lunedì 18 febbraio 2019

Jess Sah Bi & Peter One

Jess Sah Bi & Peter One 
Our Garden Needs Its Flowers 
[Awesome Tapes from Africa/ Goodfellas 2018]

jesssahbipeterone.bandcamp.com

 File Under: world music

di Nicola Gervasini (09/01/2019)

Capita di sovente che in qualche enciclopedia della musica, alla voce “roots music“, vi troviate ad avere che fare con artisti provenienti dalla Giamaica, ma spesso anche dall’Africa, con confusione di terminologie di genere con la cosiddetta World Music, che è il calderone in cui noi occidentali facciamo cadere qualsiasi cosa non entri nelle nostre categorie abituali. Ma esistono dischi che invece roots-music, detto ”all’americana”, lo sono veramente, magari con un percorso inverso a quello fatto da Ry Cooder quando collaborò con Ali Farka Toure. Per questo siamo qui a consigliarvi una curiosa ristampa di un album del 1985, pubblicato solo in Africa ai tempi, di un duo di ivoriani di nome Jess Sah Bi & Peter One.

Our Garden Needs Its Flowers uscì un anno prima di Graceland di Paul Simon, anticipandone suoni e sapori, ma col punto di vista di chi l’Africa la viveva veramente. Otto brani in tre lingue diverse (oltre alla lingua madre, cantano anche in inglese e francese), e canzoni che uniscono folk e canti africani (Clipo Clipo), country-music anni 80 fatta con le chitarre giuste e qualche batteria elettronica a supporto (Katin e Kango), soffici ballate acustiche in stile Weast Coast (Minmanle), e brani più impegnati come la title-track e Apartheid. Finale tra armoniche e slide-guitar suadenti con African Chant e una Solution che addirittura ricorda certe ballate cajun di Zachary Richard. Il tutto senza mai perdere quella tipica coralità della musica africana che ai tempi divenne quasi di moda, anche grazie al successo di personaggi come Youssou N Dour, Mori Kantè o Johnny Clegg, che aprirono la strada ad una via pop e occidentalizzata di certe culture musicali di quello che ancora chiamavamo “continente nero”.

Anche perché qui parliamo di musica ivoriana, e non bisogna fare l’errore di pensare all’Africa come un unicum culturale e musicale (è come se un africano bollasse come un'unica “musica europea” Gigi D’Alessio e i Rolling Stones, insomma...). Non abbiamo la competenza per dire se poi Jess Sah Bi & Peter One fossero davvero i più bravi nella loro terra, dove tra l’altro vissero una stagione di grandi successi e concerti negli stadi, ma sicuramente sono tra quelli che hanno avuto la forza di provare a renderla internazionale. L’album purtroppo non ebbe una distribuzione adeguata, e così rimasero delle star locali, oltre che dei paladini dell’integrazione razziale, per tutti gli anni ottanta. A metà dei novanta però i due dovettero emigrare negli Stati Uniti, dove tutt’ora vivono facendo lavori quotidiani (Peter è un infermiere, Jess ha affrontato ogni tipo di lavoro, ma oggi è un fiero insegnante di cultura africana nelle scuole primarie).

Our Garden Needs Its Flowers è una bellissima testimonianza di incontro tra culture, uscito quando a tutti pareva logico che l’integrazione fosse l’unica via possibile per l’umanità. Son passati solo 33 anni, paiono due secoli a guardarsi intorno oggi.

giovedì 14 febbraio 2019

JENNIFER V BLOSSOM

Jennifer V Blossom 
Hunting Days
[Jennifer V Blossom, 2018]
 File Under: Punk-folk revisitedjenvblossom.com

di Nicola Gervasini

Quello della "Riot Grrrl" è uno stereotipo rock che ha ormai circa 30 anni, ma sembra non conoscere crisi. Nei primi anni 90, dopo che artiste come Michelle Shocked, Tracy Chapman e Suzanne Vega avevano aperto la strada ad una via folk del rock al femminile, arrivarono Ani Di Franco, Brenda Kahn e altre a renderlo una vera e propria dichiarazione di guerra a suon di chitarra acustica che non smette di avere adepte (penso a Wallis Bird, ad esempio). E a quella tradizione appartiene sicuramente la casertana Jennifer V Blossom, per anni promotrice della band dei The Over the Edge, e da tre anni impegnata in una carriera solista che approda finalmente al primo disco. Hunting Days è un progetto interessante che tenta di conciliare quello che è il combat-folk di brani come 3 AM Scent Of Flower con una ricerca e modernizzazione della canzone italiana storica, qui evidenziata nell'autografa e decisamente teatrale Come Se Nessuno Mai e in una cover dark-folk di Nel Blu Dipinto di Blu (dal vivo esegue spesso anche Parlami d'Amore Mariù per dire). Il che rende Hunting Days un disco davvero eterogeneo, sebbene sempre caratterizzato dal suono scarno della sua acustica. Non mancano comunque i momenti riflessivi (As Two Lovers e la stessa title-track), e espisodi più rock full-band (A Bit Like Going Back). Particolare impressione fa il tono melodrammatico di Hard Stuff e il teso finale di From My Lips, mentre sempre al suo amore per la canzone classica si riferisce la resa di Non, Je Regrette Rien della divina Edith Piaf. Da seguire anche per il futuro.

martedì 12 febbraio 2019

FERRO SOLO

Ferro Solo 
Almost Mine: The unexpected rise and sudden demise of Fernando (PT.1)
[Riff Records/Fernando Dischi 2018] 
 
File Under: Guitars are not dead
riffrecords.bandcamp.com

di Nicola Gervasini

I Cut sono stati una piccola istituzione del garage-rock bolognese per oltre vent'anni, ed erano capitanati da Ferruccio Quercetti, chitarrista che ha ora deciso il passo solista con il nickname di Ferro Solo. E Almost Mine: The unexpected rise and sudden demise of Fernando (PT.1) fa capire fin dal titolo che l'intenzione è quella di continuare su questa strada, con un disco in cui Quercetti condensa il proprio background musicale al servizio di un concept-album che segue le vicende del suo alter-ego Fernando. Chitarre in grande evidenza e rimandi a tutto ciò che abbiamo sentito nel mondo roots/garage negli anni 80 e 90, fin dalla partenza di It's a Girl, che non può non ricordare i Social Distortion, o il dark-blues elettronico alla Mark Lanegan di Got Me A Job (produce qui Luca Giovanardi dei Julie's Haircut). E ancora i giri di chitarre sixties di Hamlette, le ballate alla Green On Red di You Don't Have to Tell Your Story This Daddy's Girl, ispirate piano-songs (Perfect StrangerGala), e l'hard rock FM di He Spies (con la band romana dei Giuda). Nel disco si respira una forte aria di rock antico, con produzione accorta ma volutamente sporca, e l'aiuto di una serie di musicisti di valore dell'underground italiano (dal mondo Julie's Haircut provengono anche Andrea Rovacchi e Ulisse Tramalloni, mentre Sergio Carlini - Three Second Kiss - e Riccardo Frabetti - Chow - completano la backing band dei Fernandos). Disco che andrebbe distribuito nelle scuole per invogliare i ragazzini a provarci ancora con quello strano oggetto che i vecchi chiamano chitarra.

domenica 10 febbraio 2019

NERO KANE

Nero Kane
 Love In A Dying World
[American Primitive 2018]
 File Under: Desert Folk Experiencer
fuzzclub.shop
di Nicola Gervasini

La giungla di produzioni indie italiana è ormai fittissima e non sempre offre qualcosa di veramente originale, per questo siamo contenti quando incontriamo un progetto come quello di Nero Kane (Marco Mezzadri all'anagrafe), musicalmente forse ostico per molti nostri lettori, ma decisamente in linea con quello che è l'immaginario che da sempre muove la nostra webzine. Love In A Dying World nasce come disco, ma diventa anche un cortometraggio (realizzato da Samantha Stella, artista visiva e performer/danzatrice/tastierista che lo accompagna anche nei live) che segue Kane in un pellegrinaggio nel deserto americano. Una sorta di viaggio lisergico nel profondo dell'America con visioni alla Wim Wenders, che Kane commenta con una serie di brani realizzati a Los Angeles con la produzione di Joe Cardamone (era il leader degli Icarus Line), e caratterizzati da un suono molto evocativo per sole chitarre e tastiere, che miscela folk e blues con sapori psichedelici in cui si ritrovano sia echi di West Coast (Desert Soul) che di New York e Velvet Underground (Black Crows). Ma soprattutto tanto di David Eugene Edwards (16 Horsepower e Woven Hand) in How The Day Is Over o di Mark Kozelek (Dream Dream), il tutto condito da ottima cura nei suoni (la chitarra diBeacause I Knew When My Life Is Good fa vibrare le casse e l'anima). La mancanza di ritmo e percussioni rende l'ascolto forse un po' straniante, ma è evidente che l'album è da considerarsi non slegato dalle immagini che lo accompagnano. Il film è visibile integralmente a partire da febbraio sul sito www.artribune.com.

venerdì 8 febbraio 2019

HERSELF

Herself
Rigel Playground
[Urtovox/Audioglobe 2018] 
 
File Under: Slow-Folk passion
urtovox.com
di Nicola Gervasini

Il palermitano Gioele Valenti può essere considerato un veterano della cosiddetta scena neo-psichedelica (all'attivo esperienze con band come JuJu, Josefin Ohrn, Lay Llamas), ma ora con il nickname di Herself prova la carta solista con l'album Rigel Playground. Un disco molto interessante, realizzato in totale solitudine da polistrumentista, ma con un suono reso pieno dagli intrecci di tastiere e chitarre. Si parte con la voce quasi strozzata dell'iniziale Another Christian (pare quasi un J Mascis sotto effetto di sedativi), per proseguire con la splendida Bark, folk-song lisergica dove riescono probabilmente ad incontrarsi Pink Floyd, Elliott Smith, Sparklehorse e Bon Iver in un colpo solo. L'autunnale Crawling spinge più sui toni oscuri, mentre In The Wood trova una melodia da vero indie-folker alla Iron &Wine prima maniera. Il brano forte dell'album è il singolo The Beast Of Love, sia perché vede la collaborazione di Jonathan Donahue, cantante dei Mercury Rev (di cui Herself è stato artista-spalla nel recente tour), sia perché riesce a ipnotizzare l'ascoltatore per quasi sette minuti, meglio se vissuti guardando il video che cerca la Palermo più dark. Chiudono il giro blues di The Witness, ottimo intermezzo di energia, e il pessimismo folk di Treats ("When everything is clear, I see black"), marchio di fabbrica di un autore che ama i toni dimessi (se non proprio depressi) soprattutto nei testi, ma dimostra con questo album di avere in studio una statura da scena internazionale. E in questo caso la durata di 33 minuti permette di concentrarsi al meglio su sette brani che ci sentiamo di consigliare.

mercoledì 6 febbraio 2019

SOLDI E ROCK AND ROLL

Hey tu! Proprio tu. Tu che nel 1984 aspettavi le feste di classe solo per poter ballare Against All Odds di Phil Collins con la compagna o il compagno che ti piaceva tanto, è arrivata la tua occasione per ricordare tutto! Limonate (in entrambi i sensi) e due di picche (in un solo senso) compresi.
Il 17 giugno 2019 Phil Collins infatti tornerà a suonare a Milano al Forum di Assago! La notizia è di quelle da urlo per i tantissimi fan del cantante inglese, anche per quelli che fanno finta di non ascoltarlo solo perché negli ambienti “musical chic” Collins è più o meno visto come il diavolo.
Urlate quindi, soprattutto perché il tour lo vede in azione dopo lungo tempo di inattività, e il nome fa capire che l’occasione potrebbe essere unica. Il Not Dead Yet Tour (“Non ancora morto Tour”, se c’è una cosa che non gli è mai mancata è l’autoironia) è infatti il primo dal 2005 ad oggi, e arriva dopo un periodo di depressioni e malanni fisici di varia natura. Poco importa che l’artista non pubblichi un album di inediti dal 2002, l’occasione di riascoltare i suoi successi degli ottanta e metà anni novanta è ghiotta per qualsiasi nostalgico, ma…c’è un ma. I prezzi.
90 euro il più basso, 300 euro il più alto. E non è certo la prima volta, stesso discorso, e più o meno stessi prezzi, chiesero i Rolling Stones per il concerto a Lucca dell’anno scorso ad esempio.
Faccio due conti: con 90 euro oggi ci compro quasi tutta la sua discografia solista in cd, sforo solo giusto a voler prendere anche quella dei Genesis, che è più corposa. Però poi penso: non sono solo 90 euro. C’è la prevendita (che è in percentuale di solito, e questa è la follia più grande di tutte), c’è il viaggio, c’è il panino con la salamella preso dai “luridi” (i chioschi posti nei parcheggi), ci sono le birre e coca cola annacquate, c’è la maglietta (vuoi non avere un ricordo?), e c’è il Camogli all’autogrill nel viaggio di ritorno. Stima intorno ai 150 € (sempre parlando della soluzione più economica).
Come siamo arrivati a questa follia? Semplice, il rock è morto (così si dice in giro), ma i padri fondatori stanno ancora in piedi. E non fanno più “concerti”, fanno “eventi”. E agli eventi bisogna esserci. Punto.
Ma qui il discorso si ferma, perché qui la morale non la si fa a nessuno, e perché al portafoglio non si comanda, esattamente come al cuore. E quindi andiamo pure tutti a vedere Collins, gli Stones, e chi altri riesca a scucirci simili cifre per un paio d’ore (se va bene) di juke-box di pezzi che sappiamo già a memoria (e loro si guardano bene dal riarrangiare, anche solo così, per far finta di averci messo del genio in più). Se loro fanno quei prezzi è solo perché noi abbiamo soldi e buona volontà per affrontarli. Si chiama legge di mercato.
Ma a costo di fare il rompiballe della compagnia che quando tutti sono d’accordo su una pizzeria per la serata, tira fuori il nome di una che solo lui sa essere migliore, ricordiamoci che con i 150 euro potremmo vedere almeno 5 serate in qualche locale a sentir suonare qualche musicista italiano o straniero davvero valido. Magari anche più attivo di un Collins o un Jagger, ormai appagati e capaci solo di rifare i vecchi pezzi. Chi? Non mi lancio in consigli (ho troppi nomi in mente, farei torti a tutti), ma facciamo un esperimento: anche solo una volta ogni tre mesi, andiamo a sentire nel locale più vicino anche un artista o una band a caso. Qualcosa che ispira così, a sensazione, anche solo sulla carta.
Vi assicuro che capiremo a quel punto quanto questi prezzi siano assurdi relativamente all’esperienza offerta (non entro invece nel discorso su costi effettivi e cachet dell’artista, perché non è con gli organizzatori che me la prendo in questo caso). Al peggio potremmo incappare in una cover band di Phil Collins, ma in quel caso vi assicuro che suonerebbero Against All Odds esattamente come era nel 1984, ed esattamente come la suona ora Phil nel 2018. In più, però, nei locali c’è una migliore scelta di birre e liquori di solito, e io non sottovaluterei affatto la cosa.

sabato 2 febbraio 2019

DAVID CROSBY



David Crosby
Here If You Listen 
[
Bmg 
2018]
davidcrosby.com
 File Under: If He Could Only Remember Their Names

di Nicola Gervasini (17/12/2018)


Il rammarico che ho sempre avuto su David Crosby era il fatto che tutto sommato nei suoi anni d’oro abbia pubblicato veramente poco a suo nome. Probabilmente anche per accordi con i ben più scaltri compari Stills, Nash e all’occorrenza Young, nei dischi di gruppo lui era sempre quello rappresentato con meno canzoni, e di fatto prima di Oh Yes I Can del 1989 aveva prodotto un solo album solista e i tre dischi in coppia con Graham Nash, anche lì con contributo in minoranza (Byrds a parte ovviamente, dove comunque ha avuto modo di pubblicare poche canzoni a sua firma). Ho come la sensazione che, arrivato a settant’anni, si sia reso conto di aver perso molto tempo, e ora tenta un recupero con una improvvisa frenesia discografica. 

Quattro album dal 2014 ad oggi sono un ritmo inusuale per lui, ed era ovvio che nella fretta finisse anche per affrontare progetti non del tutto necessari. Innanzitutto, va notato che, nonostante siano stati bene accolti, gli album Croz, Lighthouse e Sky Trails avevano un piccolo difetto di fondo, e cioè il fatto di averci fondamentalmente confermato che l’uomo sa scrivere un solo tipo di canzone: la qual cosa, quando gli viene bene, è senza rivali, ma l’idea di base è pur sempre quella di un folk che gli permetta di valorizzare la sua voce quasi come se fosse uno strumento. C’era dunque bisogno di qualche cambiamento, ma sembra che questo Here If You Listen non riesca troppo a smuoverlo dalla sua rassicurante consuetudine musicale. Peccato, perché il disco nasce come progetto corale con i musicisti che già lo seguono in tour, con ampio spazio dato alle voci Michelle Willis e Becca Stevens e al multistrumentista Michael League (co-titolari anche in copertina), e c’era da aspettarsi forse qualche idea in più. 

Crosby invece prova a rimescolare le carte con qualche rifacimento (1967 e 1974 sono vecchi inediti rimaneggiati, Woodstock è proprio quella Woodstock lì…) e aggiungendo al suo solito menu piatti nuovi, con particolare enfasi sul singolo a tre voci Glory e altri brani al solito suggestivi e melodicamente perfetti come I Am No Artist, Balanced on a Pin o Other Half Rule. Ma alla fine solo in Janet pare sfruttare al meglio le possibilità che la formazione gli offre in termini di variazioni musicali. Per il resto, se avete apprezzato i tre dischi precedenti, Here You Listen non vi deluderà, perché il grande vecchio della West Coast continua a insegnare stile, e si dimostra sempre in grande forma, tanto da intimidire ancora i propri amici e comprimari. E questo nonostante fin dal suo mitico If I Could Only Remember My Name lui abbia amato lasciare spazio anche agli altri e non tenersi tutte le luci della ribalta, tipico del suo carattere da ipersensibile bonaccione. 

Nonostante tutto è sempre bello rendersi conto di avere a che fare con lo stesso bambinone di un tempo, che conserva gli stessi sogni, e forse anche la stessa rabbia verso chi quei sogni, secondo lui, li ha traditi (uno dei tanti motivi di rancore con il vecchio amico Graham Nash pare). Forse chiedergli ancora di più non avrebbe senso, ma ho come la sensazione che Here If You Listen potesse anche rappresentare l’ultima occasione per ottenerlo.

BILL RYDER-JONES

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