lunedì 30 settembre 2019

BOXMASTERS

The Boxmasters
Speck
[
Keentone Records/ Goodfellas 
2019]
theboxmasters.com
 File Under: Billy Bob McCartney

di Nicola Gervasini (31/07/2019)
Se leggete queste pagine voglio dare per scontata la vostra conoscenza di Billy Bob Thornton, sia come attore (Babbo Bastardo, la serie Fargo, i film con i fratelli Coen…), che come uomo da bla,bla,bla mondano (file under: Angelina Jolie), ma ancor più ovviamente come cantante e autore a suo nome di quattro album di discreto dark-country-roots, pubblicati tra il 2001 e il 2007 (Private RadioThe Edge of the WorldHobo e Beautiful Door, forse il migliore del lotto). Sono passati 12 anni ormai, e Thornton non sembra voler tornare su quei passi, visto che poi quegli album gli portarono ben poco in termini di notorietà. La sua carriera musicale invece in USA ha avuto una impennata con la nascita dei Boxmasters, band creata con J.D. Andrew (il terzo ora è Teddy Andreadis) di cui ci siamo occupati poco, perché i ben 8 album pubblicati in 10 anni rappresentano quanto di più banale e scontato la musica americana possa offrire oggigiorno, album natalizi compresi.

Ma il genere negli USA resta uno dei pochi per cui valga la pena muovere una industria discografica, per cui buon per lui che ha avuto la possibilità di farsi produrre un album nientemeno che da Geoff Emerick, storico tecnico del suono dei Beatles, e, non scordiamolo, anche produttore di capolavori come Imperial Bedroom di Elvis Costello. Basta dunque questo per parlarvi del nono album dei Boxmasters, intitolato Speck? No teoricamente, ma fin dalla partenza di una I Wanna Go Where You Go che pare uno dei tipici prodotti di Jeff Lynne, sospesa a metà tra Beatles e Tom Petty, si capisce che qui si torna a riprendere il discorso lasciato interrotto nel 2007. Tutto sa di Beatles ovviamente, ma anche spazio a belle ballate urbane come Let The Bleeding Pray e stramberie roots per nulla prevedibili come la marcia circense contrappuntata dal trombone di Shut The Devil Up. Certo, qualcosa è cambiato negli ultimi dodici anni, prima di tutto la voce, che si è fatta meno profonda e un po’ più stridula, e questo è un po’ un peccato, perché ai tempi sarebbe bastato il suo timbro basso a far stare in piedi un brano davvero elementare come Here She Comes, mentre oggi ne esce solo un power-pop un po’ sgraziato che fa rimpiangere tanto il miglior Freedy Johnston.

Pecche di un artista che perfetto non lo è mai stato, né tanto meno autore di primo livello, ma che qui perlomeno torna ad offrire qualche buon numero di un roots rock oldstyle, come Anymore, gradevoli leggerezze pop al mandolino come Day’s Gone, o brani che paiono rubati a Elliott Murphy come Watchin’ The Radio. Il disco si chiude con alcuni scanzonati folk-pop come Someday e Square e una title-track che alza decisamente l’asticella qualitativa. Speck non è certo uno dei dischi più importanti dell’anno, ma perlomeno rimette in carreggiata un artista per cui non si può non provare una certa simpatia, e finisce per essere anche un degno commiato per Geoff Emerick, morto lo scorso ottobre prima di poter vedere realizzato questo suo ultimo progetto.

martedì 24 settembre 2019

LUCA BONAFFINI

Luca BonaffiniIl Cavaliere degli Asini Volanti[Long Digital Playing 2019]
 
File Under: Chakra folk
facebook.com/longdigitalplaying
di Nicola Gervasini
La storia artistica di Luca Bonaffini ha radici lontane fin nei primi anni 80, con ormai tredici album all’attivo e una lunga vita come uomo dietro le quinte delle produzioni di Pierangelo Bertoli, con cui ha suonato e scritto per lunghi anni. Sue canzoni sono state interpretate anche da Fabio Concato, Flavio Oreglio, Claudio Lolli e anche star della canzone pop italiana come Nek si sono serviti del suo catalogo. Il Cavaliere degli Asini Volanti è un album davvero curioso, sia per lo stile che mischia canzone d’autore classica italiana di taglio folk, ad una certa vena di pop italiano, ma soprattutto per l’idea di ispirare ogni singolo brano ai sette Chakra, i punti nodali del collegamento tra anima e corpo secondo molte filosofie orientali. Un viaggio musicale attraverso i sensi dell'uomo e la terra, tra sonorità etniche e melodie pop, come l’iniziale La Radice che alterna una strofa da chansonnier vecchio stampo ad un ritornello orchestrale sospeso tra Battiato e melodica italiana. La lotta tra arrangiamenti da vecchio folksinger italiano e le orchestrazioni elettroniche, pensate dal co-produttore Roberto Padovan, sono l’elemento più interessante, come dimostrano gli intrecci con le percussioni di Impulsi Verticali e la ballate popolari alla De Andrè o Vecchioni di La città delle fiere danzanti Di mare di terra di fuoco e di cielo. Concludono il disco il dolce arpeggio folk di Il Frutice e la Grande fionda, una Il Pianeta dei Sussurri Giganti che ricorda molto lo stile di Samuele Bersani, e il finale con la ritmata La Montagna del Bacio Gigante. Probabilmente Il Cavaliere degli Asini Volanti è un prodotto a metà tra due mondi musicali poco conciliabili (o concilianti) perché possa piacere a tutti, e proprio per questo resta un disco coraggioso.

giovedì 19 settembre 2019

EMANUELE ANDREANI

Emanuele AndreaniE' questione di sopravvivenza[Emanuele Andreani 2019]
 File Under: Folliefacebook.com/emanueleandreanicantautore
di Nicola Gervasini
Emanuele Andreani è un giovane autore di Pesaro, appartenente ad una tradizione che unisce folk e musica melodica italiana, ma portatore di uno stile decisamente personale per cui faccio fatica anche a trovare riferimenti precisi (il che costituisce già un primo grande complimento). Esordiente nel 2013 con l’album La Vergine Ispirazione, Andreani propone ora un progetto molto particolare intitolato È Questione di Sopravvivenza, ben 15 pezzi autoprodotti, caratterizzati dalla sua voce molto particolare e squillante, quasi vicina allo stile di certo prog italiano degli anni settanta. Anche gli arrangiamenti infatti mischiano strutture folk con inserti di rock radiofonico (prendete Ruggine, che parte riflessiva ed esplode in un finale decisamente elettrico), mentre Uomini ad esempio unisce un giro di acustica e armonica con un incedere minaccioso garantito da varie tastiere. Molto interessanti i testi del disco, pregni di un umane trova ne Il Matto la migliore espressione, riflessione sulla vita ai margini di un artista, ma anche volendo di chi magari non è ritenuto “normale” per qualche incomprensibile ragione. La ragione di Andreani è ad esempio la sua cecità, caratteristica che si legge tra le righe delle canzoni, ma che segnaliamo soprattutto perché i proventi delle vendite del disco andranno interamente all'Unione Italiana dei Ciechi e Ipovedenti (www.uicipesaro.it) di Pesaro. Operazione benefica che ci sentiamo di appoggiare, anche perché il disco, seppur nella sua non ben calibrata lunghezza, mostra comunque un autore già molto maturo che forse meriterebbe anche una produzione ancor più adatta. Sentite ad esempio Schiavi, che è una bella ballata in mid-tempo rock con qualche tastiera in primo piano forse di troppo, che non toglie comunque valore al brano.

martedì 17 settembre 2019

ERNESTO BASSIGNANO

Ernesto BassignanoIl mestiere di vivere[Helikonia 2019]
 File Under: Materiale resistentefacebook.com/helikoniaconcerti
di Nicola Gervasini
Se dico Folkstudio, voi giustamente pensate a De Gregori e Venditti, ma prima di loro in quel gruppo di giovani cantautori della Roma di fine anni sessanta c’era anche Ernesto Bassignano. Autore che poi ha preferito altro tipo di carriere (soprattutto conduttore radiofonico, ma anche attivista politico), pur non smettendo mai di sentirsi prima di tutto un cantautore. Il Mestiere di Vivere è infatti solo il nono album dal 1973 ad oggi, una carriera lenta ma importante (il secondo album Moby Dick venne prodotto da Rino Gaetano) di autore “impegnato” come si diceva un tempo, o interessato alla coscienza sociale come preferisco definirlo oggi. Il tema principale è quello di un vecchio attivista sociale alle prese con i tempi moderni, subito espressa in Amiamoci di Più che apre con un accorato appello a mantenere l’umanità di un tempo, un tema ripreso anche dal pittore solitario di Commesso Viaggiatore, intento a dipingere paesaggi immaginari in mezzo al grigiore della sua città. Il tema dell’eredità morale si fa poi evidente in Gli Occhi di mio Figlio, sorta di Father And Son all’italiana rivolta forse più ad una generazione che solo al proprio figlio, prima dei resoconti personali della title-track e del momento da teatranti di strada di Il Giullare Verticale, che vede l’intervento di David Riondino. Al mondo degli artisti sono dedicate la disillusa Gli Artisti e anche La Vita l’è quel che l’è, dedicata al gruppo di amici del Derby di Milano, mentre si chiude con il canto di resistenza di Un paese Vuol Dire ispirata da La Luna e il Falò di Cesare Pavese. Il mestiere di vivere è un prodotto da vecchia guardia anche negli arrangiamenti (producono Stefano Ciuffi e Edoardo Petretti) ma decisamente ancora attuale nelle riflessioni.

lunedì 9 settembre 2019

CHRIS SHIFLETT

Chris Shiflett 
Hard Lessons 
[E
ast Beach Records & Tapes / Thirty Tigers 
2019]
chrisshiflettmusic.com 
 File Under: libera uscita

di Nicola Gervasini (20/07/2019)
Se non ce l’avete bene in mente di viso, magari riconoscerete subito Chris Shiflett come il chitarrista dei Foo Fighters che ama presentarsi con una Gibson Les Paul con sopra incollata l’icona di Ace Frehley dei Kiss ben visibile. Diciamo un omaggio di un musicista divenuto ormai un punto fermo della band di Dave Grohl fin dal 1999, anno in cui decise di lasciare la sua precedente formazione (i No Use for a Name) e affiancarne una nuova per le pause di lavoro (i Me First and the Gimme Gimmes). Dal 2014 però ha messo in pausa anche quel secondo progetto, ragion per cui dal 2017 ha inaugurato con l’album West Coast Town un percorso solista, e il titolo del disco direi che già la dice tutta sull’indirizzo scelto.

L’amore per la musica americana di Shiflett d’altronde non è una novità, e se recuperate il bel film che accompagnava il disco Sonic Highways dei Foo Fighters nel 2014 ne avrete una conferma. Shiflett però ora sembra lanciato ed ecco il secondo capitolo della nuova saga, un album intitolato Hard Lessons registrato a Nashville nel mitico RCA Studio A voluto negli anni 60 da Chet Atkins. L’inizio di Liar’s World è emblematico in questo senso: ritornello da hard rock FM alla Kiss appunto, ma incedere alla Neil Young con chitarre sporche e distorte, e una pedal steel guitar (suonata dall’ex Dire Straits Paul Franklin) che affiora dalla seconda strofa, e che riporta tutto nelle campagne americane. La segue This Ol’ World, che rimane invece indecisa tra il rock muscolare dei Foo Fighters ed un piglio da arena-rock. Più convincente invece Welcome To Your First Heardache, teenage-pop-song tutta chitarre in gran sfoggio, che riporta alla mente l’FM-rock anni 90 dei Gin Blossoms, così come anche la quasi title-track The Hardest Lessons (che verrà ripresa anche nel finale del disco), brano rock che anticipa il rauco country di The One You Go Home To, dove Chris se la cava a tenere un duetto in puro Nashville-style con Elizabeth Cook.

Il disco non riserva poi altre grandi sorprese fino alla bella ballata finale di Leaving Again, e laddove non arriva magari la canzone come in I Thought You’d Never Leave, arrivano comunque alcuni ottimi intrecci di chitarre (oltre a Shiflett e Franklin, aiuta anche l’esperto produttore Dave Cobb), oppure si bada al sodo con il bar-boogie di Weak Heart, con tanto di piano martellante suonato da Michael Webb. Album breve (32 minuti), composto principalmente da brani al di sotto dei tre minuti, Hard Lessons è uno sfogo di old-style rock di un chitarrista in libera uscita, e , come spesso succede, è un disco che esalta un suono ma non certo una voce (la sua resta un poco anonima) o un particolare songwriting (i brani sono tutti perfettamente inquadrabili in un stile ben preciso). Basta per divertirci, ma forse non per rimanere in cima ai nostri pensieri. 

lunedì 2 settembre 2019

WALKING ON THE MOON


Walking On The Moon
Se Ludovico Ariosto sulla Luna ci mandò il paladino Astolfo a cercare le ampolle del senno dell’Orlando Furioso, Neil Armstrong il 20 luglio del 1969 ci trovò invece solo pietre e sabbia, e il suo primo grande passo servì sostanzialmente a piantare una bandiera. Un vero choc per la fervida fantasia degli autori musicali, che quella sera persero un romantico punto di riferimento di tante canzoni. Per questo dopo il 1969 non uscirono più una Fly Me To The Moon cantata da un Frank Sinatra che chiedeva alla propria compagna di farlo volare fin lassù con i baci, e neppure un nuovo standard come Blue Moon (era il 1934), dove si sospirava alla Luna per consolare le proprie tristezze. Ci aveva invece visto giusto quella vecchia canzone rockabilly del 1959 di Jimmy Stewart, Rock on the Moon, che si immaginava la Luna come una grande sala da ballo in cui scatenarsi liberi da ogni condizionamento. Una canzonetta che fu riproposta nel 1980 dagli irriverenti Cramps, con tutta l’ironia di un’epoca post-punk in cui i viaggi lunari erano già un lontano ricordo, per cui tanto valeva riderci su. L’anno prima Sting scrisse Walking On The Moon per i suoi Police, ma a leggere bene tra le righe si trattava della camminata di un ubriaco nella propria stanza d’albergo, non certo di una missione eroica di una nuova navicella Apollo.
Nel novembre del 1969 i Byrds pubblicarono un album, The Ballad Of Easy Rider, che iniziava col brano che faceva da colonna sonora al viaggio in moto di Dennis Hopper e Peter Fonda, ma finiva con la cover di un pezzo del country-singer Zeke Manners che si intitolava Armstrong, Aldrin and Collins, unica esaltazione musicale dell’impresa avvenuta pochi mesi prima, con tanto di registrazione originale delle voci della Nasa. Senza volerlo furono testimoni di due tragitti umani, entrambi portatori di un desiderio di un diverso futuro, ma voluti da due generazioni diverse. I giovani della generazione-Woodstock (il festival si tenne tre settimane dopo l’impresa dell’Apollo 11) infatti non sembravano credere troppo alla Luna come luogo del futuro, se è vero che la musica di quegli anni cercava una fuga dalla realtà terrena con la mente e non con una navicella spaziale. Dopo il 1969 fu infatti il viaggio interstellare, e non più la Luna, a essere di ispirazione.  Syd Barrett fu uno dei primi che intuì che il parallelo tra il viaggio nello spazio e quello offerto dalle droghe costituiva un interessante punto di partenza per sperimentare nuovi suoni, con brani come Interstellar Overdrive e Astronomy Domine presenti nel primo album dei Pink Floyd del 1967. Ma fu David Bowie che capitalizzò la notizia dell’allunaggio, connettendola all’immaginario collettivo creato da Stanley Kubrick con il suo 2001: Odissea Nello Spazio con il suggestivo video promozionale del singolo Space Oddity. Creò un personaggio per l’occasione, un Major Tom che si perde nello spazio constatando la propria piena solitudine, in un brano tutt’altro che trionfale che fu registrato un mese esatto prima della grande impresa, in verità citando indirettamente le parole di Jurij Gagarin, il primo uomo nello spazio.  Il personaggio ritornò, ormai abbandonato a sé stesso e dipendente dalle droghe, in un'altra sua canzone, Ashes To Ashes, e siamo tornati ancora al 1980 e alla fine dell’era dei sogni spaziali.
Nel 1971 quel suo alter-ego si era invece trasformato in un uomo di successo (Ziggy Stardust), talmente famoso da sembrare un alieno, che proprio mentre la Nasa organizzava l’ultimo viaggio sulla luna con l’Apollo 17, si chiedeva già se poi davvero ci fosse vita su Marte (Life On Mars?) e si accompagnava con dei ragni provenienti da quel pianeta (la sua band erano gli Spiders From Mars). Qualche anno dopo il regista Nicola Roeg scelse significativamente proprio Bowie per impersonare, nel film L'uomo che cadde sulla Terra, un alieno che fa il viaggio inverso, atterrando sulla terra per cercare risorse e speranze per salvare il suo pianeta.
A quel punto era comunque Marte, e non la Luna, a essere diventato il nuovo sogno a cui ispirarsi. Come quello che il Rocket Man di Elton John e Bernie Taupin (uscita sempre nel 1972, con il sottotitolo di I Think It's Going to Be a Long, Long Time) deve scegliere di seguire suo malgrado, sacrificando la famiglia e la propria vita sulla terra. Una canzone che curiosamente descrive una scena molto simile a quella vista nel film First Man - Il Primo Uomo di Damien Chazelle, con un Ryan Gosling/Neil Armstrong combattuto tra responsabilità familiari e senso del dovere per la missione da compiere, ma diventata invece il simbolo della rockstar pronta a sacrificare tutto per il successo, tanto che Dexter Fletcher ha intitolato così il biopic appena uscito nelle sale (seppur unendo i due termini in un unico Rocketman).
Eppure, sempre nel 1972, il jazzista Sun Ra ci credeva ancora al sogno di una Terra Promessa nello spazio, e realizzò un brano intitolato Space Is the Place che divenne pure un blaxploitation nel 1974 (regia di John Coney), dove lo si vedeva fondare una colonia spaziale afroamericana al riparo dal razzismo dei bianchi e dai loro costosi viaggi lunari senza senso (come aveva sottolineato con la consueta cattiveria Gil Scott-Heron nella sua Whitey On The Moon già nel 1970).  Sulla terra nel frattempo i giovani bianchi si facevano catturare dallo “Space Rock” degli Hawkwind, con Lemmy Kilmister che, prima di fondare i Motorhead, insegnò nella celeberrima Silver Machine come costruirsi una navicella spaziale per fuggire.
Dopo il 1980 la Luna quindi era quindi dimenticata, addirittura costretta a difendersi dal dubbio di essere poi mai davvero stata calpestata, come ricorderanno i R.E.M. quando nel 1992 in Man On The Moon alluderanno alle teorie negazioniste, paragonandole alle voci sulla presunta falsa morte del comico Andy Kaufman.  E così l’unica eredità artistica lunare a rimanere viva è forse il Moonwalk, il passo di danza reso celebre da Michael Jackson, ad oggi l’unica forma creativa che ci riporta ancora una volta sulla Luna.

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

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