mercoledì 27 marzo 2013

DAVID BOWIE

  
 David Bowie The Next Day
[RCA/ Sony 
2013]
www.davidbowie.com


 File Under: Where are we now?

di Nicola Gervasini (15/02/2013)

Che ci fa David Bowie su Rootshighway? Tranquilli, nessun ritorno in tinte roots per il Duca Bianco: The Next Day, già celebratissimo comeback dopo dieci anni di silenzio e preoccupanti rumours di malattie e invalidità varie, è un Bowie-record al 100%. E probabilmente tanta attesa era davvero solo dovuta al fatto che David si deve essere spaventato quando con Reality ha prodotto il suo unico disco né brutto né bello, ma semplicemente inutile (come vorremmo che una simile paura attanagliasse anche altri suoi colleghi e coetanei!). Se oggi ne parliamo anche su queste pagine è solo perché The Next Day, oltre ad essere innegabilmente un disco di gran spessore e per questo necessario (anche se è ancora troppo presto per definirne un peso specifico all'interno dell'opera bowiana), è anche un album che in qualche modo potrebbe aiutare a chiudere il cerchio di una maturazione dell'ascoltatore rock italiano.

Vorremmo sperare sia finito il tempo in cui chi ascoltava Springsteen vedeva Bowie come il nemico (e viceversa), e se nel 1984 era effettivamente difficile per chi professava il verbo del rock da strada e delle radici trovare sostanziali differenze tra Tonight di Bowie e Arena dei Duran Duran (mentre quelle con i dischi dei Del Fuegos, Green On Red o Husker Du apparivano lampanti), oggi in The Next Day ritroviamo magicamente tutto. Non è rock delle radici, semplicemente perché Bowie è lo sradicato per eccellenza, capace di far nascere fiori colorati da qualsiasi humus gli capiti sotto le mani. Delle canzoni di The Next Day ve ne parleranno in tanti e anche più dettagliatamente, ci sono i richiami al glam rock che fu di (You Set) the World on Fire, i riffoni alla Tin Machine seconda edizione di The Stars (Are Out Tonight), il pop sintetico di If You Can't See Me, le spigolature alla Scary Monsters della title-track e tanto tanto altro, compresa lo straordinaria Where Are We Now? che sembra una riposta a Thursday's child, il suo ultimo grande singolo.

Quattordici brani (diciassette nella consigliata edizione deluxe) che mancavano alla sua discografia, e già solo questo è il più grande successo. Ma soprattutto la capacità di usare un linguaggio rock davvero universale, dove il marchio di fabbrica può piacere o no, ma a sessantasei anni David dimostra di essere l'unica rockstar che ha davvero capito che il futuro è un unico calderone dove le nicchie stilistiche continueranno ad esistere solo in funzione della possibilità di unirsi e mischiarsi tra loro. Per questo The Next Day è un disco importante anche per queste pagine, perché siamo già sicuri che da qui partiranno anche molti artisti appartenenti al mondo della canzone americana. Poi a voi la scelta se amarlo, farvelo solo piacere o detestarlo: sicuramente sarà impossibile ignorarlo.

     

lunedì 25 marzo 2013

THE FIELD



The Field 
In The Basement
[Music Secrets Records 2013] 

  garage rock 60s


A volte le cose iniziano così, per caso o per passione, e poi finisce che tra una giornata lavorativa e la vita familiare quattro non più giovanissimi varesini riescano a produrre un cd come In The Basement, album registrato già qualche tempo fa, ma solo ora ristampato dalla Music Secrets. I Field sono una band ormai nota nel varesotto, attivi fin dal 1999 come nome e dal 2004 con la formazione attuale (Luca Selvini voce e batteria, Franco Gialdinelli al basso, Luca Gallo chitarre e Christian Bossi alle tastiere) e dediti ad un garage-rock revival che potrete capire quanti pochi adepti possa contare nel nostro paese. I riferimenti, al di là di tutto il beat inglese degli anni 60, sono quelli dei 13th Floor Elevators e praticamente qualsiasi più o meno conosciuta band sia finita nel cofanetto Nuggets di Lenny Kaye. Fossero nati negli anni 80 si sarebbero potuti tranquillamente inquadrare nel recupero di quelle sonorità che diede vita ai dischi dei Fleshtones o dei Creeps, ma negli anni 2000 questi tredici brani sono classificabili come puro classic-rock. Difficile distinguere tra i tanti brani autografi (menzione particolare per In The Fog e You're Nothing) e le cover (e questo suona già come un complimento), soprattutto se i brani rivisitati sono sia brani noti come Mr. Soul di Neil Young, Can't Explain dei primi Love, Pretty Big Mouth dei Count Five o Louie Go Home di Paul Revere & The Raiders, ma anche oggetti più oscuri come 1-2-5 dei canadesi Haunted o vere chicche come Flashback dei Moving Sidewalks (embrione di quelli che saranno gli ZZTop). Registrazione in studio professionale a dispetto del titolo e del genere, ma il feeling è proprio quello giusto per un sano e rozzo rock di un tempo.
(Nicola Gervasini)

www.facebook.com/TheFieldgarageband

venerdì 22 marzo 2013

ADAM GREEN & BINKI SHAPIRO


ADAM GREEN & BINKI SHAPIRO
ADAM GREEN & BINKI SHAPIRO
Rounder/Concord Records
***
Personaggio baciato da insperata fortuna nel corso degli anni 2000, Adam Green può tranquillamente essere considerato un veterano della scena indie internazionale. Sia da solo (Jacket Full OF Danger del 2006 resta uno dei titoli base degli anni 2000), sia con la band dei Moldy Peaches (responsabili di Anyone Else But You, famoso brano guida del film Juno), Green ha avuto l’indubbia capacità di captare l’”hype”del momento trasformando in oro alcune tematiche pop-rock antiche e decisamente demodè. Il gioco ha avuto anche un che di personale fino ad un certo punto, ma già Sixes & Sevens del 2008 cominciava ad indugiare troppo in meri esercizi di stile senza troppa sostanza. Il suo maggiore divertimento è quello di ricreare perfettamente suoni e atmosfere di stili anni 60-70 presi dal mondo soul e pop, quasi una sfida da vero musicista (lo aiuta il produttore Noah Georgeson, solitamente al seguito di Joanna Newsom e Devendra Banhart) che ricorda gli esperimenti del Todd Rundgreen di Faithful (era il 1976), album dove l’artista si divertiva a riprodurre fedelmente classici rock con la semplice abilità di uomo da studio. Per il suo nuovo album il modello è quello delle coppie pop degli anni sessanta, soprattutto Lee Hazlewood e Nancy Sinatra, e per la parte di quest’ultima il nostro si è avvalso della decisamente affascinante Binki Shapiro, ex voce dei Little Joy (un side-project degli Strokes) Probabilmente se queste dieci canzoni fossero davvero cover prese dal songbook di Hazlewood o magari della coppia Dolly Parton-Porter Wagoner (altro modello evidente nonostante il sound sia lontano dal country dei due) si potrebbe apprezzare il rigore filologico della sua arte, ma essendo in verità brani autografi che semplicemente vogliono solo “sembrare delle vere cover” lascio a voi decidere se l’operazione abbia senso o no. Certo è che stavolta il risultato è stato centrato anche meglio che nei suoi ultimi dischi, perché poi è innegabile che Green ci sappia davvero fare sia nel calarsi nel sound da pastiche folk-pop-soul degli anni sessanta, sia a cantare con quella voce impostata che oggi non si usa più e suona volutamente ne irrimediabilmente vintage. Fortunato anche a trovare in Binki Shapiro l’unica possibile reincarnazione vivente di Nancy Sinatra, per voce profonda e gelido sex appeal, vero valore aggiunto in brani comunque di valore come Don’t Ask For More, Casanova o Here I Am. Album brevissimo (27 minuti) più per rigore storico che per necessità, Adam Green and Binki Shapiro potrebbe tranquillamente essere la colonna sonora di un prossimo film di Quentin Tarantino, ma probabilmente anche il grande regista potrebbe preferire gli originali
Nicola Gervasini

mercoledì 20 marzo 2013

ÓLÖF ARNALDS


Ólöf Arnalds
SUDDEN ELEVATION
One Little Indian/Self
***
Nelle mappe musicali mondiali l’Islanda restava solo una terra di vulcani e ghiacci finché non sono arrivati Bjork con i suoi Sugarcubes a ricordare a tutti che anche da quelle parti si fa musica. Da allora la scena islandese non ha avuto un suo grande sviluppo anche per l’esigua popolazione, ma da qualche anno pare che anche Bjork abbia trovato finalmente una giovane artista a cui passare il testimone. Ólöf Arnalds è una folksinger bionda e strettamente legata alla tradizione folk nordica, ed è già riuscita a farsi notare anche al di fuori dei propri confini con due album (Við Og Við  del 2007 e Innundir Skinni del 2010), il secondo dei quali vantava la collaborazione della stessa Bjork e la produzione di  Kjartan Sveinsson e  Davíð Þór Jónsson dei Sigur Rós. Sudden Elevation è invece prodotto dall’ex Sugarcubes Skuli Sverisson e, anche se trattasi di produzione tutta islandese, cerca un respiro più internazionale fin dalla scelta di abbandonare la lingua madre degli esordi in favore dell’inglese (è singolare pensare che in Italia, per avere speranze di vendere, molte band hanno invece dovuto fare il percorso inverso e arrendersi all’italiano, ma questa è un’altra storia). Atmosfere eteree, magia nordica trasformata in musica, Sudden Elevation combina alla perfezione la tradizione islandese con il nuovo spleen dell’indie-folk statunitense, risultando, come spesso sta succedendo, un prodotto composto da elementi vecchissimi per un risultato modernissimo. La critica che si può muovere a un disco del genere, che, a parte qualche guizzo (German Fields), appare monolitico nella sua impostazione, è quello di concentrarsi solo su due elementi (la voce suadente della Arnalds e l’indubbio fascino di certe melodie), lasciando in secondo piano una ricerca musicale che resta ancorata su un unico canovaccio. Come dire che se non vi piace una canzone allora non vi piacerà tutto l’album e viceversa. Per il resto la Arnalds si conferma artista pronta a salire un gradino verso la maturità artistica, forte anche di una struttura ragionata (il disco è quasi un concept) del songwriting. Anche se fra poco è primavera, Sudden Elevation potrebbe essere la colonna sonora ideale per il vostro prossimo freddo inverno.
Nicola Gervasini

lunedì 18 marzo 2013

THE UNKNOWN MORTAL ORCHESTRA



THE UNKNOWN MORTAL ORCHESTRA
II
Jagjaguwar
***1/2

Neozelandesi dal nome anche abbastanza oscuro e magniloquente, gli Unknown Mortal Orchestra sono un trio che nel 2011 con il loro esordio omonimo hanno fatto un discreto rumore (nella top 50 dell’anno per Uncut).  Scoperti dalla Fat Possum, etichetta da sempre molto attiva come talent-scout, per questo secondo capitolo, zeppelinianamente intitolato semplicemente II, si sono accasati alla Jagjaguwar, etichetta più in linea con la loro proposta e più aggressiva in termini di distribuzione.  Nonostante il cambio però il nuovo disco non porta sostanziali variazioni al loro suono (sono lontani i tempi in cui accasarsi in una nuova etichetta significava anche cambiare radicalmente la propria identità), un difficilmente definibile connubio di space-rock e suoni lo-fi quasi al limite dello shoegazer, un po’ come unire Hawkwind, My Bloody Valentine e Yo La Tengo in un'unica orchestra. Il risultato è inizialmente stordente, sospeso tra brani decisamente elettrici (la cavalcata quasi younghiana di No Need For A Leader) a momenti più eterei come Monki, lunga indie-ballad lenta e ipnotica infarcita di suoni elettronici, o una From The Sun che parte con un arpeggio che ricorda tanto quello di Circle di Edie Brickell ma esplora territori decisamente meno easy-listening. Quello che caratterizza più la band è però l’utilizzo delle voci, spesso filtrate, soffocate, non naturali anche quando magari lo sono, elemento che può anche dare fastidio alla lunga ma che dona sicuramente un aspetto oscuro e intrigante alla loro musica. Ruban Nielson, Jake Portrait e Riley Geare in ogni caso dimostrano spesso e volentieri il loro attaccamento a schemi classic-rock quando si adagiano su giri da jingle-jangle rock anni 60 come Swim and Sleep (Like a Shark), o si concedono le aperture hendrixiane di One At a Time, i giri alla REM prima –era di The Opposite of Afternoon, o magari quando giocano a fare la versione più stridula e elettronica dei Pavement  (Faded In The Morning). Lontano dall’essere un disco fondamentale o un gruppo che segna una nuova via per il mondo del rock indipendente, II degli Unknown Mortal Orchestra può comunque diventare una valida testimonianza per capire dove si sta dirigendo il mondo delle nuove leve rock, che dopo la sbornia degli anni zero, sembra un po’ alla ricerca di quella identità comune persa nei mille e troppi rivoli di un mercato ormai senza regole e senza limiti. Se saranno loro uno dei nomi di una nuova era ce lo dirà solo il tempo.
Nicola Gervasini


mercoledì 13 marzo 2013

RICHARD THOMPSON


 Richard Thompson Electric
[Proper 
2013]
www.richardthompson-music.com

 File Under: guitar maestro

di Nicola Gervasini (19/02/2013)

Sta diventando persino noioso recensire gli album di Richard Thompson. L'uomo è inattaccabile: resta uno dei migliori chitarristi della storia, sia sul piano tecnico (per cui è considerato un maestro), sia da quello emozionale, resta uno degli autori più importanti della musica inglese, con svariate canzoni "ricoperte" da artisti di gran valore, e resta uno che c'era sempre laddove si scriveva la storia del brit-folk, e che continua ad esserci laddove si stilano le classifiche di fine anno di un sito o giornale folk-oriented (e non solo…). Resta inoltre un performer sempre brioso e sorprendente, i suoi concerti paiono sempre perfetti, e se dicessimo che non ha mai veramente sbagliato un disco in carriera non saremmo poi troppo lontani dalla verità. Electric, diciamolo subito, è l'ennesima testimonianza della sua superiorità, sulla media ma anche sull'eccellenza probabilmente, undici brani come al solito impeccabili per costruzione melodica e testi (spesso anche alquanto crudi e diretti come Sally B o ironici come Straight And Narrow), più altri sette dell'edizione Deluxe che consigliamo (più che altro per sentirlo cantare l'italiano antico di So Ben Mi Ch'a Bon Tempo, rilettura di una vecchia aria di Orazio Vecchi del 1600).

Stavolta però nel promuovere la sua fatica ci permettiamo un piccolo rammarico, derivante dal fatto che Electric è stato registrato negli Stati Uniti negli studi di Buddy Miller, e sebbene le dichiarazioni di Miller lo facessero intuire ("ho preso lezioni di chitarra per due settimane con Richard"), il cambio di territorio non ha sortito effetti considerevoli sul suo stile. Vero che la parentela tra folk britannico e musica country è talmente stretta che non era ipotizzabile un grande sconvolgimento, ma gli inserti di violino nashvilliano di Stuart Duncan, del violoncellista Yo Yo Ma e del mandolinista Chris Thile, per non parlare delle chitarre dello stesso Miller e di Vince Gill, non hanno portato contributi determinati. Certo, in Where's Home si respira aria di America rurale, la splendida ballata My Enemy (con la voce di Siobhan Maher Kennedy) potrebbe essere anche venduta ai Cowboy Junkies, ma il marchio di fabbrica di Thompson alla fine continua a sovrastare il tutto.

Colpa forse della sua personalità debordante o del troppo timor reverenziale evidenziato dal Miller produttore, ma Electric suona troppo come gli altri titoli della sua discografia per poter essere considerato il suo vero "Atlantic Crossing". Quasi che Thompson abbia voluto dimostrare empiricamente che la musica americana non esisterebbe senza la tradizione di cui si sente portavoce indiscusso da ormai quarant'anni, e in un certo senso brani come Good Things Happen to Bad People dimostrano come effettivamente non esistono veri steccati tra mondo britannico e mondo americano. Per noi comunque rimane l'ennesima raccolta impeccabile, forse con qualche colpo di scena in meno rispetto ai precedenti Sweet Warrior e Dream Attic, ma con nuovi brani da ricordare come Salford Sunday o Saving The Good Stuff For You.

Ascolta il singolo "Good Things Happen To Bad People"soundcloud.com/proper-music-distribution/richard-thompson-good-things

venerdì 8 marzo 2013

VARI - THE LOWE COUNTRY





Autori Vari
Lowe Country - The Songs of Nick Lowe
[Fiesta Red 2012]

www.fiestaredrecords.com


 File Under: Lowe-fi

di Nicola Gervasini (04/02/2013)



Sconvolge sempre realizzare quanto poco della produzione di Nick Lowe sia arrivato al grande pubblico. (What's So Funny 'Bout) Peace, Love, and Understanding, che resta il suo brano più celebre e rivisitato, è pur sempre una di quelle canzoni adorate dagli appassionati, ma a stento ricordata dal mondo delle radio se non nella versione di Elvis Costello, che ebbe un certo successo trent'anni fa. Lui le charts a suo nome le vide con il singolo Cruel To Be Kind, quarantesimo posto d'onore nel 1979, ma le sue tante e fondamentali produzioni non hanno mai prodotto evergreen degni dei "clasici" di Radio Capital se non per gli esordi del già citato Costello, alcuni fortunati singoli dei Pretenders e forse giusto Have a Little Faith in Me di John Hiatt. Eppure Lowe è un macigno che pesa sul rock inglese, per quanto ha fatto con i Brinsley Scharz negli anni settanta, da solo ancora fino ad oggi e come session man e produttore di qualità infallibile (storia vuole che sia sua la produzione del primo 45 giri del punk inglese, New Rose dei Damned).

La grande stima dei colleghi era già stata esibita in ben due tribute-album usciti nel 2001 (Labour of Love: The Music of Nick Lowe) e nel 2005 (il massiccio Lowe Profile: A Tribute to Nick Lowe), ma per il terzo appuntamento "Ad Memoriam" (sebbene lui sia vivo e vegetissimo) si è mosso il mondo della country-music, a tributo di quell'inglese che per primo capì quanto il country-rock di Gram Parsons potesse ben sposarsi con il pop inglese. Finanziato dalla piccola etichetta Fiesta Red appena creata da Rob Seidenberg, ex mente creativa della Rykodisc, e co-prodotto dall'esperto Gary Burnette (il sito Allmusic riporta 376 album in cui appare nei credits, ma ovviamente è stima per difetto), il disco riunisce una serie di artisti eterogenei, spesso non proprio strettamente "country" come Ron Sexsmith, e soprattutto con una carriera da outsider rispetto al dorato mondo nashvilliano. E' Austin infatti il centro da cui arrivano le riletture affidate a Caitlin Cary, Amanda Shires o anche un energico Hayes Carll, mentre decisamente da fan appare la scelta dei brani, che evita le "hits" per riesumare testi più oscurri (Lately I've Let Things Slide) o divertissement recuperati dalle opere minori (All Men Are Liars).

In generale regna un'atmosfera rilassata e persino compassata come quella sciorinata dal padrone di casa negli ultimi anni, un self-control tutto "british" che impedisce però di considerare Lowe Country come imprescindibile se non come piacevole passatempo da musicofili. Forse proprio nel profilo low-fi delle versioni di Heart Of The City dei Chatham County Line o What's Shakin'on the Hill della dolce Lori McKenna risiede la ragione della poca notorietà acquisita dall'universo Lowe. E' "roba da intenditori" insomma, e persino i tributi sembrano sempre fatti apposta per ribadirlo. Tutto bene per chi legge le nostre pagine, ma forse se un giorno qualcuno avrà la balzana idea di fare un "Lowe-Pop-Tribute" con artisti da hit parade, ne verrà fuori un prodotto forse non buono per i nostri palati, ma sarà quello il momento giusto per capire quanto la sua scrittura conserva un potenziale da radio-airplay spaventosamente sottostimato.

:: La tracklist
Lowe Country: The Songs of Nick Lowe

1. Lately I've Let Things Slide - Caitlin Rose
2. Don't Lose Your Grip On Love - The Parson Red Heads
3. All Men Are Liars - Robert Ellis
4. I Love The Sound Of Breaking Glass - Amanda Shires
5. Marie Provost - JEFF the Brotherhood
6. I'm Gonna Start Living Again If It Kills Me - Hayes Carll
7. Lover Don't Go - Erin Enderlin
8. When I Write The Book - The Unsinkable Boxer
9. You Make Me - Colin Gilmore
10. Heart Of The City - Chatham County Line
11. What's Shakin' On The Hill - Lori McKenna
12. Crackin' Up - Griffin House
13. Where Is My Everything - Ron Sexsmith

lunedì 4 marzo 2013

EELS - Wonderful, Glorious


EelsWonderful, Glorious
[E Works/Vagrant 
 2013]
www.eelstheband.com


 File Under: 100% E-sound

di Nicola Gervasini (08/02/2013)

Siccome ritengo impossibile odiare un personaggio come Mark Everett (per gli amici semplicemente E), finisce che i dischi dei suoi Eels o li si amano, oppure li si ignorano. Non sono pochi quelli che ultimamente hanno scelto la seconda strada, forti del fatto che l'uomo sembra essere entrato nella fase di carriera che potremmo definire "riassuntiva e pantagruelica". "Riassuntiva" perché dopo aver dato alle stampe la sua summa artistica nel 2005 (il monumentale doppio Blinking Lights and Other Revelations), la discografia degli Eels si è arricchita di lavori che semplicemente rielaboravano le puntate precedenti, non per questo perdendo troppo in valore. "Pantagruelica" perché tra il 2009 e il 2010 sono usciti ben 3 album (Hombre Lobo, End Times e Tomorrow Morning) che nelle intenzioni dell'autore si dovrebbero intendere come un'opera unitaria, ma che hanno sortito un leggero effetto-nausea su molti dei suoi fans della prima ora.

Si capisce così perché Wonderful, Glorious esce dopo più di due anni un po' in sordina, pronto però a riportare tutto a casa con tredici brani semplici e "veloci", potremmo dire anche di pronto ascolto. E soprattutto, sebbene il suo stile sia ben scolpito da tempo (e, se vogliamo, ormai "classico"), nel disco convivono sia l'anima da popper stralunato che fece amare dischi come Beautiful Freak (richiamato in episodi come l'ottima On the Ropes), sia certe svisate hard-rock "alla Souljacker" come Kinda FuzzyPeach Blossom o Stick Together, piene di riff da hard-blues che lo avvicinano sempre più ai Black Keys e sempre meno al mondo del cantautorato indie-rock. Piuttosto ormai il nostro si diverte a spaziare tra i generi, quasi volesse volutamente sfuggire alle etichette, per cui anche un brano come The Turnaroundparte come il pezzo che ti aspetti da un Bon Iver in crisi esistenziale, ma finisce con un crescendo quasi da soul-ballad, mentre il singolo New Alphabet gioca con una zoppicante ritmica quasi blues.

E anche una ballata come True Original, se spogliata da qualche tappeto elettronico, è a conti fatti una normalissima roots-ballad camuffata, così come You're My Friend, sotto la coperta di drum-machines ed effetti elettronici, risulta essere una semplicissima e deliziosa pop-song, mentre la trascinante title-track azzarda persino una ritmica disco-dance. Probabilmente qualcuno storcerà il naso davanti a tanto sfoggio di soluzioni mainstream, ma in Wonderful, Glorious Everett sembra semplicemente aver avuto voglia di realizzare un semplice disco rock/pop, dove anche certi risaputi giri chitarristici da classic-rock sono sempre sostenuti comunque da una scrittura di valore (Open My Present). Il merito qui sta nel non aver perso per strada il proprio marchio di fabbrica (I Am Building a Shrine è puro E-sound al 100%), e da un artista che festeggia il decimo album della sigla (non contando gli album solisti), sentirlo fare tesoro di tutta la sua grande esperienza è esattamente quanto di meglio ci si possa aspettare.

    

BILL RYDER-JONES

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