mercoledì 31 ottobre 2018

STEPHEN MALKMUS

Stephen Malkmus & The Jicks
Sparkle Hard
[
Domino/ Self 2018]
stephenmalkmus.com
 File Under: 90's Memorabilia

di Nicola Gervasini (18/06/2018)
Nella carriera di qualsiasi grande musicista rock è facile identificare quel particolare momento in cui il fuoco creativo, unito al fatto di trovarsi al momento giusto con l'idea nuova giusta, ha reso storico il suo nome e le sue canzoni. Spesso si tratta di un periodo intenso, ma mai troppo lungo, molte volte coincidente con gli esordi. Poi i casi sono due: o ci si esaurisce e si vive di revival, oppure si continua senza tentennamenti a proporre la propria musica senza più sorprese, ma mantenendo un livello qualitativo comunque invidiabile. Nessuno ad esempio vi nasconderà mai che se Stephen Malkmus si è conquistato un piccolo spazio nell'olimpo del rock, è per quanto prodotto negli anni 90 con i Pavement. Poteva fermarsi lì, e nulla sarebbe cambiato del ricordo e dell'opinione che abbiamo su di lui.

Ma questo non deve suonare come una condanna della sua ormai consistente carriera solista (sempre seguito dai fedeli Jicks anche nell'intestazione degli album), che dal 2001 a oggi ha prodotto sette album senza troppe variazioni nel riproporci quel songwriting compassato e stralunato. Se ci fate caso, di un disco di Malkmus da quindici anni a questa parte nessuno parla mai male, ma neanche mai si grida al capolavoro. Invece Sparkle Hard sembra aver diviso per la prima volta i fans, ma è facile capire anche perché. A 52 anni infatti Malkmus sembra entrato in quella fase della vita in cui si rende conto che il suo passato è il tesoro più grande che gli rimane. Non è un caso che da qualche tempo i brani dei Pavement siano tornati a invadere le scalette dei suoi concerti, e non è un caso che questo album proponga un sound decisamente nostalgico nello scavare nella musica di 20 anni fa. Cast Off ad esempio sembra un brano dei Wilco dell'era Being There, con un piano minaccioso stracciato da chitarre distorte, e fa da introduzione a Future Suite, un bell'intreccio di voci e chitarre da West-Coast acida che fa capire quanto anche uno come Jonathan Wilson gli debba molto.

Più melodica Solid Silk, con addirittura un bel duello davvero inedito tra archi e tastiere nel mezzo, mentre Bike Lane si trasforma in un rockeggiante tormentone con un piede ben piantato nel glam anni 70. Più classicamente sulle sue corde la ballata Middle America, ma Rattler rimischia le carte facendo un po' confusione tra cambi di tempo, suoni acidi e addirittura una voce filtrata dall'autotune (scandalo!), prima che Shiggy riesumi in pieno il sound Pavement. Il pezzo forte dell'album è sicuramente la lunga Kite, ma nel finale c'è ancora tempo per qualche esercizio di stile come la pop-song alla Bacharach Brethren, una Refute in cui si fa quasi il verso al Ryan Adams era-Whiskeytown, e una Difficulties con fiati, cori a fare da contorno ad un brano che sa molto di Eels.

Prodotto senza risparmiarsi da Chris Funk dei Decemberists, Sparkle Hard è un bigino sulla musica degli ultimi 25 anni fatto da un artista che ormai fa pienamente parte del corpo docente di una scuola classic-rock che speriamo non smetta mai di avere alunni.

domenica 28 ottobre 2018

SARAH McQUAID

Sarah McQuaid
If We Dig Any Deeper It Could Get Dangerous
[
Shovel & Spade records 
2018]
sarahmcquaid.com
 File Under: diggin in tradition

di Nicola Gervasini (07/02/2017)
Solo un anno fa festeggiavamo i cinquanta anni di carriera di Michael Chapman godendo del suo album 50, finito con merito anche nei dischi da ricordare nel nostro special annuale, ma il vecchio chitarrista inglese sembra aver trovato nuove energie, tanto da rigenerarsi anche in veste di produttore. C'è lui dietro la costruzione di questo If We Dig Any Deeper It Could Get Dangerous di Sarah McQuaid, nuova stella del firmamento brit-folk. Figlia di due artisti e parente anche del nobel per la pace Jane Addams, la McQuaid (il cui vero cognome è Jardiel grazie al padre spagnolo, ma visto il genere trattato ha optato per un nome d'arte più in linea con le tradizioni britanniche) si è fatta notare negli ultimi anni grazie a due album come The Plum Tree And The Rose (2012) e Walking Into White (2015) editi per la Waterbug Records, etichetta specializzata in folk music.

Il nuovo album potrebbe essere invece la buona occasione per uscire dal circuito tradizionale, e l'endorsement di Chapman, paladino di quel matrimonio tra folk tradizionale e rock di cui Richard Thompson e John Martyn rimarranno sempre maestri indiscussi, è già un buon biglietto da visita. E di fatto questi dodici brani si tengono equidistanti tra costruzioni melodiche legate alla tradizione brit-folk e qualche accorgimento più accattivante in sede di arrangiamento. Il risultato non aggiunge nulla a quanto Sandy Denny non abbia già fatto quarant'anni fa o a quanto la ex Espers Meg Baird si danna a professare da anni, avvicinandosi come risultato finale ai più recenti dischi di Linda Thompson.

Come spesso accade anche nei dischi di Chapman, è l'intreccio tra acustiche ed elettriche l'aspetto più interessante della tela tessuta intorno a delle canzoni che si segnalano anche per dei testi non banali, con la stessa McQuaid a mostrare ottime doti di musicista già nel singolo The Tug Of The Moon. Sebbene ritmo e atmosfera non abbiano mai accelerazioni, il disco è ben dosato tra momenti riflessivi come la cover Forever Autumn del compositore Jeff Wayne (quello del musical La Guerra dei Mondi, da cui esce anche la versione del canto medioevale Dies Irae) e altri più baldanzosi. Il duello a sei corde con Chapman genera anche due interessanti strumentali come The Day Of WrathThat Day e New Beginnings che è una marcia nuziale dedicata alla amica e collaboratrice Zoe Pollock (insieme pubblicarono un album nel 2009). A caratterizzare i toni autunnali del disco ci pensano gli archi di Georgia Ellery e Joe Pritchard o la tromba di Richard Evans, piccole aggiunte al suono magistralmente diretto da Chapman.

If We Dig Any Deeper It Could Get Dangerous, titolo nato curiosamente mentre scavava buche in giardino con il figlio (ma in verità canzone che se la prende con la brutale tecnica del Fracking), non è un disco che porta nuova linfa al genere, ma ne conferma la piena attualità e modernità. Come dire che la guerra fatta da Chapman e compari da fine anni 60 per far uscire la tradizione del folk britannico dal suo fiero guscio culturale è ormai vinta, e il buon Michael se ne sta giustamente prendendo onori e meriti.

BILL RYDER-JONES

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