giovedì 13 luglio 2017

DON BRYANT

Don Bryant 
Don't Give Up On Love 
[Fat Possum/ Goodfellas 2017]


 File Under: Don't give up on Soul

di Nicola Gervasini (29/05/2017)




Alzi la mano chi di voi non ha in casa almeno una versione del classico soul I Can't Stand the Rain? Se non è la versione originale di Ann Peebles del 1973, potrebbe essere quella degli Humble Pie (1974), di Ron Wood (1975), di Lowell George (1979), o di Tina Turner (nuovamente una grande hit del 1984) e via dicendo, con più di cinquanta altre versioni ufficiali fino alla più recente di Beverly Knight. Quando si scrive un pezzo così importante e riuscito, è normale che si viva anche un po' di rendita e si faccia il ghost-writer a vita di grandi nomi, proprio come ha fatto Don Bryant. Lui che Ann Peebles, oltre a mandarla in vetta alla classifica, se la sposò pure, ha più volte provato anche a trovare uno sbocco discografico personale, con alcuni 45 giri negli anni sessanta, e pochi album seminati nel tempo e rimasti nell'oblio.

Ma se nel 2017 salutiamo con gioia ancora dischi di soul classico, dopo che tra gli ottanta e i novanta pareva che mai più ne avremmo sentito uno, allora non c'è motivo perché anche Bryant, a quasi 75 anni suonati, non possa partecipare al revival con una gran disco come Don't Give Up on Love. Laddove l'aggettivo "grande", facilissimo da scrivere e da spendere, va visto in un'ottica puramente di genere, con l'idea che se tutto il carrozzone della musica ha smesso di pensare da tempo in termini di futuro, oggi si esprime al meglio nel perfezionamento del passato. E allora chi meglio di un uomo che nella carriera aveva solo il difetto di avere una voce non troppo distinguibile da star più blasonate come Wilson Pickett, può ancora dimostrarci in trentotto minuti che fare soul è un arte che i giovani avranno pure imparato bene, ma il tocco da maestro è anche questione di storia e anagrafe. E che può recuperare un altro piccolo classico come A Nickel And A Nail, hit del 1971 di O.V Wright, e ridargli nuova linfa con una intro vocale da brividi.

Un inizio che già ben dispone l'ascoltatore, tanto che la divertente Something About You, brano che potrebbe tranquillamente essere stato estrapolato da un disco di Robert Cray per come mischia soul e blues, si rientra in una piacevole convenzionalità di genere. E si prosegue, con una band superba formata da reduci della sua Hi Rhythm Section degli anni settanta (che non a caso collaborano anche al nuovo album di Robert Cray) come Charles Hodges (organo), Archie "Hubbie" Turner (tastiere) e Howard Grimes (batteria) e qualche giovane nuovo adepto al culto del soul, e con un menu che non fa mancare nulla "del solito", come le ballatone romantic-soul It was Jealousy e First You Cry. Lo spettacolo è garantito dal bel duello vocale nel doo-wop di I Got To Know, mentre con la la title-track arrivano anche gli archi e una slow-song in puro stile Al Green, e si arriva alla fine tra momenti intensi (How Do I Get There?), quasi pop-soul (Can't Hide the Hurt), giri alla Sam & Dave (One Ain't Enough) e il gran finale un po' in salsa Buddy Guy di What Kind Of Love.

Classicamente consigliato.

venerdì 7 luglio 2017

FIONN REGAN

Fionn Regan
The Meetings Of The Waters
[
Abbey Records/ Goodfellas 
2017]
fionnregan.com
 File Under: ambient folk-pop 

di Nicola Gervasini (09/05/2017)
Si erano perse le tracce di Fionn Regan, cantautore irlandese che aveva posto buone premesse da noi segnalate in occasione del suo disco d'esordio (The End Of The History), già subito non pienamente espresse dal suo incerto secondo album (The Shadow of an Empire del 2010). Era dal 2012 che non pubblicava, dopo che il terzo album 100 Acres of Sycamore nel 2011 ne aveva confermato pregi e difetti, e il cortissimo e indecifrabile The Bunkhouse Vol. 1: Anchor Black Tattoo lo aveva definitivamente relegato al mondo dell'autoproduzione e del sottobosco perpetuo. Cinque anni di silenzio in cui Regan sembra aver deciso di ridefinire la propria carriera sotto nuove spoglie, abbandonando il crudo stile folk della prima parte della sua carriera, in favore di un etereo indie-folk elettronico alla svedese, misto ad una vena di estetizzante brit-pop, quasi alla Coldpaly prima maniera.

Basta come esempio il video promozionale della title-track, cinque sognanti minuti in cui vediamo l'attore Cillian Murphy (in Inghilterra diventato personaggio di culto grazie alla serie Peaky Blinders) viaggiare di notte senza che nulla accada, per poi solo alla fine scoprire grazie alle luci dell'alba che stava solo raggiungendo il mare. Video statico e sognante, in cui tutto poggia sulla voce sempre più impostata di Fionn, che nel resto del disco spinge molto su atmosfere nebbiose e malinconiche con un largo uso di tastiere e sintetizzatori che ricorda molto certi momenti degli Shearwater. Un nuovo taglio stilistico che spesso è sorretto ancora da una buona scrittura (Cormorant Bird), ancora capace di tornare al folk minimale di Turn The Skies Of Blue On (dove assomiglia davvero tanto a Josè Gonzalez), di scherzare con i classici (Babushka-Yai Ya, sorta di Folk&Roll dedicato al noto successo di Kate Bush).

Tanti brani alquanto brevi, tra buone pop-song come Cape Of Diamonds e indecifrabili bozzetti di synth-music (Aj). Una sequenza di episodi altalenante, sempre un po' indecisa se giocare a rifare Pink Moon di Nick Drake, o trovare finalmente una hit radiofonica infarcendo il tutto di elettronica (Up To The Rafters). Interessante, se non rovinasse un po' tutto nel finale con i 12 minuti di inutile tappeto di tastiere New Age di Tsuneni A, lungo invito alla meditazione che non porta da nessuna parte se non a "skippare" il brano nei successivi ascolti, riducendo così il disco a 28 minuti effettivi e non sempre tutti allo stesso livello. Conti da ragioniere forse, ma se Regan cerca un rilancio o una nuova vita artistica, deve dare più l'impressione di cercare la sostanza e non solo la forma, e The Meeting Of The Waters, pur attirando l'attenzione, fallisce nell'intento.

BILL RYDER-JONES

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