venerdì 30 giugno 2017

ROBYN HITCHCOCK

Robyn Hitchcock 
Robyn Hitchcock 
[
Yep Roc/ Audioglobe 
2017]
robynhitchcock.com
 File Under: an ecstatic work of negativity

di Nicola Gervasini (02/05/2017)
I generi del rock sono sempre stati una categorizzazione utile soprattutto a chi deve scrivere di musica e spiegare un disco a parole, e forse alle case discografiche per fare corretti calcoli di "product placement". Nel 2017 però ormai ha poco senso tirarli in ballo, vuoi perché il mercato discografico è talmente confuso che è sempre più impossibile identificare "scene" o "correnti", vuoi anche perché i vecchi rocker che resistono sono soprattutto artisti incatalogabili se non alla la voce "sé stessi". Come Robyn Hitchcock. Robyn Hitchcock è il suo ventunesimo album di originali, e non ha neanche un titolo, il che potrebbe sottintendere una qualche nuova ripartenza, o al massimo un'ironica dimenticanza, visto che è il suo primo album omonimo. Oppure, come spiega lui più semplicemente, il titolo scelto in origine ("An ecstatic work of negativity") pareva troppo pesante anche per il suo fedelissimo pubblico.

Queste dieci canzoni, più che ripartenza o bagno di negatività, appaiono come un chiaro salto indietro a quello che Hitchcock rappresentava a fine anni ottanta. Abbandonato il minimalismo nordico degli ultimi album, Robyn torna al colorato mondo del pop allucinato alla Syd Barrett mischiato al college-rock di marca REM che segnò album come Globe Of Frogs o Perspex Island, di cui questa raccolta pare davvero un tardivo compendio. A Hitchcock si richiede solitamente di avere una scrittura fuori da qualsiasi schema, e qui davvero lo ritroviamo al top della forma in questo senso, fin dall'iniziale I Want To Tell You What I Want, e ancora nei riferimenti letterari di Virginia Woolf o nel country da outlaw-hero di I Pray When I'm Drunk (il disco è registrato a Nashville, come pare evidente anche in 1970 In Aspic, insieme al produttore Brendan Benson). E ancora attraverso le atmosfere allucinate di Sayonara Judge, i giri alla Peter Buck di Autumn Sunglasses, il sound più garage-rock di Mad Shelley's Letterbox, gli archi acidi di Raymond and the Wires.

Gira tutto come un tempo, forse fin troppo "come un tempo" storcerà il naso qualcuno, ma Hitchcock è così, diverte solo chi si sintonizza col suo mondo sospeso tra l'ironico e il fantastico, prendere o lasciare. Fa la stessa musica esattamente come veste la stessa camicia a pallini da anni, e solo lui potrebbe ideare ancora oggi una canzone totalmente astrusa come Detective Mindhorn o anche far sembrare speciale un banalissimo e stra-sentito giro chitarristico come quello di Time Coast. E' Robyn Hitchcock, uno che non ha mai pubblicato un disco veramente brutto semplicemente perché ha avuto sempre qualche buona storia da raccontare. Poi quando, come in questo caso, il disco è pure di ottimo livello anche nella produzione, per i suoi fans è una rinnovata gioia per le orecchie.

Seguirlo o no è una vostra scelta, non una sua priorità, e questa resta la sua grande forza.

martedì 20 giugno 2017

ANDREW COMBS

Andrew Combs 
Canyons of My Mind
[
Loose/ Goodfellas 
2017]
andrewcombsmusic.com File Under: classic songwriter

di Nicola Gervasini 
(23/04/2017)

Fa un po' sorridere leggere sulla copertina di un cd l'elenco delle canzoni divise in Side A e Side B, anche se Andrew Combs non è certo il primo. Il vinile, si sa, resiste ancora nelle nicchie di vecchi ascoltatori, e lui, più forse per vezzo artistico che per vero marketing, a quelli mira, pur sapendo che non solo il cd ha annullato i lati, ma che nell'era dell'ascolto via Web sta sempre venendo meno anche la logica di una successione di brani voluta dall'autore a favore dell'impostazione casuale del proprio servizio di streaming online. Non è per mero tecnicismo che parto da questo aspetto per parlarvi di Canyons Of My Mind, terzo (da noi) atteso album di Combs, cantautore di Dallas trapiantato ormai da tempo a Nashville per ovvie esigenze stilistiche.

Ci aveva ben sorpreso nel 2012 con il suo esordio (Worried Man), grintosa autoproduzione (e anche autodistruzione, visto che il disco uscì solo nella versione download digitale), e ci aveva confermato il tutto nel successivo All These Dreams, disco in cui aveva dimostrato la propria ottima tenuta come autore, sebbene già lo stile si fosse normalizzato in quel genere di suadenti ballate da Ryan Adams in amore. La stessa direzione che continua a seguire Canyons Of My Mind, album che dopo l'apertura energica di Heart of Wonder (ottimo il lavoro del sax di Jim Hoke), si adagia subito sul soffice con Sleepwalker e le orchestrazioni alla Harry Nilsson di Dirty Rain. Con Hazel poi (nulla a che vedere con l'omonimo brano di Bob Dylan) si respira la stessa aria degli ultimi dischi di Joe Henry, nome che non coinvolgo a caso visto che appare come co-autore di Lauralee (una ballata pianistica che si apre in grandi orchestrazioni in puro stile Carole King). Il problema di Canyons Of My Mind non è certo dunque nella forma, visto che i produttori (Skylar Wilson e Jordan Lehning) hanno lavorato alla grande per ricreare suoni atmosfere di una West Coast lontana nel tempo, piuttosto forse la certezza che Combs ha già speso le sue carte migliori, e ora già al terzo capitolo lavora di passione, esperienza, omaggi, rimandi.

Come dire, ci sa fare, ma non è neanche lui che farà svoltare il cantautorato americano verso nuove isole inesplorate. Per cui godiamoci senza indugio un piccolo trattato su come si registra un buon disco di american-music, che lascia però il rammarico della mancanza di qualche brano davvero memorabile in più, sia perché Combs non riesce ad incidere quando aumenta il ritmo (Better WayBlood Hunters), sia perché anche le ballate come Silk Flowers conservano tutte un forte gusto di già sentito, come conferma Rose Colored Blues, brano che tranquillamente sarebbe potuto apparire nella colonna sonora di Un Uomo Da Marciapiede. Tutto molto carino, ma quando il disco finisce pensi a quanto di grande avrebbe combinato lo Stephen Stills dei tempi doro con una Bourgeois King per le mani, e non è esattamente un buon segno.

sabato 10 giugno 2017

BUTTERTONES


The Buttertones
Gravedigging
[
Innovative Leisure/ Goodfellas 
2017]
buttertones.bandcamp.com
 File Under: surf punk

di Nicola Gervasini (20/05/2017)
Eppure succede ancora che laggiù, nella "Sunny California" che Terry Allen avrebbe voluto mettere fuorilegge di default, nascano ancora band come i Buttertones, nome che evoca altri tempi, altro rock, altre necessità di salire su un palco e sputare rabbia e energia. Richard Araiza, Modesto Cobian, Sean Redman, Dakota Boettcher e il funambolico sassofonista London Guzmån sono i nomi di un combo nato in una camera da letto nel 2011, e già titolari di un autoprodotto esordio del 2015 (American Brunch) e del nuovo Gravedigging, primo album ad avere anche una distribuzione europea. Due chitarre, sezione ritmica martellante, e soprattutto un sax fisso in formazione: si pensa subito agli Stooges di Funhouse, quando invece l'attacco di Pistol Whip rimanda semmai ai Clash di London Calling, o al massimo all'Iggy Pop di Lust for Life.

Ma già con Sadie's a Sadist si passa subito in ambito Cramps, sia per il tema da amanti del sesso estremo, che per la veemenza sospesa tra pop, punk e semplice presa in giro. Ma l'ABC della band da garage della West Coast non finisce qui: Neon Cowboy mischia arie morriconiane da film western con lo spirito dei Social Distortion, in Two-Headed Shark sembra invece di risentire i Jon Spencer Blues Explosion al loro meglio, mentre Matador è una sorta di numero di cabaret con tanto di voci recitate. Ci pensa I Ran Away a rompere il ritmo, una lenta mattonella con tanto di sax da scena romantica che ricorda molto certi momenti tra il serio e il faceto di Jonathan Richman con i suoi Modern Lovers.

E si cambia ancora registro con Moroccan Moonson, strumentale tutto Surf&Sax da prendersi in considerazione se mai un giorno Quentin Tarantino deciderà di girare un secondo capitolo di Pulp Fiction. Geisha's Gaze invece resuscita già usati giri arabeggianti per una sorta di danza del ventre in salsa punk, e solo con Ghost Safari A Tear For The Rosie si comincia a rimestare stili già perlustrati, fino al finale della title-track, che unisce un giro sax alla Madness con una chitarra in puro stile Dick Dale, prima di rallentare in una suadente danza che da sola racchiude tutto il mix di sesso, ironia e energia della loro musica.

Avrete capito che qui dentro non esiste una sola nota che non sia già stata scritta nella storia del rock, e non è facile trovare caratteri distintivi nel loro modo di suonare e cantare, ma se è vero che la California pare non essere affatto mutata nella sua immagine di terra dello sballo e della libertà, immagino che nei suoi bassifondi una band come i Buttertones continui ad essere necessaria.

BILL RYDER-JONES

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