martedì 25 febbraio 2020

HISS GOLDEN MESSENGER

Hiss Golden Messenger
Terms of Surrender


[Merge/ Goodfellas 2019]

hissgoldenmessenger.com


 File Under: A period of transition

di Nicola Gervasini (02/10/2019)

Se ogni artista possiede nella propria vita un momento di massima ispirazione facilmente identificabile, è naturale che esista poi il ritorno alla normalità. E se nel momento del decollo è facile scriverne bene, ben più difficile è valutare bene l’entità della discesa. Che può essere graduale, o diventare una pericolosa picchiata. La nostra webzine è piena di band americane che ci hanno regalato il disco giusto per poi spegnersi lentamente disco dopo disco (penso ai Dawes, per esempio), o di nomi che invece si sono sgonfiati nel giro di un disco (siamo freschi della grande delusione degli Hollis Brown, secondo esempio). Il caso degli Hiss Golden Messenger direi che a partire da questo album fa parte della prima categoria, perché Terms Of Surrender semplicemente non suona così importante e riuscito come i suoi due predecessori Heart Like a Levee e Hallelujah Anyhow, ma siamo ancor ben lontani fortunatamente dal parlare di una piena delusione.

Mc Taylor, ormai rimasto l’unico motore del progetto, continua la sua strada di una americana-music perfettamente in bilico tra antico e moderno, e si conferma come una delle penne migliori di nuova generazione, tanto che ancora mi chiedo perché non sia riuscito a farsi riconoscere degnamente anche fuori dal mondo dei fans della roots-music, come magari è successo ad altre band contemporanee, ad esempio 
i Phosphorescent. Nessun vero problema qui, se non una prevedibile normalizzazione del loro suono, evidente fin dall’uno-due-tre iniziale di I Need A Teacher, la quasi remmiana Bright Direction (You’re A Dark Star Now) e My Wing, brani che a passarli in radio ti fanno anche canticchiare e battere il piedino (magari non sul pedale, mi raccomando). Poi il disco però prende una piega più sperimentale, ma Old Enough To Wonder Why (East Side – West Side) non va oltre l’essere curiosa fin dal lungo titolo, mentre Cat’s Eye Blue proprio non decolla, e quando riprendono il ritmo, arrivano pop-song abbastanza vacue come Happy Birthday Baby o Katy (You Don’t Have Yo be Good Yet), che vanno a cercare anche i Jayhawks del periodo Sound Of Lies/Smile probabilmente. 

Insospettisce anche il suono, con la batteria grossa quasi anni 80 tornata di moda in questi anni Dieci in bella evidenza, e quel piglio un po’ dark alla War On Drugs che hanno adottato in troppi ormai per non far pensare ad una scelta volutamente “mainstream”. Fortunatamente gli Hiss Golden Messenger hanno le spalle abbastanza larghe per reggere artisticamente anche un disco magari un po’ più “furbetto”, e quando tornano sui passi di una lenta folk-song elettrica come Down at The Uptown o nel dark-country di Whip, sanno sempre come far quadrare le cose. Da avere per fans e completisti, ma se volete conoscere la loro musica non partite da qui.

venerdì 21 febbraio 2020

HANK SHIZZOE

Hank Shizzoe
Steady As We Go


[Blue Rose 2019]
hankshizzoe.com

 File Under: guitar blues

di Nicola Gervasini (31/10/2019)
Sono circa venticinque anni che lo svizzero Thomas Herb tiene alta la bandiera della roots-music anche nella “Federazione”, sotto il nickname di Hank Shizzoe, tanto che ormai quasi ci si dimentica delle sue origini bernesi e lo si prende davvero per un hobo di Austin perso nel centro Europa. Ovviamente promosso dalla tedesca Blue Rose, etichetta da anni impegnata nella propagazione del verbo americano nel vecchio continente, Steady As We Go è una sorta di riassunto stilistico di tutta la sua carriera e delle sue influenze, dove otto cover e tre originali convivono perfettamente.

Shizzoe non è un vocalist particolarmente dotato (anche se il suo accento ben nasconde le sue origini), ma è uno che ci sa fare davvero con la chitarra, con uno stile 'Laid Back' alla JJ Cale che caratterizza anche questo pugno di canzoni. Stilisticamente sono tre i registri usati da Shizzoe: il primo è quello di un country swingato e jazzy, alla Willie Nelson direi, qui portato avanti con lo standard Careless Love (brano portato al successo da Lonnie Johnson) e la cover di Days of Heaven di Randy Newman (un inedito uscito nel suo box del 1998) . C’è poi un registro più puramente blues, qui rappresentato da I Been Treated Wrong di Washboard Sam o da Make Me A Pallet On Your Floor di Mississippi John Hurt, mentre la sua anima da vero outlaw country riaffiora in alcuni episodi lenti e sofferti come On Top Of Old Smokey (Hank Williams) o Cool Water, brano scritto da Bob Nolan dei Sons Of Pioneers. A completare il programma si aggiungono alcune cover più celebri, su tutte la stranota Stan By Your Man di Tammy Wynette, resa più con rispetto che enfasi, ma nel finale arriva anche il sentito omaggio al nuovo mito di Tom Petty con una convincente versione di California (era sulla colonna sonora di She’s The One).

Il padrone di casa se la cava anche nei brani autografi, con una title-track che evidenza anche un taglio da cantautore classico e l’accoppiata Havre De Grace e They’re No Good (qui aleggia forte l’influenza di John Prine) che non sfigurano in mezzo a tanti classici. C’è forse da lamentare una certa esagerata rilassatezza nei toni, ma dopo che vi ho parlato di JJ Cale penso che abbiate ben capito lo spirito da sedia a dondolo sulla veranda di queste canzoni, e sono invece notevoli i suoni confezionati grazie all’eccellente lavoro di mastering fatto in California da Stephen Marcussen, un maestro nel ruolo che ha lavorato in passato con Johnny Cash per American Recordings, Rolling Stones, Tom Petty per Wildflowers, Ry Cooder e Willie Nelson. Steady As We Go può essere quindi un buon modo per conoscere questo indomito bluesman d’oltralpe, forse uno dei migliori della scuderia Blue Rose, a ulteriore conferma di come lo spirito della roots music americana è ormai da tempo condiviso anche in Europa.

lunedì 17 febbraio 2020

THE PROPER ORNAMENTS

The Proper Ornaments
6 Lenins


[Tapete Records 2019]

theproperornaments.bandcamp.com

 File Under: Indie’s Greatest Hits

di Nicola Gervasini (16/11/2019)
Ho la seria tentazione di fare un fioretto e abolire, a partire dal 2020, l’uso della parola “indie”, ormai divenuta prefisso di troppe cose, e la cui funzione possiamo forse ritenere esaurita. Al massimo, visto che ormai gli steccati di genere sono un ricordo ormai lontano, potrebbe rimanere viva l’espressione “avere un’attitudine indie”, dove il termine non indica più l’effettiva indipendenza da una major discografica o da schemi modaioli “mainstream”, per dire i due significati forse originari, ma proprio una voluta ricerca di uno stile dimesso, sussurrato, “gentile” quasi mi viene da dire, che è ormai scelta stilistica aprioristica per molti nuovi artisti.

Premessa necessaria questa per presentare il terzo disco dei Proper Ornaments, “an Indiepop band from London, UK” leggo nella presentazione, e che ci starebbe a fare quindi sulle nostre pagine di cultori “yankee-friendly”, vi starete chiedendo. Semplice, qui il suddetto “Indie-pop” è uno specchietto per le allodole per renderli appetibili a chi ancora bada alle etichette, perché la musica contenuta in questo Six Lenins è piuttosto figlia dell’amore per chitarre e arpeggi del rock universitario americano degli anni 80, quello dei REM dunque, ma arriverei a scomodare i Galaxie 500 come ispirazione primaria, con melodie che guardano anche agli Spaceman 3. Fine dei rimandi, delle generalizzazioni e delle coordinate che vi servono anche solo per capire se avete voglia dell’ennesimo impasto di voci e chitarre sixties offerto dall’inziale Apologies, del drumming alla Moe Tucker di Crespuscolar Child, di una ballatona come Where Are You Now che pare cantata da Jeff Tweedy dei Wilco.

E si continua con A Song For John Lennon, esplicativa fin dal titolo, ma anche dal cantato “lennonesco” di James Hoare, già noto con i Veronica Falls prima di imbarcarsi in questa nuova avventura nel 2013 in compagnia del socio Max Claps (ex Toy), o con una Can’t Even Choose Your Name che cerca l’aria sbilenca di certe ballate di Elliott Smith. E si va avanti per 32 minuti, con testi che parlano di rinascita e del ritrovare sé stessi dopo i problemi di droga e disturbi mentali che hanno attanagliato i due artisti, tra echi di Belle & Sebastian (Please Realease Me) e giri stralunati alla Eels (Bullet From A GunSix Lenins). Non basta il momento più grezzamente acustico di Old Street Station e qualche timido inserto elettronico nella finale In The Garden però a donare all’insieme spunti di grande originalità, e alla fine Six Lenins suona come un disco-riassunto di una musica che, la si chiami indie-pop, o indie-folk, o quello che vorrete inventarvi, porta con sé l’inevitabile effetto nostalgico dei bei tempi andati di una qualsiasi antologia da classic-rock.

martedì 11 febbraio 2020

MASSIMILIANO LAROCCA



Massimiliano Larocca
Exit | Enfer


[Santeria Records/Audioglobe 2019]
 
File Under: The Hugo's way


facebook.com/maxlaroccamusicpage

di Nicola Gervasini

Bastano anche solo i primi trenta secondi dell’iniziale Black Love per capire come il viaggio musicale di Massimiliano Larocca abbia ormai preso strade ben diverse rispetto al folk degli esordi. Escludendo il progetto dedicato al poeta Dino Campana (Un mistero di sogni avverati), che fa storia a sé, se il precedente Qualcuno stanotte già si faceva scudo degli arrangiamenti mai banali di Antonio Gramentieri aka Don Antonio (comunque in session anche in questa occasione), qui addirittura troviamo Hugo Race in regia, e il brano sopracitato, cantato in inglese, altro non sembra che una sua canzone. E fa quindi un po’ impressione all’inizio ascoltare Massimiliano cantare una delle sue classiche composizioni come Cose che non cambiano su una base elettronica, quasi da trip-hop anni 90, ma se nel precedente lavoro a volte si sentiva un leggero slegamento tra la parte musicale e la parte cantata, oggi il merito subito evidente di Race è quello di aver reso la voce di Larocca perfettamente funzionale al suono utilizzato. Hugo Race lavora spesso giocando di sottrazione, lasciando comunque in primo piano la canzone quando non necessita di troppi interventi (Il giardino dei salici) o "sovrastando" con suoni e voci quando magari la melodia si fa semplice talking-blues (Guerra fredda, con il piano di Howe Gelb, o Il regno, con la voce di Giulia Millanta). Un mix di elettronica, chitarre spesso distorte e atmosfere decisamente noir che tradisce il tocco d’autore del regista, ma che Larocca sa riempire con un pugno di canzoni convincenti che non smettono mai di tradire la loro natura di folk-songs da leggere e riascoltare come (Eravamo) OrfaniSi chiamava Lulù o Il cuore degli sconosciuti, fino ad una curiosa ballata anni 60 come Fin Du Monde. Qualcuno storcerà il naso per tanta “modernità”, ma Exit/Enfer è il più classico “disco della maturità”.

giovedì 6 febbraio 2020

BIG THIEF

Big Thief
U.F.O.F. + Two Hands
[4AD 2019]
bigthief.net

 File Under: Dal tramonto all’alba
di Nicola Gervasini (10/12/2019)
Negli anni Sessanta era più che normale che una band pubblicasse due (e anche più) dischi nello stesso anno, sia perché il periodo di vita commerciale di un disco era stimato in tre mesi al massimo (sei mesi se proprio aveva successo), sia perché spesso i brani erano registrati in pochi giorni e con pochi interventi produttivi successivi. Per questo motivo, è particolare che una band come i Big Thief, esordienti di ottime speranze solo poco tempo fa con gli album Masterpiece (2016) e Capacity (2017), abbiano pubblicato quest’anno una doppietta a pochi mesi di distanza, a dimostrazione della loro crescita e del fatto che sono sicuramente una delle realtà “nuove” più interessanti del momento. U.F.O.F. è uscito il 3 maggio, Two Hands l’11 ottobre, eppure non sono due dischi nati dalle stesse sessions, e si sente.

U.F.O.F.
 (in teoria sarebbe un acronimo medico che sta per Uniocular Fields of Fixation, ma loro ci hanno giocato trasformando UFO - Unidentified Flying Object – aggiungendoci la parola Friend, per cui il senso corretto è “Fare amicizia con l’ignoto”) nasce infatti a Washington, e quando è uscito è stato acclamato un po’ ovunque come il loro disco della maturità, con l’intreccio tra la voce di Adrianne Lenker e le chitarre di Buck Meek che raggiunge in certi pezzi una nervosa tensione, che in qualche modo me li fa vedere come gli eredi spirituali dei Mazzy Star. L'album possiede anche un mood alquanto tetro, occhieggia allo slowcore in brani come Contact o Open Desert, e si apre al pubblico solo in rari casi come Strange o Century, aggiungendo ad un mix certo non inedito e innovativo un tocco “indie” tutto loro. Di altro registro è invece Two Hands, che rappresenta quasi una happy side del predecessore, e che la band stessa ha presentato come “the earth twin”, sottolineando lo spirito terreno delle nuove canzoni rispetto a quelle di U.F.O.F, le quali, in un certo senso, rimanevano sospese nell’aria.

Le registrazioni sono avvenute in un ranch del Texas, e forse anche questa ambientazione ha portato a recuperare molto delle loro radici “roots” che in U.F.O.F rimanevano solo accennate. Registrato in presa diretta dal fedele produttore Andrew Sarlo, i dieci brani scorrono leggeri, con il picco di Forgotten Eyes e del lungo primo singolo Not. A questo punto, logico che sia nata la questione tra i fans su quale sia il disco da mettere poi nelle classifiche di fine anno, forse equamente divisi tra chi preferisce la spessa nebbia che ammanta U.F.O.F o il sapore più ruspante e scanzonato di Two Hands. Da parte nostra in mezzo a tante nuove uscite che seguono partiture già scritte, fa piacere ritrovare nei Big Thief una realtà al momento talmente in stato di grazia da poter pensare due dischi così diversi in poco tempo, quasi a dire che per differenziarsi oggi non bisogna inventarsi uno stile (difficile riuscirci ormai), quanto saper maneggiare più registri contemporaneamente, e per una band che in studio non si fa aiutare da session-men e collaborazioni esterne, questo diventa davvero un punto di merito non indifferente.

lunedì 3 febbraio 2020

ALLISON MOORER

Allison Moorer
Blood
[Autotelic/Thirty Tigers 2019]
allisonmoorer.com

 File Under: Blood Sisters
di Nicola Gervasini (20/11/2019)
Esiste una ormai folta schiera di cantautrici legate alla country-music che da anni raccontano l’America con una visione al femminile, attraverso una musica spesso molto sofisticata e al limite del country-pop, ma con un occhio sempre attento alla lezione d’autore alla Guy Clark. Una folla di seguaci di Nanci Griffith e Rosanne Cash, per citare due tra le tante capostipiti del genere, che in questi anni 2000 hanno prodotto un lungo elenco di album piacevoli e sposso anche molto validi, ma con un gusto estetizzante puramente americano che ha impedito che potessero essere prese in considerazione anche dalla critica europea più “indie-pendente”. Allison Moorer non la ricorderei neanche come la migliore del lotto, eppure non penso che se doveste provare ad ascoltare un suo disco (l’esordio risale al 1998 con Alabama Song) ne uscireste "schifati", quanto al massimo solo un po’ annoiati.

Per questo motivo provo a consigliarvi di partire da Blood, disco già molto acclamato in patria e nelle classifiche di genere, in cui la Moorer abbandona un poco le atmosfere sempre troppo costruite “a tavolino” di alcuni suoi album per buttarsi con tutto il cuore in un cantautorato quasi più folk (ascoltate la bellissima Nightlight, ad esempio). L’occasione dell’album è la pubblicazione negli USA di una autobiografia (che potrebbe essere una interessante occasione per capire meglio la sua visione del burrascoso matrimonio con Steve Earle, chiuso definitivamente nel 2015 per sposare il collega Hayes Carll), e quindi il disco segue alcuni episodi della sua vita, in cui viene di nuovo coinvolta anche la sorella Shelby Lynne (accreditata con l’aggiunta del Moorer nel cognome per evidenziarne la parentela), con la quale due anni fa aveva condiviso il già interessante album Not Dark Yet, e che qui regala la voce in I’m The One To Blame.

Non mancano gli episodi più elettrici come The Rock and The Hill, ma alla fine sono i brani più scarni in cui Allison torna con la mente al femminicidio della madre (con seguente suicidio del padre assassino) avvenuto nel 1986 come Cold Cold EarthSet My Soul Free la stessa Blood. Come dimostra anche il bel finale pianistico di Heal cantato con Mary Gauthier, la Moorer ci mette impegno anche nelle performance vocali, lasciandosi alle spalle quella sensazione di fastidiosa e squillante perfezione che un po’ inficiava alcuni suoi dischi del passato, e scoprendo anche tonalità più profonde (The Ties That Bind, pezzo che ricorda molto lo Springsteen più recente come stile, e non per il fatto di prendergli a prestito un titolo storico).
Da segnalare anche l’ottima apertura di Bad Weather e una All I Wanted (Thanks You Anyway) che riporta alla mente il sound alla Heartbreakers dei primissimi Lone Justice, e non troverei complimento migliore.

Blood
 è un disco breve ma molto intenso, che ci permette di caldeggiare per una volta l’ascolto di una artista che a 47 anni speriamo stia inaugurando una proficua età della maturità.

BILL RYDER-JONES

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