sabato 30 dicembre 2017

LUKE SITAL-SIGH

Luke Sital-Singh
Time is a Riddle
[
Raygun Records/ Goodfellas 
2017]
lukesitalsingh.com
 File Under: God Is In The House

di Nicola Gervasini (10/11/2017)
Nome difficile da ricordare e anche un po' da pronunciare quello di Luke Sital-Singh, artista venuto alla ribalta nella scena inglese nel 2014 con il disco di esordio The Fire Inside (nulla a che vedere con Bob Seger). Fu una scoperta dei dj della BBC, che mandarono in onda parecchie canzoni del disco e di altri EP precedentemente pubblicati, facendolo diventare un piccolo fenomeno da fruizione online. Lui, un giovane brit-folker innamorato della musica indie anni 2000, ha mantenuto l'umiltà, facendosi le ossa come solitario opening-act per Villagers e Marta Wainwright, e non perdendo lucidità in vista di un secondo album che qualcuno nella terra di Albione definirà "atteso".

Noi lo scopriamo oggi e, sebbene non ci sia da credere che possa essere la "Next Big Thing" della musica britannica (ma poi è ancora possibile averne qualcuna in questo scenario?), segnaliamo l'album Time Is A Riddle come un buon prodotto per quelle giornate autunnali che quest'anno stavano tardando ad arrivare. La title-track ha avuto anche funzione di singolo apripista lo scorso maggio, con anche buoni riscontri. E' una buona gospel-song al piano (il video guarda caso lo riprende in una Cattedrale) che ricorda alquanto il Bill Fay riesumato degli ultimi dischi, ma con una voce che cerca l'estetica vocale di John Grant. L'elemento spirituale e religioso è preponderante nel brano, ma anche in tutti gli altri, a partire dall'iniziale Still, che ha un coretto che in qualche modo ricorda l'appeal radiofonico dei Lumineers di Ho Hey, fino alla bella Oh My God, mid-tempo che occhieggia al cantautorato americano alla Ryan Adams più depresso (o anche al Will Hoge più recente).

La produzione predilige i suoni di piano e tastiere, ma tiene alto anche il volume di una batteria alquanto effettata e rimbombante che dona al tutto quel vago sapore anni 80 che è di moda ora. Il disco infatti non sfugge ad un certo hype del momento (Rough Diamond Falls ricorda - ma in meglio, state tranquilli - una delle hit radiofoniche per ragazzini degli scorsi mesi, Human di Rag'n'Bone Man), ma trova anche momenti assai ispirati e intimi (Until The Night Is Done) da vero cantautore solitario. Il disco ha un passaggio di leggera stanca nella parte centrale con una Nowhere's Home che non lascia il segno e una Cynic per solo voce e tastiere che abbassa un po' la tensione, prima di una Innocence in cui il tasso di Ryan Adams nell'ispirazione va un po' oltre il livello di guardia, ma che si fa comunque apprezzare, se posto sotto la voce "bravi seguaci e allievi". Nel finale si fa notare la pianistica Killing Me in cui risaltano le sue ottime doti vocali, prima di una chiusura ancora in tono religioso con Slow Down.

lunedì 18 dicembre 2017

BRUCE COCKBURN

Bruce Cockburn 
Bone on Bone
[True North/ IRD 
2017]
brucecockburn.com
 File Under: San Francisco Nights 

di Nicola Gervasini (02/10/2017)
Unidici anni fa esatti esordivo sulle pagine di Rootshighway con una tiepida recensione all'album Life Short Call Now di Bruce Cockburn. Unidici anni nella vita di un uomo sono tanti, e se di cose me ne sono successe tante (e giustamente non ve ne frega saperle), non lo stesso potrei dire del vecchio Cockburn, la cui vita artistica da allora è stata caratterizzata da un solo album (Small Source Of Comfort del 2011) e da una pigra attività da vecchio padre della musica folk canadese. Il viaggiatore aveva smesso di viaggiare, e anche un po' di creare. Bone On Bone arriva dunque atteso, ma forse neanche troppo, perché di Cockburn stavamo cominciando ad abituarci a parlare al passato. Ma si sa, i vecchi leoni dormono tanto, poi quando ruggiscono un po' di paura la fanno sempre, soprattutto se, come nel caso di Bruce, la voce comincia ad arrochirsi, tradendo una età ormai over 70, con una mancanza di fiato che si fa sentire.

Ma il grande artista è colui che fa di necessità virtù, per cui Bone On Bone ripresenta una scaletta assolutamente prevedibile, ma riletta con un nuovo modo di cantare. In più, fortunati noi, rispetto ai due precedenti dischi, i brani tornano ad essere di gran spessore. Il menu quindi è il solito, ma di uno dei migliori ristoranti in circolazione. Tra i piatti migliori ci sono il micidiale giro di acustica di The State I'm In, la ballata ispirata di 40 Years In The Wilderness, il talking di 3 Al Purdy's (qui produce Julie Wolf), il cajun/gospel di Stab At Matter, l'immancabile strumentale in fingerpicking della title-track, fino alla consueta concessione alla madrelingua di Mon Chemin. E poi, vista la nuova voce, perché non buttarla un po' sul blues, anche se non è il suo genere. Non che non ne abbia mai fatti in carriera, ma brani come Mama Just Wants to Barrelhouse All Night Long Kit Carson, per citarne alcuni, erano blues-songs adattate alla sua vocalità non certo aggressiva, mentre qui in brani come Cafe Society o nel mezzo spiritual di Jesus Train, Cockburn si cala nel personaggio del vecchio blues-singer con più convinzione.

Produce come al solito Colin Linden, e stavolta al posto del violino che aveva colorato il sound del precedente capitolo, ritroviamo la cornetta di Ron Miles (un protégé di Bill Frisell) a fargli ritrovare quel vago gusto di jazz che insaporiva i suoi dischi degli anni Settanta. Da notare la presenza del nipote John Aaron Cockburn alla fisarmonica, protagonista negli intensi sette minuti di False River. Restano anche le sue caratteristiche note di copertina, con date e luoghi di scrittura dei singoli brani, ma il fatto che indichino per la maggior parte San Francisco, luogo dove ha registrato il disco, mostra quanto il viaggio sia ormai finito, e il disco sia frutto di una full-immersion compositiva di circa due mesi, fatto un tempo insolito per lui.

Sarà vecchio, ma che gli dei ce lo conservino anche così. Anche perché delle mie vicende non ve ne fregherà, ma, per la cronaca, il "vecchio Cockburn" si è risposato nel 2011 e ha avuto una figlia, e con la nuova famiglia ha abbandonato il Canada proprio per la "sunny" California. Che è un altro tipo di viaggio, certo non meno avventuroso.

BILL RYDER-JONES

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