Ma tra il suonare davanti ad un pubblico e registrare un disco passa un fiume di scelte da fare, accorgimenti tecnici da prendere, decisioni artistiche fatte di rinunce e auto-limitazioni. Esattamente quel tipo di azioni che Decroo, come tanti altri artisti della sua generazione, non ha avuto il coraggio/esperienza/capacità e - perché no? - furbizia di fare. Per cui via a 60 minuti di musica, 13 brani spessi come il cemento, non un attimo di svago e leggerezza, per lui un lungo percorso liberatorio probabilmente, a noi solo una lunga sensazione di soffocamento.

Tutto molto "cool" e moderno, fin dal fatto che il disco in questione, se fatto a brandelli dagli ascolti a singolo mp3 dei giovani web-surfers odierni, non può che risultare intrigante, fin dal dark-blues acustico di Mockingbird o quando si arriva già al terzo atto di Gasoline, brano che si eleva sulla media per quell'arrangiamento alla Swell Season che fa ben sperare per il proseguo. Ma noi siamo all'antica forse, per noi gli album sono ancora "opere" che devono avere un senso d'insieme, non semplici collettori di canzoni, e quindi non possiamo non storcere il naso quando ci troviamo davanti a prodotti che sparano subito le cartucce migliori, quasi per la triste coscienza che oggi si ha tempo massimo 5-10 minuti per convincere qualcuno a concedertene 60. Ma qui, passata la traccia numero tre senza nulla da eccepire, gli altri momenti significativi bisogna cercarli a salti, passando magari al numero 5 per la bellissima Long White Road, dylanescamente storpiata con maestria, oppure al 9 per Loneliness Has The Soul Of A Spider, uno di quei titoli che colpiscono e un testo che da solo sorregge un delicato dialogo piano-chitarra acustica che viaggia dalle parti del Matthew Ryan più straziato.

Ma in mezzo ci sono brani troppo lunghi (Black Earth, Green Fields), se non proprio poco sostenibili alla lunga (St.Augustine, Lies Are Just Lies o As Surely As You Breathe, folk-songs "sulla via di Dylan" alla Dan Bern, ma senza averne la medesima forza lirica), che in generale fanno solo rimpiangere qualche arrangiamento più veemente e full-band. Un critico inglese (Rob Forbes della webzine Leicester Bangs) ha definito Mockingbird Bible quel perfetto mix di dark-folk, country struggente e "indie cool" per cui la rivista Uncut dovrebbe leccarsi i baffi. A voi capire dove stia il confine tra sarcasmo e complimenti.
(Nicola Gervasini)

sabato 13 febbraio 2010

NICOLAI DUNGER - Play


Febbraio 2010
Buscadero



"…e poi un giorno capì che era ora di capitalizzare mille idee diverse e i tanti spezzoni della propria arte lasciati per strada, e così è nato Play". Scusate se siamo partiti dal finale di questa storia poco nota, ma magari di Nicolai Dunger avete già sentito parlare quando nel 2003 un’entusiasta Will Oldham lo sdoganò partecipando al suo disco Tranquil Isolation, o ancora quando il successivo album si pregiò della firma di Mercury Rev in produzione. Oppure ve lo siete perso, semplicemente perché tredici dischi in undici anni di un artista svedese è facile che passino inosservati. Sicuramente lui non aveva ben sfruttato il momento favorevole, perdendosi in mille Ep e progetti sotto altro nome, e riscuotendo infine buona popolarità solo nel 2008, quando la connazionale Volvo usò una sua canzone per promuovere una propria vettura negli Stati Uniti. Play arriva a mettere a posto tutte le divagazioni di questi anni (dischi in lingua svedese, quartetti d’archi, terzetti jazz,…) grazie ad una produzione pulita (co-produce Staffan Andersson, un nome importante della nuova scena scandinava) ed un taglio decisamente roots-oriented negli arrangiamenti, tutti giocati sullo scambio acustiche-elettriche. Canzoni calde a dispetto della provenienza climatica (il disco è stato registrato praticamente al Polo Nord), persino romantiche quando non ci si vergogna del taglio mainstream del duetto con l’amica Nina Persson dei Cardigans (Tears In A Childs Eye), ma con soluzioni da vero songwriter americano degli anni 70 che rendono Crazy Train e Can You delle vere e proprie perle del genere. Sebbene si tratti di una registrazione casalinga, Dunger non nega nulla anche alla spettacolarità, per cui tra i brani sospirati da vero slow-core folker alla Bon Iver come Heart And Soul e When Your Work Is Done, affiora ad esempio un boogie con sezione fiati rhtythm & blues (Time Left To Spend). E ancora scherzi da vintage vaudeville come Entitled To Play, un numero d’altri tempi che susciterà l’invidia di Rufus Wainwright, oppure ballate acustiche a due voci con corde che sfrigolano (The Girl With The Woolen Eyes) o il finale baldanzoso di Many Years Have Passed, tutte prove di un autore forse non originalissimo con la penna, ma pieno di vitalità nel realizzare la propria musica. Lasciatevi dunque cullare dalla bellissima voce di Nicolai (alcuni vocalizzi ricordano lo Shawn Phillips che fu), uno che dopo tanto girovagare, ha finalmente realizzato un disco ben fatto e ben pensato dall’inizio alla fine. Alcuni la chiamano semplicemente maturità.
Nicola Gervasini

martedì 9 febbraio 2010

BLIND MELON - For My Friends


Febbraio 2010
Buscadero



Visto che non hanno potuto dire “buona la prima”, i Blind Melon non demordono e ripubblicano l’album For My Friends per il mercato europeo a distanza di quasi due anni dalla sua realizzazione, sperando stavolta in un più caloroso “bentornato” per uno dei nomi storici della scena rock degli anni 90. Un ritorno difficile, perché la solita tentazione di non porre mai la parola “fine” alle belle storie è la buccia di banana su cui sono scivolate quasi tutte le rock-band colpite dalla morte del loro frontman (Shannon Hoon morì all’indomani della pubblicazione del secondo disco, dando al gruppo la possibilità di pubblicare solo un disco postumo per capitalizzare i grandi consensi ricevuti). In questi casi mollare e darsi ad altri progetti sarebbe la scelta consigliata, giusto per evitare le figuracce in stile Doors post-Morrison, ma i Blind Melon hanno fatto una scelta simile a quella fatta dagli Ac/Dc, vale a dire continuare con un nuovo vocalist che assomigli all’originale e cercare di far finta di nulla sul passaggio. La somiglianza della voce del nuovo arrivato Travis Warren è impressionante, una scelta che magari ha soddisfatto i feticisti del gruppo, ma che lascia davvero interdetti perché l’operazione sa più di riesumazione che di vero e proprio omaggio. In ogni caso For My Friends è un lungo disco che riesce anche a ritrovare la grinta e il suono dei tempi d’oro, ma resta comunque un feticcio nostalgico dove anche un bel brano come So High finisce inesorabilmente a perdere il confronto (inevitabile, visto che sono loro stessi che lo cercano) con quella No Rain che li rese celebri. Per cui sentitevi rassicurati, il disco è ben realizzato e non delude le aspettative dei fans, grazie ad alcune discrete zampate come Make A Difference e Wishing Well, e le taglienti chitarre di Christopher Thorn e Rogers Stevens. Per chi invece nei 90 dormiva o ancora non era in età d’ascolto, tutto ciò potrà sembrare solo un anacronistico e inutile tour de force di una band che non ha saputo continuare con le proprie gambe. Se siete in vena di “completismi”, archiviate il cd accanto al nuovo degli Alice In Chains sotto la voce “non si ritorna sui propri passi”, ben lontano dai tanti che riescono ancora a farne di nuovi e girare pagina quando è il momento di farlo.
Nicola Gervasini

sabato 6 febbraio 2010

JACK SAVORETTI - Harder than Easy


04/01/2010
Rootshighway




Il nome potrebbe far pensare ad un nuovo blue-collar rocker del New Jersey, ma non ingannatevi, Jack Savoretti - al di là delle evidenti origini italiche - è inglese, e per giunta scolasticamente cresciuto in Svizzera. Non ve lo vendiamo come una "scoperta", quanto come una vera e propria sorpresa, perché fino ad oggi la sua musica difficilmente avrebbe potuto incrociare le nostre strade. Scoperto dallo scafato manager di Natalie Imbruglia con l'evidente speranza di farne un nuovo James Blunt, il ventiduenne Jack ha goduto di produzioni di buon livello fin dal suo primo disco (Between The Minds del 2007), video girati da bravi registi, e soprattutto una lunga serie di brani utilizzati in film e serie tv di successo (brani di questo disco si sono già ascoltati nei serial Grey's Anatomy e One Tree Hill). Ma evidentemente qualcosa di buono sta succedendo in quella parte d'Inghilterra che sta studiando gli aspetti più gustosamente melodici del cantautorato americano: l'ha dimostrato lo scorso anno il bellissimo disco di Howard Eliott Payne, lo sta dimostrando nel mondo più mainstream il deciso passo avanti qualitativo di Paolo Nutini, e ora arriva questo Harder Than Easy, programmatico fin dal titolo nel voler distaccarsi dal mondo dell'easy-listening. Già edito via web lo scorso anno, il cd esce nel gennaio 2010 con grandi e giustificate speranze di far accettare il nome di Savoretti anche nel jet set della musica che conta. E se Payne era volato negli States per affidarsi alle sapienti cure di Ethan Johns, Savoretti si è impossessato degli studi di registrazione di Jackson Browne, padrino artistico dell'operazione, che si è premurato di fargli trovare musicisti del calibro di Charlie Gillingham e David Immergluck dei Counting Crows o Larry Taylor e Steve Hodges della band di Tom Waits, e tecnici di primo livello come Jack Joseph Puig e il produttore Rick Barraclough. Il risultato è tutt'altro che rivoluzionario, sono "solo" 11 semplici, dolci, e semi-acustiche ballate che stanno tra il Brett Dennen più ispirato, il Joshua James più malinconico e il Ray Lamontagne meno evocativo. Ma valga come esempio di stile la cover scelta ad impreziosire la scaletta, una Northern Sky di Nick Drake fedele all'originale, quanto allo stesso tempo molto personale, una sfida impossibile che Savoretti vince con grandi onori. Quando invece esprime il suo, Savoretti è stato capace di calarsi benissimo nella cultura americana, prima piangendone le tragedie e le contraddizioni (Lost America), poi omaggiandone i padrini culturali (Russian Roulette sta tra il folk del Greenwich Village e Like An Hurricane di Neil Young). Jack con le parole non è certo un mago, affronta spesso temi sociali e di attualità senza andare troppo a fondo (vedasi il singolo decisamente Van-Morrisoniano Map Of The World) e affronta temi sentimentali con quel pizzico di banalità poetica che serve a rendere Wonder una perfetta folk-pop song da radio heavy rotation. Ma la title track, la struggente Mother e il baldanzoso finale di Patriot sono figlie di quella nobile arte fatta di sintesi e qualità che la musica della West Coast aveva insegnato tanti anni fa. E nel 2010 anche i quattro versi in croce di Songs From Different Times, assemblati con tale finissima perizia, continuano a suonarci più che necessari. (Nicola Gervasini)

lunedì 1 febbraio 2010

BLUE RODEO - Monografia

"It Can't Be Nashville Every Night"
Mentre guido verso i tuoi cancelli perlacei ho capito che non sarei mai potuta restarci tra tutte quelle montagne che ti tengono chiusa dentro e nascondono la verità ai miei occhi. Sono venuta da te con il mio cuore aperto a metà, i sogni sulle spalle e con l'illusione di un nuovo inizio. Posso sopportare questo peso, Nashville? Mi darai anche solo mezza occasione con il tuo stile del sud e la tua danza nascosta?
(Indigo Girls - Nashville, da Rites Of Passage, 1992)




I Blue Rodeo sono la band canadese per eccellenza.
No, no...non storcete il naso! Non abbiamo detto "la migliore band canadese di sempre": finché un'apocalisse non farà sparire dalla terra l'opera omnia della Band di Robbie Robertson e Levon Helm, quel titolo sarà tabù per tutti. E' ovvio... E lo stesso si potrebbe dire anche di altre band canadesi ancora sulla breccia, come ad esempio dei contemporanei Cowboy Junkies, visto che del loro The Trinity Session non ci si dimentica mai quando si stila una lista dei dischi fondamentali nel propagare i suoni della musica americana. Ma i Blue Rodeo (che della Band sono da sempre considerati i veri eredi) sono rimasti "cosa loro", dei canadesi, tanto che al di fuori del Nord America se li dimenticano sempre un po' tutti quando c'è da stilare liste e trovare predecessori stilistici, spesso confusi nel calderone delle band alt-country di inizio anni 90. Parliamo dunque del fatto che se fate un viaggio a Toronto e chiedete al fantomatico "uomo della strada" quale sia il gruppo più rappresentativo del luogo, l'unica alternativa a loro è che vi rispondano i Tragically Hip, probabilmente il loro corrispettivo più rock e più alternativo (gente che cantava invettive contro la country-music americana più conservatrice come It Can't Be Nashville Every Night appunto). Parliamo di una band che ancora oggi va nella Billboard canadese con invidiabile regolarità, ma che persino le riviste più specializzate statunitensi ed europee spesso si scordano anche solo di recensire. Eppure se oggi decidiamo di spendere per loro addirittura una monografia, è perché con il senno di poi ci si è resi conto che sarebbe giusto dare a questa band il merito di aver anticipato i tempi della cosiddetta "Americana", un termine non era ancora stato inventato quando loro già l'avevano "scoperto" (il suo utilizzo a livello popolare, col senso da noi spesso usato, risale agli anni '90 inoltrati).

Ancora oggi attivi fin dal 1985, la formazione dei Blue Rodeo è stata oggetto di continui cambi di line-up che hanno visto ruotare molti musicisti attorno alle due figure più importanti, Jim Cuddy e Greg Keelor. Entrambi voce, penna e chitarra del gruppo (con perfetta alternanza di leadership), i due hanno tirato fin dall'inizio le fila artistiche del combo, con un'intesa ed un'armonia che ha creato una produzione sempre costante e di ottimo livello. Come le grandi coppie rock di un tempo insomma, anche se la "storia del rock" ha insegnato che spesso grandi capolavori come Beggars Banquet dei Rolling Stones nacquero proprio perché l'egemonia creativa del duo Jagger-Richards veniva minata e messa in discussione dal Brian Jones di turno. E, nel caso dei Blue Rodeo, il terzo incomodo e l'anima artistica di difficile gestibilità trova la sua incarnazione nella controversa figura di Bob Wiseman. La storia vuole che Cuddy e Keelor, compagni di scuola di Toronto, giungessero a New York in cerca di fortuna e dell'ambiente giusto per formare una nuova band, dopo che in patria avevano già pubblicato qualche 45 giri proto-punk con gli HI-FI's. L'incontro con il concittadino Wiseman, pianista con inclinazione jazz e un'insana passione per Thelonious Monk, avviene nei locali della città, quando i due hanno già creato i Blue Rodeo con il bassista Bazil Donovan (l'unico altro membro che non uscirà mai dalla formazione) e il batterista Cleave Anderson. Con questo schieramento il quintetto si fa notare a Toronto come una delle migliori live-band, dediti ad un roots-rock con ascendenze country e folk, ma spesso anche melodiche e pop, che porterà la Risque Disque (ausiliaria canadese dell'Atlantic) a metterli sotto contratto e lanciarli sul mercato.



La prima parte della storia dei Blue Rodeo (1985-1992) si consuma con quattro dischi prodotti e lanciati sul mercato con tutti i crismi dell'epoca, compresi quindi anche seducenti video per MTV e produttori di primo grido, ma con vendite stratosferiche raggiunte solo in Canada e non negli Stati Uniti, dove il loro nome faticherà fin da subito a consolidarsi. E' il periodo migliore del gruppo, forti di una formula da più parti descritta come la mai vista session tra Gram Parsons e la Band, grazie all'unione di tristi e romantiche ballate degne della migliore Nashville con formule musicali molto elaborate, anche (e soprattutto) grazie all'apporto del geniale Bob Wiseman. Ma nel 1992, all'indomani del loro capolavoro Lost Together, gli attriti umani e artistici tra il duo Cuddy/Keelor e Wiseman si chiudono con l'abbandono di quest'ultimo, reo di aver intrapreso una carriera solista nel 1988 con un disco troppo acclamato dalla critica per non suscitare le gelosie dei compagni (il bellissimo e allucinato In Her Dream: Bob Wiseman Sings Wrench Tuttle). Anche qui la "storia del rock" si ripete, e più che di Brian Jones, stavolta Wiseman veste i panni del David Crosby che Roger McGuinn allontanò dai Byrds a causa delle sue insistenze sul voler affrontare temi politici e sociali nei brani. Gli intenti dei Blue Rodeo superstiti erano invece ben diversi, con i due leader sempre più intenzionati a sviare i propri testi su temi sentimentali e intimistici. Il resto dell'epopea non ha però tenuto il passo degli esordi, e dopo alcune produzioni non all'altezza del loro buon nome, i Blue Rodeo si sono rinchiusi nella loro Toronto, dove continuano ancora oggi a pubblicare dischi e ottenere consensi locali ormai lontano dai canali media mondiali Sempre sognando Nashville, ma da lontano. A poco è valso anche il tentativo di ricreare la salutare frizione umana avuta con Wiseman nella figura di Bob Egan, l'ex Freakwater rubato nel 2000 nientemeno che da quella fabbrica delle grandi idee che sono stati i Wilco di Being There. Il massimo risultato raggiunto è stato ritornare alla buona routine offerta dalle ultime tre prove in studio, proprio come è successo a tutti i grandi gruppi di questa fantomatica, vecchia e abusata "storia del rock".



:: Il capolavoro


Lost Together
[Risque Disque/ Discovery, 1992]

1. Fools Like You // 2. Rain Down On Me // 3. Restless // 4. Western Skies // 5. The Big Push // 6. Willin' Fool // 7. Already Gone // 8. Flying // 9. Lost Together // 10. Where Are You Now // 11. Last to Know // 12. Is it You // 13. Angels


In contemporanea con l'uscita di Casino del 1990, il marketing della WEA americana, nel disperato tentativo di lanciare il gruppo anche negli Stati Uniti, riuscì a far apparire i Blue Rodeo come backing-band di Meryl Streep nell'ultima lunga scena del film Cartoline dall'Inferno di Mike Nichols. La telecamera di Nichols indugiò su una performance della popolare attrice in puro stile honky-tonk, ignorando il più possibile gli immobili e poco fotogenici membri della band, eccezion fatta per le ultime immagini durante i titoli di coda, dedicate ad un indiavolato Bob Wiseman che danza a piedi nudi con la fisarmonica, come preso da chissà quale raptus dionisiaco. Fu quella la migliore rappresentazione di una spaccatura di animi e d'intenti che fortunatamente avverrà solo dopo il successivo disco, il migliore. Lost Together ironizzava fin dal titolo sulla sconfitta dei loro sogni di gloria in terra americana, con conseguente ritorno in patria sotto l'ala dell'Atlantic canadese. Timorosi di incappare in un altro produttore lontano dal loro spirito, i Blue Rodeo (che qui trovano in Glenn Milchem il loro definitivo batterista) pretesero di auto-produrre il disco, facendosi aiutare solo da Peter Doell, il vecchio ingegnere del suono di Miles Davis e Frank Sinatra. Nonostante si tratti di un album eccessivamente lungo (65 minuti, ma era l'usanza del periodo in cui esplodeva il formato CD), Lost Together trovò il perfetto dosaggio tra le tastiere di Wiseman e le chitarre dei due leader, compreso anche il giusto amalgama tra testi impegnati (Fools Like You rivendica ad esempio il rispetto per i Native Americans) e confessioni intime. Lo stile delle canzoni raggiunge qui una la giusta misura, né troppo country né troppo rock, melodico ed accattivante, ma mai furbo e sornione, uno di quei miracoli estetici che solo ai grandi artisti capita più di una volta nella vita. Lamenti d'amore (Already Gone è il più classico dei racconti del "the day after" di una rottura sentimentale), ma anche lunghe schitarrate (l'esaltante Willin'Fool), e in sintesi tanto di quel cosiddetto alt-country che sarà nelle radio americane da lì a poco (Rain Down On Me, Western Skies, …). Se i loro detrattori li hanno sempre accusati dell'eccessiva soporiferità di molte loro composizioni (infausto destino condiviso equamente con i Cowboy Junkies in questo caso), Lost Together era la risposta giusta da dare, grazie alla coralità decisamente (e positivamente) radiofonica della title-track, il giusto gran ritmo trovato nelle puntate rock di Restless e ballate mai troppo autocompatenti (Angels, Last To Know). Resta però un classico mancato, o semplicemente uno di quei album che bisogna sempre "riscoprire", e questo solo a causa dei meccanismi perversi di un'industria discografica ai tempi ancora imperante, e che non rimpiangeremo mai proprio per questo.




:: Dischi essenziali


Outskirts
[Risque Disque/ Discovery, 1987]

Quando registrarono il primo disco, Jim Cuddy e Greg Keelor erano entrambi già oltre i trent'anni di età, e le corde delle loro chitarre avevano già preso la polvere di più di dieci anni di vita on the road. Non ci si sorprende dunque se Outskirts appare ancora oggi come il disco di una band matura e già ben rodata. Quello che però impedì al disco di decollare non furono le dieci ottime canzoni che i due approntarono per l'occasione, quanto la produzione decisamente anni '80 di Terry Brown, sorta di Re Mida dell'FM canadese grazie al suo lavoro con i Rush (tutte sue le produzioni del periodo 1976-1982), ma anche fresco del successo planetario di (I Just) Died In Your Arms dei Cutting Crew (non vi angosciate se non la ricordate, varrebbe la pena dimenticarla). Insomma un uomo nato tra suoni enfatici e melodie rimarcate, esattamente quello di cui non avevano bisogno i Blue Rodeo per lanciare il loro credo musicale, ma anche un vecchio volpone da sala di registrazione che conosce tutte le nuove tendenze e trasforma Bob Wiseman in un perfetto organista da garage-band anni 60 (anche se lui troverà modo di sfogare la sua formazione da pianista jazz nella lunga Piranha Pool). Il suono dell'album potrebbe essere considerato un omaggio in salsa radiofonica al Paisley Underground degli anni 80, se è vero che le chitarre di Heart Like Mine cercano le acidità del revival del West-Coast sound e Rose-Coloured Glasses sfoggia 12 corde byrdsiane e un tema rubato a My Back Pages di Dylan senza alcuna remora di plagio. La classica dolce ballata "alla Blue Rodeo" fa capolino in una Rebel che celebra i vecchi amici della loro era punk, e nell'agrodolce Try, che, forte di un video patinato, resterà il loro singolo più noto al grande pubblico. Outskirts resta un fresco quanto irrisolto esordio, con qualche brano minore di troppo (il rock stradaiolo alla Del Lords di Joker's Wild non è nelle loro corde) e qualche altro da riscoprire (Floating ad esempio). Per iniziare bastava anche così.



Diamond Mine
[Risque Disque/ Discovery, 1989]

Quando nel 1992 i Jayhawks ribaltarono in chiave più melodica la recente rivoluzione (o forse sarebbe meglio dire "involuzione") innescata dagli Uncle Tupelo, qualcuno si ricordò improvvisamente di questo disco, vero e proprio faro per l'improvvisa maturazione di Olson e Louris. In cabina di regia stavolta sale un giovane e ancora poco affermato Malcolm Burn, tastierista di fiducia di Daniel Lanois, che porta in dote il nuovo roots-sound vibrato e pieno di effetti professato dal maestro. Dall'altra parte c'è una band che trova qui la perfezione nel dosare i sempre più evidenti debiti con il songwriting di Gram Parsons con lo scalpitante sperimentalismo delle tastiere di Wiseman (evidente nei lunghi momenti quasi progressive della title-track), che per l'occasione confeziona alcuni piccoli strumentali piazzati tra un brano e l'altro. Sono qui presenti alcune delle migliori canzoni del loro songbook, come la dylaniana God And Country ("Dio e Patria, tu la chiami Giustizia, io la chiamo servizio a se stessi", frasi polemiche e di contestazione che spariranno presto dalla loro penna) e il singolo How Long. La vena romantica della band resta preponderante in Now And Forever, Girl Of Mine e Love And Understanding, brani che Burn commentò con gusto, portando il sound della band su volumi più bassi, e inserendo fisarmoniche e strumentazioni country-oriented. Bisogna aspettare almeno quaranta minuti prima che il ritmo si faccia più sostenuto in One Day (con tanto di chitarre rockabilly), Florida (momento rock più vicino al primo disco) e l'oscura Fuse (dove affiora il suono del Malcolm Burn che sarà). Diamond Mine vendette anche più del predecessore in patria, ma continuò a rimanere un oggetto oscuro nel resto del mondo. Uscire troppo presto fu il primo grande difetto, non averlo fatto in terra statunitense quello decisivo per non poter partecipare da protagonista alla "storia del rock".




Casino
[Risque Disque/ East-West-WEA, 1990]

Nel 1990 la musica stava cominciando a cambiare anche nelle charts americane, e così una major come la WEA pensò bene di dare una chance a questi placidi canadesi così osannati in patria. Casino è il primo (nonché ultimo) "disco americano" dei Blue Rodeo, una vera e propria operazione commerciale che avrebbe dovuto lanciarli definitivamente a livello mondiale. Il batterista Cleave Anderson non ci credette fin da subito, e si rifiutò di fare il viaggio fino ad Hollywood ritirandosi a vita privata (lo sostituì solo per quest'occasione il session-man Mike French). Proprio nell'eden del cinema americano, nei giganteschi studi della Capitol, la WEA fece registrare ai ragazzi questi dieci brani cercando di trasformarli in una nuova country-pop band che sfruttasse la nuova rinascita economica di Nashville. Visto che le canzoni di Cuddy e Keelor mal si adattavano a essere trasformate in easy-pop rurali alla Garth Brooks, vennero affidati alle cure di Pete Anderson, il produttore del nuovo country-outlaw Dwight Yoakam. Un fiero artigiano degli studi di registrazione che lavorò molto sulla pulizia dei suoni e sulle melodie, ma che non dovette poi faticare molto a far risaltare la bellezza di alcuni splendidi momenti come What I Am Doing Here o Montreal. Il richiamo alla nuova Nashville era evidente in Til I Am Myself Again, singolo che volutamente richiamava un recente successo di Rodney Crowell, o da momenti morbidi come Last Laugh. Anderson comunque spronò la band ad uscire dal clichè della slow-ballad, cercando di pompare il muro del suono laddove serviva (Two Tongues e Trust Yourself hanno un energia insolita, Time spara addirittura un micidiale riff alla Replacements, You're Everywhere prova la carta dell'honky tonk saltellante…). Casino resta un disco poco amato dai fans per quel suo eccessivo formalismo, la scelta di brani ad effetto (la ballatona After The Rain è proprio da accendino allo stadio…) e con testi poco graffianti, oltre che una forzata normalizzazione dell'estro di Wiseman, che costituirà la prima causa del suo distacco finale dal gruppo. Disco in verità ancora molto godibile, seppur effettivamente troppo pensato e pre-confezionato, verrà comunque giudicato un fallimento in termini di vendite, e risulterà essere uno dei "forati" (vinili/cd deprezzati perché invenduti) più facilmente reperibili degli anni novanta.




Five Days in July
[Warner Music Can./Discovery, 1993]

A sorpresa il primo colpo senza Wiseman sembrò dar ragione ai due "despoti" Jim e Greg, visto che nel 1993 Five Days In July ottenne consensi unanimi e pure il loro record di vendite, risultato ancor più soddisfacente se si pensa che gran parte degli applausi vennero riservati proprio al nuovo pianista James Gray. L'avventura dei Blue Rodeo ripartì da Neil Young, alla cui arte dell'improvvisazione e della perfetta espressione del dolore Fide Days In July è dichiaratamente ispirato. Come usava fare il Neil nazionale, l'album venne registrato in presa diretta, inizialmente con lo scopo di farne un demo da inviare alla nuova casa discografica (la Warner Bros canadese) affinché si mettesse alla ricerca del produttore giusto, mentre alla fine le undici canzoni che ne uscirono risultarono già praticamente perfette e finite, con la sola necessità di aggiungere qualche sovra-registrazione e di chiedere alla guest-star Sarah McLachlan di realizzare alcune parti vocali. Quasi a dimostrare quanto poco anche loro credessero nel nuovo investimento, quelli della Warner Music accettarono che il disco uscisse senza che un produttore riaggiustasse alcuni passaggi ritenuti troppo grezzi per il target della band. Eppure qui il valore aggiunto erano proprio l'assolo distorto che sfregiava l'emotivamente sfiancante Five Days Of May, il senso d'immediatezza e urgenza espressi da Hasn't Hit Me Yet, Bad Timing, Cynthia e Head Over Hills, ed in genere splendide sonorità che riuscivano a richiamare il fruscio dell'ormai sepolto vinile, risultando comunque perfette. Particolare inedito anche la presenza di una cover, e in questo caso la scelta di ripescare Til I Gain Control Again di Rodney Crowell sembrò quasi un tentativo di riconciliarsi con il loro fallito sogno nashvilliano. Senza Wiseman a inasprire i toni, l'album virava decisamente verso le tinte tenui di una serie di sofferte love-songs, con momenti anche intensi nei brani più lenti ed evocativi come What Is This Love, oppure come il finale a cappella di Tell Me Your Dream, poesia unita ad una acustica Know Where You Go che addirittura ricorda i Pink Floyd acustici di Meddle. Resta una generale sensazione che la bellezza dei suoni riuscisse a nascondere una certa ripetitività di temi e melodie, ma in ogni caso Five Days In July è una delle esperienze sonore più belle degli anni 90, un disco dotato di una magia rara e probabilmente irripetibile.




The Things We Left Behind

[Warner Music Canada 2009]




E' difficile pensare a qualcosa di meno appetibile di un lungo doppio album licenziato da una band che ormai da quindici anni non produce più nulla di veramente significativo, e che per di più ha sempre avuto negli eccessivi rilassamenti e in alcune evidenti prolissità il proprio maggior difetto. Eppure The Things We Left Behind è qui da sentire, 85 minuti di puro Blue Rodeo-sound che riescono raramente a stancare, sedici brani che Greg Keelor e Jim Cuddy hanno scritto e riscritto in più di vent'anni di carriera, ma che evidentemente non trovavano la forza per ribadire con la giusta convinzione. Questo disco è forse l'apice di un recupero di quella voglia di tornare e rimettere il naso fuori dai confini canadesi che già aveva caratterizzato i non disprezzabili Are You Ready e Small Miracles, una specie di sfogo liberatorio per rivendicare il proprio posto d'onore negli annali del rock. E soprattutto, udite udite, qua e là affiorano episodi che fanno davvero gridare al ritorno ai tempi d'oro, lontani ormai anagraficamente, ma ancora attuali nel perfetto mix di suoni d'applausi e songwriting fluido e convincente sciorinato in One More Night, Wasted e Never Look Back, veri e propri figli minori del grande Lost Together del 1992. Ma quello che impressiona stavolta è il ritorno ad uno studio di arrangiamenti e soluzioni alternative all'abusato dialogo piano-chitarre acustiche, con sei corde molto più rock ma mai troppo sguaiate, organi pressanti ma non invadenti, e armonizzazioni vocali sempre puntuali. Niente elettronica, nessun atteggiamento indie-intellettualistico "à la page" e nessuna concessione a tutto quello che questi anni 2000 hanno comunque fatto scorrere, i Blue Rodeo restano una band nostalgica e per nostalgici, e quando sperimentano (Million Miles, o la stessa title-track), lo fanno sempre senza mai uscire dai canoni di quello che i ragazzini di oggi chiamano "classic rock". I brani scorrono veloci, con il solito mix tra country-rock (Sheba e Arizona Dust), travestimenti da Beatles rurali (And When You Wake Up o You Said) e lunghe cavalcate alla Neil Young (i dieci minuti di Venus Rising), senza cavalli pazzi nel motore, ma con qualche optional strumentale in più al posto di guida. Le lungaggini ci sono, più dovute alla quantità che all'effettiva qualità, e al massimo avremmo potuto rinunciare a qualche piano-song troppo auto-compiacente (One Light Left In Heaven),o a pop-songs che non tengono il passo delle altre (la leggerina Gossip), ma nel complesso questi cinque attempati signori di Toronto sono riusciti a mantenere un livello invidiabile. The things We Left Behind è un disco non per tutti, bisogna essere già pienamente predisposti a questo stile e non cercare rivoluzioni, consci che non è da un disco dei Blue Rodeo che potranno partire. Consigliamocelo tra noi come veri carbonari, come fosse un oggetto vietato perché contro le regole del progresso o una droga pericolosa per l'evoluzione umana: pare che una dose per uso personale sia ancora consentita.




:: Il resto


Nowhere To Here
[Warner Music Can/ Discovery, 1995]
Tremolo
[Warner Music Can/ Discovery, 1997]

Dopo tanti complimenti ricevuti per Five Days In July, i Blue Rodeo buttarono tutto all'aria con un'accoppiata di dischi non brutti, ma semplicemente sbagliati. Il retroscena fu il passaggio alla Warner Bros, che provò a ricondurre la carriera del gruppo dall'alto e per il secondo appuntamento (Nowhere To Here) si inventò una svolta rock che probabilmente non capirono nè la band, nè John Whynot, ingegnere del suono promosso a produttore per l'occasione. Whynot dimostrò tutto il suo "non-savoir-faire" non riuscendo a trovare la giusta taratura tra chitarre inutilmente (e tardivamente) "ingrungite" e canzoni senza i giusti attributi. Sorpassare i sei minuti della narcotica Save Myself è dura, ma se ci si riesce, il premio è comunque qualche buon momento (Better Off As We Are era un singolo azzeccato, nonostante il riff un po' alla Pearl Jam), misto alle soliti lungaggini (Sky, Flaming Bed). Nowhere To Here venne trattato forse fin troppo male dalla critica, che lo bocciò senza se e senza ma, quando invece riascoltato oggi conserva numerose tracce della migliore arte dei Blue Rodeo. Anche perché il successivo Tremolo, affidato sempre a John Whynot, fece anche peggio, con il deleterio tentativo di ricreare la magia da favola di Five Days in July, riuscendo solo a ricoglierne gli aspetti più zuccherosi e tediosi. Il fatto che ci sia qualche buon brano (Moon & Tree, I Could Never Be That Man) non salva un disco lungo e pieno di brani da dimenticare dal diventare forse la loro opera meno consigliabile.



The Days In Between
[Warner Music Can./Universal, 2000]
Palace Of Gold
[Warner Music, 2002]

I "giorni in mezzo" della storia dei Blue Rodeo li vedono ormai fuori dal grande giro e spettatori inerti dei grandi cambiamenti dell'industria discografica, non più disposta a dare chance ad artisti senza le opportune garanzie di ritorni economici, visto l'improvviso calo delle vendite dei cd e l'avvento dell'era internet. The Days In Between era un tipico disco alla Blue Rodeo, con l'unico difetto di viaggiare un po' a tentoni nel buio di un'ispirazione sommaria (la copertina sembrava quasi simboleggiarlo), e di non avere frecce importanti da scagliare se non la patinata produzione di Trina Shoemaker (Sheryl Crow e Emmylou Harris tra le sue clienti) e canzoni non più che piacevoli. Una normalità che fece finire l'album direttamente nel dimenticatoio (il meno venduto della loro saga), e che portò alla scelta di aggiungere il poliedrico Bob Egan dei Wilco a ravvivare l'ambiente per il successivo Palace Of Gold. Che, a dispetto delle pretese di rinnovamento e l'inserimento di una bella quanto improbabile sezione fiati, risulterà essere un altro passo minore, con in più la responsabilità di aver fallito la sperimentazione verso una nuova era artistica che di fatto non era mai iniziata.




Are You Ready
[Warner Music Can./Rounder, 2005]
Small Miracles
[Warner Music Can./Telesoul, 2007]

Dopo una salutare pausa di tre anni, con Are You Ready arrivarono un singolo (Rena), che Cuddy dedicò alla moglie dichiarando di averla scritta cercando di ricreare lo stile dei giorni in cui la conobbe (epoca Casino…), e un brano (Beverly Street) addirittura riesumato dalle outtakes di Diamond Mine. Insomma, arrivò la fine dell'inutile pellegrinaggio alla ricerca di un nuovo suono e l'inevitabile rivolgimento su se stessi. Ancora una volta si rispettano le regole non scritte della "storia del rock" quelle che dicono che per non sembrare troppo vecchi per fare rock, basta solo smetterla di tentare di sembrare giovani. Cuddy e Keelor hanno 50 anni più che suonati quando ritrovano con Are You Ready, se non il genio, per lo meno la buona mano nello scrivere belle canzoni e suonarle con tutta la loro migliore capacità di emozionare. Era un disco che si guardava alle spalle senza più timore, che recuperava la convinzione degli inizi senza più l'affanno di dover seguire i tempi, insomma l'opera della raggiunta maturità. Due anni dopo gli fece eco Small Miracles, persin meglio accolto dalla critica, ma in verità leggermente penalizzato dal grave abbandono del pianista James Gray in favore del nuovo Bob Packwood. In ogni caso un'altra opera regolare e quadrata nel raccontare le nuove storie di due vecchi compagni di scuola che non si sono mai voluti arrendere e che restano due inossidabili istituzioni della musica canadese



:: Riepilogo (discografia)

Nel 2001 Jim Cuddy scrisse nelle note di copertina all'unico Greatest Hits esistente della band (un Volume 1 che non ha ancora conosciuto il secondo) che reputava impossibile compilare un "meglio" della band, per cui la lista offerta prevedeva meramente i 15 brani usciti come singolo, giusto per trovare un metodo di selezione. Per questa ragione se volete farvi un'idea dei Blue Rodeo con un unico titolo antologico, consigliamo di sviare le vostre attenzioni sul bellissimo e torrenziale live Just Like A Vacation, che nonostante sia testimonianza di una tournee a seguito del loro disco peggiore, coglie la band in un momento ispirato dal punto di vista dei suoni e della coesione e vanta una scaletta più che esaustiva. Buono, anche se "only for fans", il recente Blue Road.

Outskirts (Risque Disque/ Discovery, 1987 ) 7,5
Diamond Mine (Risque Disque/ Discovery, 1989 ) 8,5
Casino (Risque Disque/ East-West-WEA, 1990) 8
Lost Together (Risque Disque/Discovery, 1992) 9
Five Days in July
(Warner Music Can./Discovery, 1993) 8,5
Nowhere to Here (Warner Music Can./Discovery, 1995) 7
Tremolo
(Warner Music Can./Discovery, 1997) 5,5
Just Like a Vacation (Warner Music Can./WEA Int., 1999) 8,5
The Days in Between (Warner Music Can./Universal, 2000) 6
Palace of Gold (Warner Music, 2002) 6
Are You Ready (Warner Music Can./Rounder, 2005) 7
Small Miracles
(Warner Music Can./Telesoul, 2007) 6,5
Blue Road (Warner Music Can/WEA Int., 2008) 7
The Things We Left Behind (Warner Music Can./Telesoul, 2009) 8

Chiudiamo con una piccola appendice su alcune carriere soliste. Rimandiamo ad altra occasione una rivisitazione di quella di Bob Wiseman, su cui bisognerebbe spendere ben più di due parole, e che per certi versi appare troppo lontana dalla storia dei Blue Rodeo per suoni, intenti e ispirazione. Poche invece (e generalmente poco avventurose nello stile) le sortite dei due leader, incapaci di cambiare pelle anche al di fuori del gruppo. Tra tutti, il più consigliato resta Light That Guides You Home di Jim Cuddy del 2006, che sfrutta la ritrovata vena d'autore del suo titolare. Val la pena ricordare il bel disco pubblicato lo stesso anno dal nuovo membro e polistrumentista Bob Egan (The Glorious Decline), che continua a guardare in area Wilco come stile, nonostante sia stato concepito con la collaborazione dell'altro Blue Rodeo Bazil Donovan. Di quest'ultimo si ricorda solo una singolare (quanto fine a se stessa) uscita (Matinee), album in stile retro-country/hillbilly, con omaggi ad Hank Williams e Jerry Lee Lewis.

Jim Cuddy
All in Time (WEA International, 1998)
Light That Guides You Home (WEA International,2006)

Greg Keelor
Gone (WEA, 1997)
Seven Songs for Jim (Warner Music, 2005)
Aphrodite Rose (Warner Music, 2006)

Bob Egan
Bob Egan (Bog Egan, 1999)
The Promise (Garcorps, 2002)
The Glorious Decline (Fontana/ Club de Musique, 2006)

Bazil Donovan
Matinee (Telesoul, 2008)

BILL RYDER-JONES

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