lunedì 26 febbraio 2018

JUANITA STEIN

Juanita Stein 
America
[
Nude/ Goodfellas 
2017]
juanitastein.com File Under: aussie country

di Nicola Gervasini 
(12/10/2017)
A metà degli anni zero gli australiani Howling Bells furono una delle tante scoperte dell'etichetta Bella Union, vera e propria fucina di talenti indie dei nostri anni, eppure non sono mai riusciti a diventare un nome di punta del genere, nonostante i loro quattro album pubblicati tra il 2006 e il 2014 abbiano sempre ricevuto riscontri più o meno positivi. Troppo indefinibile il loro mix musicale (se guardate Wikipedia si citano Hendrix e i Mazzy Star, e già capite la confusione), ma sicuramente a definire il suono della band è sempre stata la voce di Juanita Stein, non un'artista sconosciuta visto che ha già quarant'anni e una lunga gavetta negli anni 90 e primi duemila con i Wakiki. 

America
, titolo fin troppo semplice per definire dove si guarda musicalmente, è il suo primo album solista, e fa capire subito da quale luogo vengono certe svisate country-roots già presenti nei dischi della band. La copertina parla chiaro e soprattutto usa un linguaggio risaputo: America vuol dire l'epica dell'On The Road, l'idea di cinema che è possibile costruire dietro tutte le storie che la terra promessa sa raccontare. E vuol dire un suono che è quello di tante altre artiste statunitensi. E qui sta il primo difetto del disco, l'abusare di un immaginario ormai fin troppo consolidato. Non fa eccezione il video di Dark Horse che accompagna l'album, sognante road movie con tappa nei pub americani a suonare per pochi intimi, visite obbligate ai record-stores, e finale con omaggio ai mille buskers che allietano con chitarre più o meno accordate le strade delle città statunitensi. Tutto bello, ma tutto già visto, e non fa eccezione l'album, sicuramente interessante per le corde dei nostri lettori, quanto però anche un po' furbo nel cercarne a tutti i costi il plauso.

Il singolo e Florence che aprono l'album fanno comunque ben sperare, la seconda soprattutto è una ispirata ballata con un bell'intreccio di chitarre alla Chris Isaak che parla di estraniamento e trova la melodia giusta per insediarsi nella mente fin dal primo ascolto. Non scorre però così bene il resto: Black Winds è una eterea marcetta che ha lo stesso ritmo e le stesse pretese di viaggio psichedelico di White Rabbit dei Jefferson Airplane, la più suggestiva I'll Cry e Stargazer si ascoltano volentieri ma eccedono in sospiri, leziosità e tastierine, mentre quasi meglio va con Shimmering, etereo brano vicino a certe soluzioni vintage sentite dalla Nicole Atkins più recente. La Stein torna a dimostrare buona penna in Someone Else's Dime, ma poi si barcamena sullo stesso giro di Lay Lady Lay di Dylan costruendoci sopra una propria canzone chiamata It's All Wrong con buona teatralità ma poca originalità. Se Not Paradise, sorta di pop song in stile sixties, non aiuta a far risalire il ritmo, bene fa nella country-ballad Cold Comfort, un numero "alla Caitlin Rose" dice la Stein, prima che America chiuda il tutto con una lettera d'amore quasi tautologica visto che nessuno fino a quel momento avrebbe avuto dubbi sul suo amore per gli States e la musica di Roy Orbison e Loretta Lynn.

lunedì 19 febbraio 2018

CURTIS HARDING

Curtis Harding 
Face Your Fear
[
Anti-/ Self 
2017]
curtisharding.com
 File Under: soul power

di Nicola Gervasini (01/12/2017)
Non so a quale versione o era della soul-music siamo arrivati, ma va detto che nella "black music" (il termine pare ancora in uso nonostante il pensiero politically correct lo sconsiglierebbe) sembra serpeggiare ancora qualche spinta creativa. Il revival-soul degli anni 2000 sta forse mostrando la corda, ma è stato importante perché ha archiviato il ventennio 80-90, in cui il genere ha inseguito sonorità moderne con risultati non sempre esaltanti, lasciando così all'hip hop il campo libero per fare da portabandiera del settore. Non tutti nascono Stevie Wonder o Prince, e non ne nascerà più uno probabilmente, ma personaggi come D'Angelo o Cody ChesnuTT hanno perlomeno trovato una originale formula di riassunto di tutte le puntate precedenti.

È nello spazio aperto da questi nomi che si infila il giovane Curtis HardingFace Your Fear è il suo secondo album, e arriva a dare conferma del suo talento dopo che Soul Power del 2014 lo aveva portato alla ribalta. La definizione di questa nuova soul-music la diede lui stesso, coniando il termine "slop'n'soul", dove basta dire che slop indica gli avanzi del cibo per capire la filosofia di base. Apertura totale a tutte le influenze di musica black e non solo dunque, esercizi di stile al servizio però di canzoni con la C maiuscola. E qui sta il punto a suo favore: Harding infatti non si limita come tanti nuovi paladini del soul ascoltati in questi ultimi 20 anni a scrivere brani che sarebbero potuti apparire in qualsiasi disco di Otis Redding o James Brown, ma cerca di essere anche autore. Wednesday Morning Atonement apre il disco alla grande, tra archi sintetizzati e chitarre distorte alla Bobby Womack, e raggiungendo quel perfetto equilibro tra vintage e moderno che Lenny Kravitz cerca inutilmente da anni. Il disco continua in piena atmosfera da film Blaxploitation anni settanta, con Face Your Fear On And On, nulla che Curtis Mayfield non avesse già pensato di fare 40 anni fa, ma rigenerato con quello che poi il buon Curtis si è perso lasciandoci nel 1999, proprio poco prima che il mondo musicale tornasse ad essere favorevole ad un suo eventuale grande ritorno. 

Go As You Are 
strizza l'occhio alla funk-music dei Temptations dei primi anni settanta, la bella Till The End torna ancora più indietro pescando nel sound Motown degli anni sessanta (con tanto di campanellini alla Supremes). Ma il viaggio non è finito, perché Dream Girl riposta la linea del tempo all'era disco, e Welcolme To My World recupera il funky suadente dell'Isaac Hayes più sessualmente attivo. Tanto stile, ma anche qualche melodia azzeccata e perfettamente radiofonica come Ghost Of You, o sound cinematografici come una Need My Baby che sembra sputata fuori dalla colonna sonora del serial Get Down. La produzione al solito accorta e professionale di Danger Mouse è il valore aggiunto di un album che ancora tiene viva la fiamma di un mondo musicale che da anni non smette di influenzare tutto il pop mondiale.

lunedì 12 febbraio 2018

RICHARD THOMPSON

Richard Thompson 
Acoustic Rarities 
[
Beeswing 
2017]
richardthompson-music.com
 File Under: lost gems

di Nicola Gervasini (17/11/2017)
Neanche il tempo di godersi il volume due della serie Acoustic Classic, che Richard Thompson pubblica una sorta di capitolo tre non più rivolto a chi necessita di una introduzione soft al suo songbook, ma ai fans che ancora aspettano che lui apra completamente i suoi archivi storici. Acoustic Rarities comincia a farlo partendo da una raccolta di demo in studio per sola chitarra e voce. Acquistabile anche direttamente in coppia con Acoustic Classic Vol 2, l'album rappresenta una chicca davvero imperdibile, e non solo perché, come non smetteremo mai di ripetere fino alla nausea, Thompson è maestro di tecnica e stile, due componenti che raramente vanno allo stesso passo con tale perfezione, ma anche perché probabilmente queste quattordici canzoni sono il meglio di uno sterminato archivio che speriamo Richard abbia l'accortezza di sfruttare senza troppe esagerazioni nel corso dei suoi ultimi anni di carriera.

What If è una registrazione recente con sovraincisioni di voci e chitarre, con un effetto a più livelli che ricorda il Robyn Hitchcock di Eye; They Tore The Hippodrome Down è invece un brano davvero splendido ma ad oggi completamente inedito, come lo sono anche She Played Right Into My HandsPush And Shove (una outtake quasi rock and roll di Rumor and Sigh), Alexander Graham Bell (anche se già recuperata in altra versione dal cofanetto The Life and Music of Richard Thompson del 2006) e I Must Have A March. Altro pugno di canzoni sono brani poi prestati ad altri artisti come Seven Brothers, che fu registrata da Blair Dunlop per l'album Blight and Blossom del 2012, o la classicamente folk Rainbow Over The Hill, un pezzo suonato spesso dal vivo dall'Albion Band già negli anni Settanta e presente tra le bonus track del loro album Rise Up Like The Sun del 1978. Il restante è composto da versioni alternative di brani già noti del suo catalogo come Never Again (da Hokey Pokey), Poor Ditching Boy (Henry The Human Fly), End Of The Rainbow (I Want To See The Bright Light Tonight), mentre spiccano due remake presi da Full House dei Fairport Convention, la sempre stupenda Sloth, e Poor Will And The Jolly Hangman.

Da segnalare infine una versione scarna di I'll Take All My Sorrows To The Sea, brano che faceva parte di un'opera teatrale scritta dallo stesso Thompson ('Interview With Ghosts') e presentata nel 2012 con una orchestra sinfonica come accompagnamento. Non sarà il primo album da acquistare di Richard Thompson, ça va sans dire, ma se già avete gli altri suoi capolavori, allora non potrete non trovare lo spazio anche per Acoustic Rarities.

lunedì 5 febbraio 2018

SHARON JONES & The Dap-Kings

Sharon Jones & The Dap-KingsSoul of a Woman
[Daptone 2017]
sharonjonesandthedapkings.com

 File Under: farewell records
di Nicola Gervasini (14/12/2017)
La brutta notizia era arrivata nel 2013, alla vigilia della pubblicazione di Give the People What They Want, quinto album della fortunata epopea di Sharon Jones e dei suoi Dap-Kings. Sharon aveva un cancro, e purtroppo al pancreas, uno dei peggiori. Ci ha poi lasciati il 18 novembre del 2016, dopo che ha combattuto fieramente la sua battaglia, presentandosi sul palco anche senza i capelli persi per la chemioterapia, e non cessando mai, finché ha potuto, l'attività.

D'altronde lei al successo ci è arrivata tardi: è morta a 60 anni, ma aveva esordito solo a 45, dopo una lunga carriera da corista più o meno amatoriale. Nel 2002 il suo Dap Dippin' with Sharon Jones and the Dap-Kings è stato un disco cardine del movimento New Soul, perché non solo ha ravvivato una tradizione in crisi da almeno due decenni con un piglio classicista mai fuori dal tempo, ma anche creato attorno alla band dei Dap-Kings e alla Daptone Records una scena di nuove (Charles Bradley) e vecchie (Lee Fields) leve del soul divenuta importante negli anni zero. 

Soul Of A Woman
 è il suo sesto album di inediti (escludendo l'album natalizio di due anni fa), e come tutti i dischi registrati da un artista già pienamente conscio della sua morte imminente, è un album che non punta più a cercare di essere faro illuminante di una scena, ma semplicemente di riassumerla portando gioia e voglia di vivere all'artista stesso e al pubblico che ne sarà presto orfano. In fondo era tutta una questione di tempo il fatto di registrare queste canzoni, sembra averci voluto dire fin dall'iniziale A Matter Of Time, piccolo manuale del grande arrangiatore offerto dal bassista e produttore Bosco Mann. Se la malattia pare avesse intaccato troppo le doti vocali di Sharon, il disco offre come al solito la grande lezione degli arrangiamenti dei fiati dei Dap-Kings, degni eredi dei Tower Of Power, in grado da soli a tenere il ritmo anche di un brano tutto sommato già sentito come Sail On.

La ricetta della soul-music infatti la conoscete già anche voi, e Sharon si guarda bene di sconvolgerla, come quando offre il numero lento "alla James Brown" di Just Give Me Your Time (se vi distraete un attimo, vi ritroverete anche voi a cantarci sopra "This is a man's world!"). E via di numeri noti: una Come and Be a Winner che sa di collaborazione Burt Bacharch/Dionne Warwick, una Rumors che vira al soul bianco alla Dusty Springfield, la ballatona soul alla Solomon Burke di Pass Me By, il Curtis Mayfield più urbano riscontrabile in Searching For a New Day e il momento di raccoglimento di These Tears (No Longer For You), dove siamo in piena zona Gladys Knight & The Pips. C'è tempo ancora per When I Saw Your Face Girl! prima del toccante finale di Call On God, brano che Sharon scrisse nel 1970, e che oggi funge da religioso commiato per una delle voci nere più importanti degli anni 2000. E intanto cala un nuovo sipario sulla musica Soul.

BILL RYDER-JONES

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