venerdì 28 febbraio 2014

DAVE VAN RONK

Van Ronk says to Bobby: she’s the next real thing". E’ un verso di (You will) Set the World On Fire,  un brano del David Bowie di The Next Day, nel quale si disegna un quadro del Greenwich Village degli anni sessanta attraverso le figure che più lo hanno caratterizzato. C’è Bobby (Dylan), ci sono Joan Baez, Pete Seeger e Phil Ochs, c’è il futuro (la lei del verso si riferisce a Joni Mitchell). E poi c’è Dave Van Ronk, l’uomo onnipresente in ogni foto o in ogni grande avvenimento del quartiere più bollente di New York. Lui stesso, fino alla morte (2002), ha ripetuto in ogni intervista che non capiva come mai lo si infilasse sempre negli elenchi degli eroi del periodo, visto che i suoi dischi restano perlopiù dimenticati. I cultori del genere vi diranno che No Dirty Names del 1966 è un disco sottovalutato, fatto di trame chitarristiche sopraffine e con una modernità ancora oggi evidente, ma per sua sfortuna uscì quando il folk era già in fase calante, ucciso l’anno prima dalle elettriche di Dylan e dalla scoperta dei Byrds che le stesse canzoni potevano anche divenire pop-songs di successo. Lo chiamavano “Il Sindaco di MacDougal Street”, insegnò il blues a Dylan e fu un timido testimone di eventi e personaggi più grandi di lui. E si rifiutò per tutta la vita di prendere la patente e di volare su un aereo, così, senza un motivo particolare. Proprio come un personaggio di un film dei Coen.

Nicola Gervasini

mercoledì 26 febbraio 2014

DAVID ROTHERAY


 David Rotheray Answer Ballads
[
Navigator records 2013]
www.davidrotheray.com
 File Under: the answer is in the question…
di Nicola Gervasini (18/12/2013)
David Rotheray è stato per quasi vent'anni la colonna a sei corde dei Beautiful South, storica band del pop inglese nata a fine anni ottanta dalle ceneri degli Housemartins. Probabilmente non proprio il curriculum preferito di molti nostri lettori (ma a nome Beautiful South sono usciti almeno tre titoli fondamentali per tutti, al di là dei gusti e dei generi), ma pur sempre un uomo di gran cultura musicale che all'indomani della fine del gruppo nel 2007 (alcuni compagni stanno proseguendo come The South), ha deciso di fare il professore di storia della musica con un'operazione discografica curiosa quanto puramente didattica nel concept. 

Answer Ballads
 infatti è un disco composto da tredici brani scritti in risposta a celebri canzoni del rock inglese, affidati di volta in volta a voci nobili più o meno giovani del folk inglese. Abbiamo così la giovanissima Eliza Knapp che risponde a Me & Mrs Jones in Mrs Jones Song, la brava Eliza Carthy che da voce alla Maggie May di Rod Stewart inMaggie's Song, lo scozzese Kris Drever dona anima puramente brit-folk al Daniel di Elton John (Daniel's Song), Kathryn Williams si cala nei panni della Roxanne dei Police (Roxannes's song, uno dei momenti più riusciti del disco, con un risultato che definirei folk- trip-hop). Avete capito il gioco insomma, Rotheray, che produce e si sobbarca le tante e complesse parti di chitarra, sta nelle retrovie e si è prodigato in una riscrittura "from the other side" di un songbook che pesca un po' ovunque, anche nel country americano con Naomi Bedford che si cala nei panni del Bobby di Me & Bobby McGee di Kristofferson (Bobby's Song), John Smith che espone la versione dei fatti di Billy Joe di Don't Take Your Guns To Town del "man in black" Johnny Cash (Billy Joe's Song) oppure nel rockabilly classico con Josienne Clarke che interpreta la Marie di Memphis Tennesse di Chuck Berry (anche qui molto riuscita questa Marie's Song, anche se lo stesso Berry scrisse un sequel intitolato Little Marie che Rotheray decide di ignorare).

Il disco ha anche il pregio di essere un buon modo per conoscere tanti nuovi artisti giovani e validi del mondo del new-brit-folk, anche se si registra qualche presenza autorevole come la divina Mary Coughlan che "jazza" in Lucille's Song la risposta di Lucille del brano You Picked a Fine Time to Leave Me, Lucille del country-singer Kenny Rogers, oppure il noto Alasdair Roberts che la pensa dalla parte del Dino di The Boys Are Back In Town dei Thin Lizzy (Dino's Song). Answer Ballads alla fine appare forse un po' troppo un disunito tribute-album, con troppi alti e bassi e con un eccessivo formalismo stilistico, quasi che Rotheray si sia concentrato più sul concept di ogni singola answer-song che sulla buona riuscita dell'insieme, ma resta indubbiamente un notevole sforzo filologico e una riuscita passerella di artisti britannici affini alle nostre autostrade delle radici.

lunedì 24 febbraio 2014

EMINEM

Anche se per certi bad boy dello star-system l’età anagrafica conta poco, quest’anno per Eminem suonano 41 campane, età ormai da papà per un artista che resta un inossidabile idolo dei teenagers. Eppure, passata la boa degli anta, anche per Marshall Bruce Mathers III (questo il suo vero nome) sembra già arrivato il periodo di bilanci. O perlomeno di voglia di tornare a sfiorare i diciannove milioni di copie vendute nel 2000 dall’album The Marshall Mather LP, titolo quanto mai personale che oggi il biondo rapper bissa con un atteso volume 2. La ricetta non cambia: veloci (nel caso di Rap God, anche velocissimi) sproloqui in rima con il bollino Parental Advisory incorporato, una serie di singoli micidiali in solitaria (Berzerk) o in buona compagnia (The Monster, con Rhianna), qualche campionamento più che riconoscibile (i Beastie Boys, dei quali sta prendendo ormai il testimone, e persino gli Zombies), ma anche tanta voglia di crescere come produttore. Lo assistono il guru rap Dr Dre dietro le quinte e produttori ben scafati come Rick Rubin e altri maghi del settore, ma alla fine quello che sta facendo ben accogliere questo The Marshall Mather LP 2 (Aftermath) è quella cosa che si chiama “maturità”, esattamente quel traguardo che un tempo l’ingestibile Eminem avrebbe rifiutato con sdegno. Che sia già tempo di un 8 Mile 2 al cinema, con nuovi scontri generazionali a ruoli rovesciati?

Nicola Gervasini

sabato 22 febbraio 2014

THE BEN MILLER BAND

THE BEN MILLER BAND
HEAVY LOAD
The Ben Miller Band
***1/2
La partenza è di quelle che mette subito tutto in chiaro: Your Dyin’ Ass (devo tradurre?) saccheggia il giro di blues del traditional You Gotta Move (di Rolling Stones e Aerosmith le versioni più note) e presenta subito il piatto a base di musica tradizionale politicamente scorretta e sgangherato appalachian-folk della Ben Miller Band. Trio proveniente dalle campagne di Washington, attivi fin dal 2005, la band capitanata dal polistrumentista Ben Miller (che per lungo tempo ha girato l’America come one-man-band busker con il nickname di Joplin) si era fatta notare nel 2010 con la pubblicazione di ben due album (1 Ton e 2 Ton) che avevano ben reso l’idea totale della loro musica, un mix di bluegrass, folk, blues, country e chi più ne ha ne metta. Heavy Load arriva a mettere ordine nella loro creatività con un disco breve (34 minuti), essenziale e diretto. La prima parte la butta decisamente sul classico con brani come Holly o I Got Another One, dove il “wild trombone” di Doug Dicharry la fa da padrone nel creare un perfetto street-sound rurale. E’ proprio la strumentazione del trio (completato dal bassista Scott Leeper) l’aspetto più particolare della loro proposta: se Miller si dota anche in studio del perfetto set da solista di strada (kickbox drum, vari tipi di armoniche, toy piano, chitarre e banjo costruite in casa), Dicharry offre diversivi in termini di fiati, washboard, e mandolini. Il risultato sa sempre di improvvisazione anche quando non lo è: I Don’t Want You ad esempio è un rauco blues a base di cucchiaini suonati in ogni dove che potrebbe sembrare una instant-song nata in un ristorante e non in uno studio di registrazione. Il finale del disco poi accelera non poco tempi e toni: No One Came potrebbe anche essere il risultato di una svolta rurale della Jim Jones Revue, Get Right Church chiude le danze nello stesso tono roots-gospel alla William Elliott Whitmore della prima canzone, mentre la title-track mantiene il pigro incedere dell’asino di copertina . Prodotto da Vance Powell, un veterano della musica roots americana vissuta dietro il mixer (White Stripes, North Mississippi All-Stars, Seasick Stevie, Jimmy Buffett, Jewel tra i tantissimi assistiti nel corso degli anni), Heavy Load non introduce nulla di nuovo sul piano della scrittura, ma rappresenta un modo divertente e intelligente di portare avanti una tradizione americana sempre più viva, e se vogliamo, per quanto possa sembrare incredibile, “di moda”.

Nicola Gervasini

giovedì 20 febbraio 2014

SOUL PAINS

Soul Pains
Bitter Day
(Udedi/901 Mississippi 2013)
File Under: Italsoul

Dopo anni di letargo, sommerso da rap, R&B e hip-hop, il classic-soul è tornato decisamente alla ribalta negli ultimi dieci anni a livello internazionale, per cui è lecito aspettarsi una conseguente ondata italiana di genere. Nel nostro sottobosco amatoriale la passione per la black-music 60-70 non è mai venuta meno in fondo, fin da quegli anni ottanta quando sulla scia del successo dei Ladri Di Biciclette (che fallirono però l’ingenuo tentativo di trovare una via credibile “in italiano”) fiorirono una miriade di emuli a livello amatoriale, spesso non sempre adatti al ruolo, tanto che da sempre bisogna sempre essere molto selettivi nello scandagliare il pentolone soul nostrano. Per questo segnaliamo l’esordio dei cosentini Soul Pains, perché il loro Bitter Day è innanzitutto un disco che rifugge dalla facile strada delle cover, e secondo perché il livello produttivo comincia ad essere importante e curato anche in quei dettagli che fanno ancora la differenza, nonostante oggi la registrazione di un album non la si neghi più a nessuno. Certo, i giri di chitarra sono quelli già sentiti in un qualsiasi disco di Sam & Dave, i fiati seguono partiture che certo non rivoluzionano il genere, e il cantante Mr T (nickname di Matteo Tenuta) annerisce a forza fin dove può la voce, ma l’insieme è frizzante, e soprattutto i brani sono ben scritti (particolare menzione per la title-track, lo spirito di Solomon Burke approva e ringrazia dall’alto). E gli altri non saranno i nuovi Dap-Kings, ma il livello è tranquillamente assimilabile agli olandesi De Dijk, che proprio Burke aveva scelto come backing-band giusto prima di morire per lo splendido Hold On Tight. Tra band, fiati e coriste la band conta undici musicisti, tutti impegnati a ripercorrere la storia della black music dal soul classico (It Takes Two To Tango) alle smussature del Philly-sound di Fourth Floor, allo ska di Promise e Come On, allz sugar-ballad alla Smokey Robinson di She. Per il resto è puro soul-show grazie alle ottime performance delle vocalist e ad un combo che pare aver mangiato sufficiente polvere per reggere il compito. Resta un’operazione di pura devozione ad un altro mondo, salvata anche dalla grande dose di ironia profusa in testi e immagine della band, ma se prendiamo per moderni i dischi di Sharon Jones, allora nessun problema a farsi un giro anche in questo soul calabrese.
Nicola Gervasini



martedì 18 febbraio 2014

ANGELICA MENTE

Angelica Mente
Inverno Blu/Inverno Rosso
(Angelica Mente, 2013)
File Under: No files under, just listen.

Talvolta, Angelica, mente… non vuole che il mondo sappia i suoi pensieri più veri”. Con questa introduzione si presentano anche dal vivo gli Angelica Mente, gioco di parole che rende alla perfezione lo spirito dei testi poetici della vocalist Nicoletta Magnani, poliedrico personaggio del mondo artistico varesino (pittrice, scultrice, attrice, autrice, violoncellista e flautista, cantante, e dimentico sicuramente qualcosa..). Da più di cinque anni Nicoletta dà vita a questo intrigante progetto musicale con il chitarrista Paul Monari, cultore dell’inconfondibile sound delle Ovation e del fingerpicking. Dopo aver addirittura avuto l’onore di fare da gruppo spalla al tour italiano dei Buena Vista Social Club nel 2008, il duo si è preso il giusto tempo per realizzare il disco d’esordio, che è diventato addirittura un doppio (acquistabili separatamente comunque). Inverno Blu e Inverno Rosso, caratterizzati dalla bella copertina realizzata dalla stessa Magnani, fanno parte di quella categoria di musica italiana impossibile da catalogare, magari posizionabile in quel generico “musica acustica d’autore alla Premio Tenco”. Inutile comunque cercare paragoni, la loro personalissima formula è davvero l’aspetto più interessante di questo esordio, che dimostra che forse a prendersi del tempo è ancora possibile uscirsene con qualcosa di irriproducibile. Quello che è certo è che questi quattordici brani vanno assaporati in silenzio e con attenzione, per cogliere il perfetto incastro tra le parole e il violoncello della Magnani e  il particolare tocco di Monari. I due dischi, ben prodotti da Niccolò Maggio, seguono due mood diversi, più introverso e intimista quello di Inverno Blu (titoli come La Distanza, L’ombra, Il Vuoto rendono bene l’idea), più sperimentale quello di Inverno Rosso, fin dal particolare arrangiamento di L’inizio e la fine del mio cuore e una versione con fisarmonica della title-track, ma anche con bellissime ballate come Semplice e Facile (anche qui titoli che già esprimono il senso della divisione in due del progetto). Non è per tutti questo doppio inverno, perché cerca l’energia nel ritmo delle frasi e non in quello di una batteria inesistente, ma se vi entra nel cuore può anche arrivare a scottare.
Nicola Gervasini

domenica 16 febbraio 2014

LE HIGH HOPES DI BRUCE

Lasciamo perdere le inutili considerazioni sull’ispirazione che latita: a Bruce Springsteen non si chiede più un nuovo The River da anni, ma qui mi sa che bisogna ormai scordarsi anche un nuovo The Rising. E andiamo oltre il dilemma se High Hopes sia il nuovo album del Boss (nel qual caso uno dei suoi peggiori) o solo una raccolta di B - a volte anche C – sides (nel qual caso il barile è stato raschiato con un certo successo). La vera questione è un’altra: ma se proprio lo doveva fare (per doveri contrattuali immagino, anzi, spero per lui), allora perché non approfittarne per dare un’inedita dignità al progetto? Magari anche stramba, magari anche completamente sbagliata, ma unica. Invece, così com’è, High Hopes pare solo un bonus disc per una nuova deluxe edition (l’uomo le adora…) dei suoi ultimi tre album. Sarebbe la chitarra di Tom Morello la violenza che Bruce si è (e ci ha) concesso? Qualcuno lo avverta che quei suoi gracchianti assoli erano rivoluzione vent’anni fa,  ma oggi, piazzati un po’ a casaccio in mezzo a pezzi che non lo richiedono (gli perdonerei  la sbrodolata finale di The Ghost Of Tom Joad solo perché la versione è sentita e riuscita), paiono davvero degli spari a salve. Allora perché non portare alle estreme conseguenze la sua presenza? Oppure perché non andare ben oltre quel tocco di elettronica buttato lì un po’ timidamente in Harry’s Place? Perché sprecare un’occasione per un album che sarà sempre è solo un dischetto da 6 politico, quando, osando un po’, poteva anche beccarsi un 8 di spocchia o un 4 di sdegno. In ogni caso, un voto con più personalità.

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...