venerdì 22 giugno 2018

DURAND JONES & THE INDICATIONS

Durand Jones & The Indications
Durand Jones & The Indications
[Dead Oceans/ Goodfellas 2018]
durandjonesandtheindications.com

 File Under: young soul singers
di Nicola Gervasini (09/04/2018)

Da grande Durand Jones voleva fare il sassofonista, e ha dovuto litigare non poco con la propria madre, che al contrario lo vedeva bene a cantare nel coro della chiesa. Detta così sembra una storia da soul music degli anni cinquanta, ma accade ancora anche in questi anni dieci nella profonda America. Galeotti furono però gli anni universitari, in cui Durand ha messo insieme una band, li ha chiamati The Indications per assonanza con i tanti gruppi doo-wop di cinquant'anni fa, e ha provato a dire la sua nel mondo del new soul. Il self-titled Durand Jones & The Indications aveva visto la luce già nel 2016 per una piccola etichetta (la Colmine) ed era passato ovviamente inosservato per motivi di scarsa distribuzione, ma ora a ristamparlo ci pensa la Dead Oceans, un tempo paradiso per band indie folk come Phosphorescent, Akron Family e Califone, oggi evidentemente intenzionata ad allargare il raggio d'azione anche nella black music.

E lo fa allungando il brodo con una registrazione live (chiamata sibillinamente Live Vol.1, lasciando ad intendere che la riedizione potrebbe non finire qui), per giustificare così anche la dicitura "deluxe edition". Durand Jones e i suoi fidi amici (Aaron Frazer alla batteria, Blake Rhein alla chitarra, Kyle Houpt al basso e Justin Hubler all'Hammond) arrivano ormai ultimi di un movimento di rinascita soul che con la morte della regina Sharon Jones è forse diretto verso il tramonto, ma il tempo e l'occasione per diffondere ancora il verbo della soul music di stampo classico c'è sempre. Quello che manca è davvero un pizzico di originalità alla proposta che lo possa distinguere dai tanti nomi usciti o riscoperti in questi anni, da Lee Fields fino a Charles Bradley, e forse anche una voce davvero memorabile, che nel genere è peccatuccio non da poco. In ogni caso il riferimento è il soul di metà anni settanta, quello già ammiccante al Philly Sound (basta sentire Make a ChangeSmile o la ballata Can't Keep My Cool), ma ancora non scivolante nella melassa che poi ammantò quella soul music che non voleva cedere ai ritmi disco nella seconda metà di quel decennio.

E quando decidono di dare ritmo, tirano fuori anche riff di chitarra come quello di Groovy Babe che ricorda da lontano il soul energico di Black Joe Lewis & The Honeybears. Ma è la ballata romantica alla fine che la fa da padrona, con il tappeto d'organo di Giving Up, il momento sospeso tra lounge music e Smokey Robinson di Is It Any Wonder?, il blues abbozzato di Now I'm Gone e lo strumentale alla Tramp di Tuck and Roll. A questo punto scatta poi la più lunga parte live, dove i giovani dimostrano già di saperci fare, ma anche qui senza particolari rivoluzioni da proporre. Non si grida al miracolo dunque con l'arrivo a Soultown di un nuovo pretendente al trono, ma se ancora state piangendo la morte di Otis Redding, questo disco fa al caso vostro.

lunedì 18 giugno 2018

OKKERVIL RIVER

Okkervil River
In the Rainbow Rain
[ATO records
/ Self 
2018]
 File Under: Glory of the 80's

di Nicola Gervasini (16/05/2018)Mi piacerebbe poter inviare In The Rainbow Rain degli Okkervil River a Colin Meloy dei Decemberists con un semplice bigliettino con scritto "Forse era questo che intendevi fare?". Colin non ne sarebbe molto felice probabilmente, ma se personalmente ho sempre visto nelle due band le realtà migliori nate in questi anni duemila in un certo ambito che definirei "roots progressista", è proprio sulla necessità di aggiornare il sound che si stanno vedendo delle differenze. Laddove i Decemberists, già secondo me in odore di una svolta fin troppo derivativa in questi anni dieci, hanno probabilmente sbagliato il loro primo disco in carriera con il recente I'll Be Your Girl, abbracciando malamente l'Eighties-sound-revival imperante (e forse ormai già verso il suo tramonto), gli Okkervil River fanno solo un po' meglio con un album molto simile, dopo che già nel 2011 erano stati pionieri con I Am Very Far. Poi però Will Sheff aveva avuto bisogno di tornare all'essenziale per esprimere le proprie tribolazioni esistenziali e così Away nel 2016 aveva riportato tutto alle origini. 

È lui stesso che presenta In The Rainbow Rain come una svolta spensierata e felice per la band, quasi un disco volutamente mainstream e radiofonico, se avesse ancora senso fare queste distinzioni in un mercato che sta diventando ormai praticamente un porta a porta tra artista e ascoltatore (come aveva ironicamente immaginato Jeff Tweedy nel video di Low Key). Sheff recupera quindi l'armamentario sonoro degli anni ottanta, con citazioni più o meno evidenti (alzi la mano chi di voi non si è messo a canticchiare Enola Gay sull'incipit di How It Is?), ma con una attenzione su produzione arrangiamenti da disco per grandi eventi, e già qualcuno ha storto il naso per cotanto sfavillio. Eppure Famous Tracheotomies in qualche modo sembra far presagire un nuovo viaggio nelle oscurità dell'animo di Sheff, solo sorrette da una serie di effetti elettronici che fanno capire che tirerà poca aria di tradizione. Ci pensa The Dream and The Light a far capire che il tono sarà diverso, bel brano folk nella struttura, ma infarcito di tastiere, cori, e addirittura un sax bowiano nel finale, che portano in dote un sound pieno e maestoso.

Con Love Somebody siamo in pieno easy-pop, e con Family Song addirittura si riassaporano melodie alla Prefab Sprout. Anche Pulled Up The Ribbon esagera forse a mettere troppa carne al fuoco (tanto che i cori finali richiamano certi muri di suoni e voci della Electric Light Orchestra), finché Don't Move Back to LA ritrova le chitarre per un brano che ricorda vagamente i Counting Crows più radiofonici di Hard Candy, mentre Shelter Song annega in mille tastiere e non riesce a decollare. Dopo la caraibica External Actor (Sheff che imita Jack Johnson?), chiude Human Being Song tra violini sintetizzati che forse cercano i Cure ma trovano più i Simple Minds. Sheff resta un grande autore e gli Okkervil River mostrano le capacità di essere sempre originali, ma temo che il sound del futuro non sia ancora questo.

martedì 12 giugno 2018

JOSH T PEARSON

Josh T Pearson
The Straight Hits!
[
Mute Records
 2018]
facebook.com/joshtpearson
 File Under: Listen without prejudice

di Nicola Gervasini (07/05/2018)

A distanza di quasi sette anni, si può dire che il più grande merito di Last of the Country Gentlemen, disco d'esordio del texano Josh T. Pearson, sia stato quello di essere uno dei pochi motivi di vera discussione nel mondo musicale arrivato dalla scena della roots music più recente. Con quell'aria a metà tra un indie-freak alla Devendra Banhart, un neo-hippie alla Jonathan Wilson o un rude cowboy moderno alla Chris Stapleton, e con quella copertina così eroticamente trendy, Pearson realizzò un disco coraggioso, con una serie di lunghi, strascicati e, per molti, anche estenuanti brani che facevano tesoro di anni di indie-folk, ma anche di una tradizione country-folk comunque viva ed evidente nelle sue note.

Non ho sentito troppa gente in questi anni chiedersi che fine avesse fatto quello strano personaggio, e lui si è preso tutto il tempo necessario per farsi un po' dimenticare, prima di tornare con questo The Straight Hits!. Immagino lo scoramento di tanti ambienti non certo abituati a questo country-rock ubriaco e disarmonico, che più che al mondo indie-folk, guarda all'irriverenza traditional di Kinky Friedman o Mojo Nixon. Un cambio stilistico imprevedibile, una retromarcia nella tradizione che poteva anche limitarsi ad un disco della serie "guardate che anche se faccio cose strane, un disco normale lo so fare anche io". Invece Pearson gioca d'intelligenza inserendo un elemento che nel suo primo album mancava totalmente: l'ironia. L'ironia di una suadente lenta ballata alla Jonathan Richman intitolata The Dire Straits of Love, ancor più ironicamente unico brano del disco a non contenere la parola "Straight" (secondo un regolamento auto-imposto che prevede anche presenza di ritornello, bridge e testo e titolo breve), visto che già il nome della band di Knopfler ne contiene un'assonanza. Oppure l'ironia programmatica di Damn Straight, scritta dall'amico Jonathan Terrell, altra giovane leva di quello che potremmo quasi definire un "new-alternative-country" che non so se potrà dare frutti succosi, ma che perlomeno ci prova a tenere viva una scena che ha innegabilmente il fiato grosso.

E l'ironia anche nel lanciarsi in scalcagnate bars-songs in tutta la prima parte del disco, per poi spegnere mano a mano il ritmo nel finale con oscure folk-ballads che ancora nulla hanno da spartire con quanto sentito nel primo album. Dal nostro punto di vista, fattaci la risata che lui voleva suscitare e ripresoci dalla sorpresa, siamo però contenti di vedere che al di là dei giochi di prestigio, l'artista c'è, e lo si sente in un pezzo come A Love Song (Set Me Straight), più di sei minuti di crescendo drammatico che potrebbe anche farmi scomodare gli Okkervil River per la sua vocalità un po' aspra alla Will Sheff e per il wall of sound di strumenti acustici costruito pian piano intorno ad una batteria elettronica. Insomma, se il lato A è pane per vecchi irriducibili rootsofili, il lato B stuzzica quei musicofili intellettualoidi che tanto lo avevano apprezzato anni fa. Il tutto in soli 42 minuti stavolta, una durata più ragionevole che sicuramente metterà d'accordo le due opposte fazioni, nel caso il disco non ci riesca ancora una volta.

venerdì 8 giugno 2018

BETTYE LAVETTE

Bettye Lavette 
Things Have Changed
[Verve 2018] 
bettyelavette.com

 File Under: Dylan-mania
di Nicola Gervasini (23/04/2018)Un nuovo disco tributo a Bob Dylan è forse l'operazione meno originale che possa fare una cantante di questi tempi (in fondo abbiamo appena tolto dal lettore un album analogo di Joan Osborne dello scorso anno), eppure c'era da aspettarselo un tale infoltimento del catalogo a seguito del premio Nobel. Moda sì o moda no che sia, Bettye Lavette confeziona questo Things Have Changed coerentemente ad una discografia che si sta specializzando in cover-records spesso a tema, e di certo "Lui" non poteva mancare. Il suo grande pregio però è sempre stato quello di non soffermarsi quasi mai su titoli arci-noti e arci-riletti, ma di cercare brani che davvero ben si adattano alle sue certo non comuni doti vocali. Nel caso di Bob Dylan addirittura assistiamo ad alcune variazioni sui testi, una lesa maestà che ha ottenuto il placet dell'autore, e che rappresenta un caso abbastanza raro, visto che gli interventi non si limitano solo a rendere al femminile l'io narrante, come spesso accade quando una donna canta canzoni di un uomo. 

In ogni caso il menu è per veri intenditori della materia, e pesca dall'album Oh Mercy Political World e What Was It You Wanted che vanno ad aggiungersi alla Everything is Broken che aveva già cantato nell'album Thankful n' Thoughtful del 2012 e alla Most Of The Time compresa nel tributo Chimes Of Freedom dello stesso anno. Da Empire Burlesque vengono invece una sorprendente Seeing The Real You At Last, e una già nativamente soul Emotionally Yours, mentre del giovane Dylan si riprendono qualche classico (abbiamo dunque una ennesima nuova versione di The Times They Are A-Changin`e di It Ain`t Me Babe, ma è vero che fatte così non le avevamo mai sentite), e Mama, You Been On My Mind

Se dagli anni più recenti pesca solo la stupenda Ain't Talkin', è intelligente la scelta di non andare sull'ovvio virando a soul troppi brani del triennio cristiano, già abbondantemente rivistati in questa veste dal bellissimo disco Gotta Serve Somebody: The Gospel Songs of Bob Dylan del 2003, concedendosi solo una coraggiosa rilettura di Do Right To Me Baby (Do Unto Others) da Slow Train Coming, mentre azzeccate sono le scelte di una Going Going Gone che era stata recentemente esaltata anche da Gregg Allman, e quel mai abbastanza decantato capolavoro che è Don`t Fall Apart On Me Tonight da Infidels. Resta da dire della title-track, uno degli ultimi classici dylaniani che penso sia impossibile trasformare in qualcosa di brutto, ma anche di diverso, e di fatto la versione che apre il disco non si discosta troppo dall'originale. 

Coadiuvata da una band che definire stratosferica non è certo una esagerazione (Larry Campbell, Pino Palladino, Leon Pendarvis e Steve Jordan che produce), da qualche intervento più che gradito di Keith Richards in una Political World virata a reggae, o di Trombone Shorty, Gil Goldenstein e Ivan Neville, la Lavette appronta un disco formalmente perfetto, sbaglia poche scelte, e torna così ai fasti di album come I've Got My Own Hell to Raise o The Scene of the Crime, dimostrando che forse l'argomento Dylan è talmente vasto da giustificare sempre nuove riletture.

lunedì 4 giugno 2018

JOAN BAEZ

Joan Baez 
Whistle Down the Wind
[
Proper 
2018]
joanbaez.com
 File Under: Last Waltz

di Nicola Gervasini (27/03/2018)

Persino i nostri quotidiani nazionali hanno messo in prima pagina la notizia che Joan Baez fosse in procinto di abbandonare le scene, annuncio che funge un po' da traino all'uscita di Whistle Down The Wind, nuovo e dunque forse ultimo album in studio della storica folksinger. Dovremmo fare qui polemica sul fatto che sarebbe forse ora di considerare la Baez anche come una musicista slegata da quella che è stata la sua storia di attivista politica, ma visto che esistono giornalisti che ancora parlano di Bob Dylan come del "menestrello", lascerei perdere. Lei dice che al massimo la rivedremo sul palco di una causa politica, che grazie a Trump ce ne sarà nuovamente bisogno forse, e seppur anziana e vogliosa di dedicarsi all'arte della pittura, lei non si tirerà mai indietro.

Ma al giornalismo generalista non far sapere che già da metà degli anni settanta la Baez ha curato la sua attività in studio con un piglio spesso slegato dalla causa sociale del momento. Insomma, ha fatto la musicista. E come tale ha prodotto una serie di album attenti al repertorio ma anche alla produzione, uno su tutti il precedente Day After Tomorrow prodotto da Steve Earle, ma mi piace anche ricordare l'ottimo Play Me Backwards del 1992 tra gli album che varrebbe la pena recuperare. Whistle Down the Wind trova nella produzione al solito precisa e priva di spigoli di Joe Henry la propria ragion d'essere, e come spesso succede in casa Henry, offre una serie di cover d'autore in perfetto equilibrio tra autori storici (il Tom Waits della title-track e di Last Leaf) e di più recente generazione (il Josh Ritter di Be of Good Heart Silver Blade). Il padrone di casa ci infila poi uno dei suoi brani più belli (Civil War), direi perfetto per la nuova vocalità più roca e profonda di Joan.

Ma funzionano bene anche i brani di più disparata provenienza come Another World di Anhomi (nuovo nickname di Antony dei Antony & The Johnsons), le incursioni nel mondo della canzone femminile country con The Things That We Are Made Of di Mary Chapin Carpenter o The Great Correction di Eliza Gilkyson, o la scoperta di autrici più sotterrane come la Zoe Mulford che offre una significativa The President Sang Amazing Grace. Il finale del disco, e forse di carriera, è affidato invece a I Wish the Wars Were All Over, canto di speranza che nelle sue labbra riesce ancora a conservare un senso non esclusivamente utopistico, se non proprio ingenuo, ed è un brano scritto dal musicologo Tim Eriksen, che già avevamo potuto conoscere nella soundtrack del film Cold Mountain di Anthony Minghella curata da T Bone Burnett.

Disco lento, riflessivo, e con il pianoforte di Henry in gran evidenza a creare atmosfera, Whistle Down the Wind conserva tutti i pro e contro della spesso fin troppo misurata visione musicale del suo produttore, tuttavia indubbiamente fautore di un sound che si mette al servizio delle canzoni e di una voce che magari porterà molti a conciliarsi con una vocalist spesso considerata vecchia proprio per lo stile fatto a "vocalizzi". Joan Baez saluta dunque con un album più che discreto e senza clamori, ma rimane un personaggio importante da riscoprire e rivalutare, senza dubbio rimasto ingiustamente all'ombra delle proprie cause e dei propri amori, Dylan su tutti, le cui canzoni ha forse cantato troppe volte.

BILL RYDER-JONES

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