mercoledì 30 gennaio 2019

TERMOVALORIZZATORI PER PATTEGGIATORI E PUTTANE

Nelle mie fantasie più proibite i giornalisti non sono delle donne dedite al commercio dell’amore (come vorrebbe Di Battista, l’unico politico al mondo che riesce a far finta di essere in vacanza invece di far finta di lavorare come tutti gli altri), ma dei sadici e diabolici temporeggiatori.
Avete in mente ad esempio i fotografi dei documentari sugli animali? Quelli che stavano magari giorni appostati, in silenzio, in attesa che leone e leonessa finalmente trovassero la privacy per copulare davanti a un milione di spettatori? Ecco, molti giornalisti odierni mi paiono così: si ha l’impressione che pubblichino solo una notizia su dieci, e si tengano nel cassetto le altre nove per la prima occasione buona, con grande pazienza.
Un esempio: Di Maio e Salvini bisticciano sui rifiuti e sull’opportunità di costruire nuovi inceneritori in Campania? Ecco che prontamente tutte le testate italiane si lanciano a decantare come prima notizia del giorno (!) le lodi di un termovalorizzatore all’avanguardia costruito a Copenaghen, e trasformato in pista da sci per renderlo anche esteticamente accettabile, nonché economicamente sfruttabile.
Lasciamo stare che già a quel punto mi immaginavo il povero abitante della provincia di Caserta che, oltre a sorbirsi fumi tossici vita-natural-durante, deve pure sopportare la presa in giro di vedere le solite promesse del mondo politico corredate stavolta da una bella pista da sci. Che è tipicamente la prima cosa che ti viene in mente di costruire quando arrivi ad Acerra.
Ma, a parte questo, la domanda che mi sono fatto è stata “e ora questa cosa di Copenaghen da dove salta fuori?”. Scopro che tale imponente opera è stata finita già nel 2017, che da più di un anno funziona in fase di test, e presto appunto entrerà in funzione a pieno regime. I nostri giornalisti dunque sapevano da tempo della sua esistenza, ma la stessa notizia data un anno fa non l’avrebbe letta nessuno evidentemente. Oppure non è neanche vero?
Fate un gioco anche voi in questi casi: si va su Google, e si prova a cercare notizie in merito. Si scopre così che Repubblica ad esempio aveva annunciato la costruzione nel maggio 2015 e già a giugno del 2016 pubblicava una gallery di immagini dell’opera. E l’anno scorso se ne sono occupate alcune riviste specializzate: trovo ad esempio un articolo sul sito chiaramente ecologista Green.it e uno sulla rivista Wired, sempre attenta alle novità.
Ma ci sarebbe anche da indagare a fondo sulle ragioni di un articolo del sito Casa&Clima del 2011, in cui si parla di un governo danese dubbioso sulla sostenibilità ambientale del progetto, con conseguente decisione di non erogare i prestiti utili alla costruzione. Da qui scopriamo che invece il Times aveva inserito l’opera nelle 50 migliori invenzioni del 2011. Insomma, di materiale ce ne era in abbondanza, e anche utile per fare una inchiesta seria.
Più seria della mia perlomeno: io per scrivere questo articolo ci ho messo 45 minuti, e appena 5 minuti per fare tre ricerche nel web, scandagliando solo le prime 2-3 pagine di risultati. E guardate già quante cose in più ho avuto da dirvi rispetto a quelle che si sono lette nei giorni scorsi, sui giornali e sul vostro social di fiducia. E io non ho fatto nulla che si avvicini ad un vero servizio di giornalismo: non ho verificato le fonti, non le ho considerate tutte, e ho lasciato parecchi buchi irrisolti nella storia (cosa ha convinto poi il governo danese a costruire comunque l’opera dopo il 2011 ad esempio?).
Insomma, il tutto per farvi capire due cose: i giornalisti non sono sempre puttane, semplicemente a volte quando ci raccontano i fatti al momento giusto, non gli diamo retta. A volte solo perché ci parlano di qualcosa che non è la polemica del giorno di cui discutere nei social. Impariamo magari a leggere anche le pagine interne dei giornali invece, ci troveremo forse quelle notizie che saranno la prima pagina di domani, non appena i Salvini, Di Maio, e chi altri al loro posto, avranno deciso che è ora di farvi litigare su quell’argomento.

lunedì 28 gennaio 2019

CHARLES BRADLEY

Charles Bradley 
Black Velvet 
[Daptone/ Goodfellas 2018]

daptonerecords.com

 File Under: black angel

di Nicola Gervasini (26/11/2018)


Quando più di un anno fa ci ha lasciato Charles Bradley, il primo pensiero che ho avuto è stato ricordarmi del prode John Campbell, bluesman che negli anni Novanta pubblicò un paio di devastanti album (One Believer e Howlin Mercy) dopo anni di gavetta, per morire proprio quando finalmente ce l'aveva fatta e sembrava che il meglio dovesse ancora venire. La storia di Bradley è simile e ve l'abbiamo già raccontata quando nel 2011 uscì il suo primo album No Time For Dreaming, ed è quella di anni passati sui palchi a imitare il proprio mito James Brown con lo stage name di "Black Velvet" prima che la Daptone lo scoprisse. Il soprannome fa giustamente da titolo a questa pubblicazione all'insegna del "quel che resta da dire su Charles Bradley", una doverosa raccolta di b-sides, inediti e brani scartati dalle sessions dei suoi tre album (Victim of Love del 2013 e Changes del 2016 gli altri due).

Quando si tratta di simili operazioni si è di solito abituati a sospendere un po' il giudizio critico a favore del sentimento e della curiosità per alcuni episodi, prime tra tutte le cover. La carriera di Bradley è nata in piena era New Soul, una scena che persino un po' inspiegabilmente ha riscosso molti favori anche in seno al pubblico più indirizzato a quella indie, e questo serve a spiegare alcune scelte come l'affrontare un brano come I'll Slip Away di Rodriguez, artista simbolo dell'"essenza indie". Ma soprattutto incuriosisce il confronto con nomi altisonanti come Nirvana (Stay Away) e Neil Young (Heart of Gold), brani che qualcuno di voi avrà già recuperato nelle riedizioni del suo primo album e che qui vengono riproposti. Bradley gioca secondo regole già dettate da altri, persino quella di virare a soul brani nati in altri mondi (penso a Solomon Burke, per dirne uno), ma anche questo Black Velvet in fondo testimonia come non fosse certo un vecchio soul-singer l'uomo giusto a mostrare nuove vie, ma che restasse comunque l'uomo giusto per ribadire quanto buone fossero ancora quelle vecchie.

In ogni caso, pur nell'evidenza di un lavoro assemblato raschiando il fondo di un magazzino purtroppo aperto da poco, troviamo alcuni brani autografi piacevoli come Can't Fight The Feelin', Luv Jones e soprattutto la bellissima ballata I Feel A Change, uno di quegli anthem soul pieni di lacrime e sudore che se fosse uscito nel 1964 sarebbe oggi un brano con almeno venti cover al suo attivo. A rimpolpare il menu arrivano poi la strumentale title-track, che si segnala più per la mancanza della sua voce che per la performance della Menahan Street Band, e una nuova versione di Victim Of Love, divenuta nel frattempo un suo piccolo classico.

La storia di Bradley finisce qui (anche se è ipotizzabile che qualcuno avrà registrato qualche sua esibizione live), non ha spostato gli equilibri della musica soul e probabilmente non lo avrebbe fatto mai, ma ci ha ridato il gusto di un suono che fa parte del nostro DNA, e che scorre ancora oggi nelle vene di tutta la musica rock e pop americana e mondiale. Grazie Charles.

venerdì 25 gennaio 2019

JEREMY NAIL

jeremy Nail 
Live Oak
[
Open Nine Music 2018]
jeremynail.com
 File Under: Austin after midnight

di Nicola Gervasini 
(21/11/2018)
Un disco come Live Oak di Jeremy Nail sembra quasi fatto apposta per chiedersi se davvero ancora ci sia spazio per cantautori come lui in questo mondo. E dico "spazio", perché a dire "bisogno" tradiremmo la nostra vocazione di cercatori di storie americane cantate in punta di chitarra acustica, nonostante il genere stia attraversando un momento difficile, perché se un nuovo Dylan non lo si cerca più, in questo periodo si fa a fatica a trovare anche, non dico un nuovo Ryan Adams, ma almeno un nuovo Ryan Bingham che rianimi il mercato della canzone americana. E così vi ho indirettamente già dato le coordinate di questo cantautore, che viene da Austin come parecchi nostri "eroi da Strade Blu", città dove Nail aveva provato senza successo a pubblicare un disco e un EP a fine anni zero prima di entrare nella band di Alejandro Escovedo.

Proprio il prode Alejandro lo ha poi spinto a riprovarci, producendo nel 2016 il suo album My Mountain, mentre ora Jeremy ci ritenta con questo Live Oak, che a dispetto del titolo non è una registrazione di un concerto, ma un disco fatto in studio e con anche buona produzione e attenzione ai suoni. Quali suoni? Voce bassa (Rolling Dice), acustiche in evidenza (Sea of Lights), elettriche (del bravo Jeremy Menking) che ricamano ma non invadono (Till Kingdom Come), spazzole che strisciano su casse che mai vengono pestate (So LongYesterday), pianoforti (offerti dal grande Bukka Allen) che fanno vibrare il silenzio (Other Side of Time). Il tutto per poter raccontare le sue storie, quelle di padri morti spaccandosi la schiena sui campi (Fields of Our Fathers), ma soprattutto la sua personale vicenda, quella di chi ha perso una gamba per una rara forma cancerogena, ma riesce comunque a trovare la bellezza della vita nella natura (Abiquiu).

Da qui arriva anche la vicenda della title-track, storia di una quercia secolare di Austin che venne avvelenata da un abitante apparentemente senza motivo se non ucciderla nel 1989, ma che miracolosamente ha resistito anche a questa violenza, e oggi ancora si staglia nel cielo di Austin. Simbolismo chiaro di chi si aggrappa alla vita con i denti, ma la canta con parole sussurrate e per nulla rabbiose. Il limite di Live Oak sta infatti in una eccessiva gentilezza di suoni e melodie, che rende forse questi 46 minuti poco dinamici e poco vari, ma è indubbio che il ragazzo sa scrivere canzoni, e il produttore e batterista Pat Manske sa intervenire con qualche buona idea come i fiati discreti di Hope and Fear o la bella jam quasi-acida che caratterizza Freedom's Bell, il brano centrale e forse più riuscito della raccolta. Resta in ogni caso un autore e un prodotto da strade blu secondarie, ma voi sapete bene quanto è proprio nelle backstreets che i grandi trovano le idee per le mainstreets.

mercoledì 23 gennaio 2019

LA MATEMATICA DEL PENDOLARE

LA MATEMATICA DEL PENDOLARE
Come tanti varesini, vivo da più di vent’anni una vita da pendolare, e sono quindi coinvolto in una relazione complicata con Trenord e i suoi servizi. Nella mia vita l’ho spesso tradita con l’Autostrada dei Laghi, ma il primo amore è stato per i vecchi treni delle Ferrovie Nord, quelli che avevano gli scaldini sotto il sedile di legno in grado di renderli incandescenti durante l’inverno, e si sa che il primo amore non si scorda mai. Così come amo da sempre il concetto di tempo di Trenord, che è inspiegabilmente diverso da quello che usano a Greenwich.
In Italia, è noto, i treni arrivano in orario solo sotto le dittature. In democrazia invece l’orario è una indicazione di massima, quasi un pourparler.
Se i controllori di Trenord fossero come i nostri politici, a fargli notare che il vostro treno del mattino porta cronicamente almeno dieci minuti di ritardo, probabilmente vi risponderebbero “sono stato frainteso, quando dicevo le 7.22, intendevo le 7.32”.
“Perché a quel punto non scrivere direttamente 7.32 sull’orario?” si chiedeva l’altro giorno una compagna di viaggio con logica tutta popolare, tanto che mi immaginavo sempre il nostro controllore/politico risponderle prontamente “e allora Italo?”. Sono pensieri un po’ bizzarri che vengono durante la quotidiana transumanza di lavoratori ormai abituati a considerare Milano come un unico grande ufficio, dove non fai più distinzione tra la tua scrivania e la banchina della metropolitana. Un monte ore incalcolabile perso in spostamenti faticosi e energie spese nel raggiungere luoghi impervi, resosi sempre più necessario dal fatto che la nostra provincia purtroppo ha perso la capacità di dare lavoro a tutti i suoi abitanti.
Chi fa il pendolare mette in conto ormai il ritardo congenito, come anche i treni che si fermano a lungo in aperta campagna senza spiegazioni, il caos causato da suicidi/investimenti (non avete idea di quanto frequenti purtroppo), o la temutissima sbarra del passaggio livello che si guasta, inconveniente in grado di bloccare una intera linea anche per un’ora.
Tutti buoni pretesti per le veementi proteste dei pendolari e delle loro associazioni, oltretutto scaldate ultimamente da dichiarazioni ben poco rassicuranti dei vertici Trenord su linee cancellate e treni trasformati in viaggi in autobus. Non entro nel merito e nel dettaglio sulla questione, ma è da rimarcare come nessuno dei nostri politici (e toccherebbe a loro, non a Trenord) abbia colto l’occasione per porsi l’unica domanda intelligente: ma è poi necessario che 800mila pendolari (questa pare sia la stima a Milano) debbano quotidianamente spostarsi per fare il proprio lavoro? Cioè, ribaltando la questione, se Trenord fa i suoi calcoli di costi e benefici lasciando la gente viaggiare in piedi e pressata in carrozze insufficienti, e se garantire un servizio efficiente e moderno per tutti costa davvero troppo, non è che forse la soluzione (in lungo periodo, per carità…) è altrove?
Se creare lavoro impiegatizio di alto livello nelle città di provincia pare ormai utopistico (ma vorrei sapere cosa ne pensano gli industriali varesini in merito), fare in modo che l’ufficio possa essere vicino a casa, se non proprio A CASA, non è utopia, visto che stiamo parlando di figure perlopiù impiegatizie, che passano la giornata su un pc collegato online. Si chiama Smart Working (o Lavoro Agile, per chi l’inglese non lo mastica e manco lo digerisce), e anche se pochi lo sanno, esiste anche una legge che lo promuove (Legge n. 81/2017) che, sebbene sia ancora molto incompleta e ancora a livello di linee guida (discussione interessante a riguardo, che per ora rimando), ha almeno aperto una strada (e qualche azienda ha già avviato interessanti sperimentazioni). Ed è proprio quella la strada su cui bisogna spendere energie (e, perché no, soldi anche, magari detassando i contratti che prevedono la formula dello Smart Working ad esempio) mentre si mantengono in vita le infrastrutture attuali con toppe, pezze, sangue e sudore. Non so dove lavoreremo in futuro, ma se fosse ancora su un treno, sia esso il Gallarate-Rho o la TAV per Lione, allora vorrà dire che abbiamo perso l’unico treno su cui investire, quello dell’innovazione.
Ora vi lascio che sta passando il controllore, ma forse a lui è meglio che non chieda cosa ne pensa dello Smart Working, non si sentirebbe adeguatamente coinvolto al momento (www.lavoro.gov.it/strumenti-e-servizi/smart-working/)

sabato 19 gennaio 2019

KURT VILE

Kurt Vile 
Bottle It In
[
Matador/ Self 2018]
kurtvile.com
 File Under: Less isn't better

di Nicola Gervasini 
(05/11/2018)
Non so se sia davvero possibile dire qualcosa di nuovo nella canzone d'autore, ma in fondo non vedo dove stia il problema, dal momento che fortunatamente l'umanità, di cose da raccontare, ne avrà sempre, a dispetto del numero limitato di accordi con cui ci si può accompagnare. Eppure Kurt Vile è uno di quelli che ancora ci prova a rimescolare le carte, fin dai suoi esordi con i War On Drugs, e in un percorso solista che arriva con Bottle It In al settimo titolo (otto se contiamo la collaborazione con Courtney Barnett dello scorso anno). La durata di 78 minuti già fa presagire un'altra impegnativa maratona simile a quella del disco precedente (B'lieve I'm Goin Down, del 2015), che, sebbene fosse pieno di ottime canzoni, aveva un po' raffreddato gli entusiasmi su di lui (anche in termini di vendite, visto che Wakin on a Pretty Daze del 2013 era addirittura finito in Billboard USA).

Invece qui fin dall'iniziale Loading Zones sembra di respirare un'aria quasi mainstream, con un brano semplice e radiofonico, e sempre di veloce impatto sono le successive Hysteria e la cavalcata alla War On Drugs (alla fine torniamo sempre lì) di Yeah Bones. Poi però, messo a suo agio l'ascoltatore, ecco che arrivano i dieci minuti circa di Backwards, quasi un talking-blues in cui, nonostante del refrain rimanga solo un lontano miraggio, Vile riesce comunque a ipnotizzare l'attenzione. Un buon inizio che potrebbe far presagire l'arrivo del disco della maturità, ma a questo punto qualcosa si inceppa. One Trick Ponies infatti sono altri cinque minuti con lo stesso concetto di base: un unico giro di chitarra ripetuto in loop, una lunga serie di strofe quasi identiche tra loro, e la solita totale mancanza di stacchi. I tre minuti di Rollin With The Flow alleggeriscono il tutto (è una cover di Charlie Rich), fin troppo visto che il brano appare fuori contesto, ma i due episodi successivi, più di 18 minuti di durata totale, ammazzano un po' l'entusiasmo.

Non che non ci sia di che applaudire nella convulsa storia di droga di Check Baby, ma i dieci minuti e passa della title-track paiono chiedere troppo. Più che altro perché restano a quel punto ancora più di 25 minuti di disco, in cui sempre utilizzando l'espediente batterie elettroniche/giro di chitarra a ciclo continuo, si passa per una Munities dove aiuta anche l'amica Kim Gordon, una Come Again che sfrutta un riff di banjo per offrire uno dei pochissimi brani con un chorus, e una inutile Cold As A Wind, brano vintage fin dalla gracchiante registrazione, che rende solo più faticoso giungere ai dieci minuti di Skinny Minni, ancora un giro ipnotico, ancora un parlato, ancora una lunga cavalcata disturbata solo da una timida chitarra distorta.

Tutto molto bello, ma anche leggendo i testi si ha l'impressione che nella frenesia di non scrivere canzoni già scritte da altri, Vile si sia perso per strada la necessità di scriverne di nuove. Ed è un peccato, perché con la carne al fuoco che c'è in questo Bottle It In ci sono artisti che ci farebbero dieci album, ma qui si è perso il senso della misura. Persino quella che gli fa piazzare addrittura un minuto e 38 secondi di elettronica e rumori a termine del tutto, perché ad un certo punto probabilmente ha avuto paura di essersi dimenticato qualcosa. Qualcuno lo obblighi a fare un disco di 12 canzoni con un tempo massimo di 40 minuti, e forse avremo finalmente il gran disco che sappiamo Kurt è in grado di fare.

giovedì 17 gennaio 2019

NICOLA GERVASINI
NUOVO LIBRO...MUSICAL 80
UN NOIR A SUON DI MUSICA E FILM DEGLI ANNI 80


SCOPRI TUTTO SU https://ngervasini.wixsite.com/nicolagervasini

ACQUISTA SU AMAZON E IBS
FACEBOOK https://www.facebook.com/pg/Manfredi80/shop/?ref=page_internal


THE TRIALS OF CATO

The Trials of Cato
Hide and Hair
[
The Trials of Cato 2018]
thetrialsofcato.com
 File Under: Crociata folk

di Nicola Gervasini 
(10/12/2018)
Nel mondo globalizzato di oggi capita ormai di poter leggere anche una storia come quella dei The Trials of Cato, un trio di giovani folker nati tra le pecore delle campagne del Galles e dello Yorkshire, impregnati di una antica cultura rurale ancora non del tutto invasa dalla modernità della città e del mondo social. William Addison, Robin Jones e Tomos Williams un giorno sono partiti per una vacanza in Libano, un viaggio di piacere che si è trasformato in una crociata culturale a suon di strumenti a corda tradizionali, tanto che là sono rimasti per un lungo periodo. Diventando uno degli appuntamenti preferiti dei giovani del luogo, figli di un benessere oramai lontano nel tempo (Beirut veniva chiamata "La Parigi del Medio Oriente", ricordate?).

E ci sarebbe da farci un bello studio antropologico per capire perché un gruppo che offre una musica così antica e impermeabile alla modernità come il brit-folk offerto da questo Hide And Hair, possa avere trovato così tanti favori nel mondo mediorientale, e capire come effettivamente elementi di musica araba si possono ritrovare anche nelle bellissime gighe strumentali di questo disco come KadishaLibanus o Difyrrwch. Per registrare il loro album di debutto comunque i tre hanno fatto ritorno in patria, a Meifod, nel profondo Galles, dove Rod Callan ha trasformato un vecchio fienile nei Pen Y Lan Studios, posto perfetto per registrare un disco di folk immersi nel nulla delle country gallesi. I tre hanno inciso un album davvero sorprendente per come riesce a rinfrescare una tradizione fatta di ballate strumentali, brani in gallese (Haf, e perdonate se non so raccontarvi di cosa parla, perché il gallese penso sia la lingua più incomprensibile d'Europa) e cover-omaggio come Tom Paine's Bones di Graham Moore.

E in mezzo alcuni brani davvero interessanti in inglese come Gawain o Gloria, storia di una iniziazione sessuale con una bella cortigiana alla fiera di paese (che immagino che sia il luogo dove accadono tutte le tresche amorose a leggere i testi di almeno la metà dei tradizionali folk britannici), working-songs di protesta rurale (These Are The Things), romantiche canzoni popolari (il canto disperato della donna rimasta sola in attesa del proprio uomo partito per una guerra di My Love's In Germany) o le storia di marinai e grandi bevute del finale di The Drinkers, brano che incorpora anche un altro tradizionale (Rees).

Incredibile come 43 minuti di intrecci di chitarre, bouzouki, banjo, mandolini, fisarmoniche e percussioni, corredati da racconti di guerre di secoli fa e fiere di paese che ormai possiamo solo immaginare, possano ancora risultare interessanti per dei giovani musicisti, nuovi eroi di una nicchia culturale che è pronta per diventare riserva naturale da salvaguardare.

mercoledì 16 gennaio 2019

ALLENATORI NEL PALLONE

Se fino a due secoli fa eravamo un popolo di poeti, santi e navigatori, nel novecento noi italiani avevamo raggiunto il prestigioso traguardo di essere diventati più di cinquanta milioni d’allenatori. Il tutto grazie a profondi studi nei migliori Bar Sport d’Italia (a proposito, ne esistono ancora? Se li vedete mandateci una foto), con tattiche per accaparrarsi per primi la Gazzetta dello Sport durante la colazione del mattino che Bearzot se le sognava. E andava benissimo così, perché il calcio, visto da fuori come spettacolo e non come sport, serve a quello. Per cui io posso tranquillamente permettermi di far notare al nostro CT nazionale Roberto Mancini che c’è qualcosa che stride nel suo continuo piagnisteo sul fatto che in serie A giochino solo giocatori stranieri, e di conseguenza gli italiani non possano emergere.
Perché con spericolato ragionamento carpiato da Bar Sport potrei chiedergli come mai i giocatori italiani non sono all’estero a prendersi i posti degli stranieri che sono qua. Qualcuno c’è, ma gli italiani di successo all’estero si contano sulle dita di una mano. Forse siamo mammoni che non vogliono lasciare casa? O semplicemente meglio guadagnare tanto pur non giocando, piuttosto che giocare guadagnando poco. E via di congetture e teorie fantascientifiche degne di una puntata di Black Mirror.
Tanto che importa se chi scrive non ha la minima idea di come funzioni realmente un mercato di calcio? Non sarò santo, sono un pessimo poeta e non so nuotare, ma sono tifoso – ergo esperto di calcio in fieri – per cui allenatore de facto. Ma in questi mirabolanti anni 2000, da italiano, non sono più solo allenatore: ora sono in grado di scoprire studi scientifici che conosco solo io, valuto ad occhio la tenuta di ponti, correggo i conti dello Stato sulla carta del formaggio e scopro che abbiamo fondi per fare cose strabilianti che chissà perché il mio Ministro dell’Economia non ci era arrivato da solo, e so perfino esattamente come funziona la macchina burocratica della nostra magistratura tanto da segnalarne le inefficienze con prontezza. Addirittura ora mi basta pochissimo per diventare parlamentare.
Un po’ come se la Juventus scegliesse il proprio allenatore con un contest tra i suoi tifosi, che magari si accontenteranno di qualche milione di euro in meno dell’attuale allenatore Allegri, ma loro sì che farebbero convivere Cristiano Ronaldo e Dybala senza problemi (se non sapete ci sono vi rimando al Bar Sport). Vai a capire perché Allegri non ci arrivi da solo, ma queste sono domande già difficili. Ah no, dimenticavo, siccome noi italiani siamo diventati anche perfetti consulenti matrimoniali, ora abbiamo anche questa risposta: la colpa è solo di Ambra, ça va sans dire. Come si fa effettivamente a non essere eccitati per cotanta conoscenza ottenuta con un semplice cambio di secolo?http://www.varese7press.it/158582/uncategorized/outside-the-window-fatti-e-misfatti-raccontati-da-nicola-gervasini

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...