domenica 29 marzo 2020

WOOD BROTHERS

The Wood Brothers
Kingdom in My Mind
[Honey Jar Record/ Goodfellas 2020]
thewoodbros.com

 File Under: Blood brothers
di Nicola Gervasini (11/02/2020)
Non sono molto conosciuti nel nostro paese i Wood Brothers, nonostante una carriera che dura ormai dal 2006. Sarà che la loro proposta musicale, catalogabile come "roots-music" per mera comodità, è sempre stata anche fin troppo varia, come già avevamo notato nel disco precedente One Drop of Truth del 2018, disco che faceva forse fin troppo tesoro delle tante influenze che attraversano la loro musica.

I Wood fratelli lo sono veramente, ma se Oliver, che si occupa delle chitarre e scrive i brani, ha una impostazione da puro folksinger ( magari solo nato in piena era jam-bands e quindi con un malcelato amore per la Dave Matthews Band), Chris è un bassista nato a pane e jazz, ed era già noto al grande pubblico come terzo membro dei Medeski Martin and Wood, marchio fondamentale tra gli anni 90 e 2000 del mondo jazz-fusion (per cercare di descrivere la loro indefinibile proposta musicale), e band che non ha cessato di esistere parallelamente al progetto come Wood Brothers. Tutto ciò ha portato il sound del duo (come al solito aiutato solo dal membro aggiunto Jani Rix alle percussioni) su sentieri di uno swing-roots non facilissimo da gestire. Il nuovo album Kingdom In my Mind sembra però aver raggiunto un equilibrio migliore, se è vero che da una parte il duo trova il modo di cogliere la grande capacità di improvvisazione anche in studio, dall’altra il risultato appare più unitario e focalizzato.

I brani sono nati durante le sessions, in cui i musicisti avevano libertà di improvvisare senza obbligo di raggiungere un risultato in tempi brevi, e il clima di gioviale scontro tra talenti si sente chiaramente in queste canzoni. Così anche se nel loro suono passano elementi blues (Dream’s a Dream), gospel-soul (Cry Over Nothing e Jitterburg Love), di black music (Little Bit Broken) o di semplice folk come Little Bit Sweet o Satisfied, il tutto viene finalmente filtrato in maniera autoriale e con un imprinting del tutto personale che evidenzia un deciso salto di qualità rispetto al passato. Insomma, forse i Wood Brothers hanno scalato un gradino in più oltre la tradizione, cominciando a definire un loro stile che ancora non li porta a livelli di band come i Felice Brothers o i migliori Avett Brothers (per citare altri fratelli della scena), ma perlomeno ne cominciano a rappresentare una valida alternativa. Poi magari ad essere severi ci si immagina Don't Think About My Death fatta dai migliori Black Crowes e si sogna qualcosa di più, ma Kingdom In my Mind è un disco che merita comunque la vostra considerazione.

mercoledì 25 marzo 2020

WACO BROTHERS

Waco Brothers
Resist!
[Bloodshot 2020]
bloodshotrecords.com

 File Under: The revolution starts now
di Nicola Gervasini (11/03/2020)

Se Lester Bangs fosse ancora vivo oggi, chissà se perderebbe ancora tempo a lanciare polemiche a distanza con l’altra grande firma del giornalismo musicale americano, Greil Marcus. Se Bangs aveva una visione decisamente progressista del rock, per cui (semplificando molto) potremmo dire che per lui era buono solo ciò che era innovativo o scardinava vecchi schemi, Marcus resta il cantore del rock classico e di una visione, secondo Bangs, anche abbastanza conservatrice. Pensavo a loro ascoltando il nuovo disco dei Waco Brothers, una sigla che molti magari non ricordano neanche più, ma che negli anni 90 nell’ambito di quello che ai tempi chiamavamo alternative-country, scardinò non pochi schemi e fece saltare salde certezze con due album che vi consigliamo caldamente di recuperare come To the Last Dead Cowboy e Cowboy in Flames.

Il loro leader, Jon Langford, ha decisamente riscosso più onori con la sua band primaria, i Mekons, eppure con questo suo side-project, in cui si diverte a vestire uno Stetson per usare la country music per fini decisamente personali, resta una epopea ugualmente importante. Pensavo ai due vecchi critici perché me li immaginavo a sentire assieme questo RESIST! (in maiuscolo, titolo che da solo dice tutto sul clima da sopravvissuti), troverebbero modo di discutere se ha senso che un “rivoluzionario” come Langford si ripeta, semplicemente ribadisca, o semplicemente tiri a campare facendo quello che sa fare meglio, ma ha già fatto in altri tempi. Insomma, avete capito cosa vi trovate qui: una band che ha ancora voglia di suonare, con ampio spazio dato alle schitarrate di Dean Schlabowske e a country-songs che sembrano suonate dai Clash o dai Social Distortion, e un artista che continua a portare avanti in parallelo le due sigle di cui è deus ex machina con estrema dignità, ma senza più la necessità di rompere alcuno schema.

Un disco da 7 per Marcus, da 5 per Bangs probabilmente. Perché oggi, non nascondiamolo, quando sentiamo un nuovo disco di vecchie glorie siamo innanzitutto contenti di sapere che sono “ancora in forma” e ancora sanno dare emozioni (Pete Townshend, che a 20 anni inorridiva all’idea di fare rock da vecchio, oggi si accontenterebbe anche solo di questo riconoscimento), ma la speranza di aspettarsi qualcosa che ci sconvolga la vita, secondo Bangs l’unica che giustificherebbe la pubblicazione di un disco, l’abbiamo un po’ lasciata al passato. Per questo non fatevi ingannare dalla copertina rivoluzionaria e battagliera, e dal claim pubblicitario pensato per loro dalla Bloodshot che urla “Hard Times Call for Hard Country!”, qui la resistenza in brani come Revolution Blues, la cover di I Fought The Law o Bad Times Are Coming 'Round Again, è solo nei testi fortemente politici e polemici, perché musicalmente la band gioca in difesa, rispolverando un cow-punk vecchio e conservatore, che però resta il pulpito migliore da cui declamare questi testi disillusi e feroci.

E anche quelli però, sembrano ormai scritti col piglio del vecchio che borbotta sconsolato il suo “ai miei tempi le cose erano diverse…”, ma che il rock possa essere anche materia per vecchi saggi è ormai stato ampiamente dimostrato, anche se Lester Bangs, morto nel 1982, non lo saprà mai.

sabato 21 marzo 2020

BEN WATT

Ben Watt
Storm Damage
[Caroline/ Universal 2020]
benwatt.com

 File Under: pop veteran
di Nicola Gervasini (19/02/2020)

Doveva accadere prima o poi che il britannico Ben Watt, ormai non lontano dal traguardo dei sessant’anni di età e dai quaranta di carriera, decidesse di passare dalla tesi alla sintesi. Storm Damage, terzo capitolo della sua nuova carriera solista dopo i bellissimi Hendra e Fever Time (ma quarto contando l’antico esordio di North Marine Drive del 1983), è infatti un disco che per la prima volta nella sua storia fa tesoro di tutte le influenze stilistiche abbracciate nel corso degli anni. L’iniziale Balanced on a Wire lo rende subito evidente: c’è l’indie-folk dei suoi ultimi lavori nella struttura delle canzone, c’è quel tocco leggero di elettronica dei tempi degli anni Novanta, quando i suoi Everything But The Girl salirono con successo sul carro del trip-hop, ma c’è anche il raffinato jazz-pop per cui la sigla era divenuta celebre negli anni ottanta, prima che la compagna di viaggio Tracey Horn decidesse di seguire strade separate, anche se solo artisticamente (curiosamente i due si sono sposati parecchio tempo dopo la fine della band).

Nessun cambio di rotta dunque, solamente, rispetto ai due album precedenti, Watt ha deciso di ampliare lo spettro di suoni e influenze, e così anche un brano pianistico come Summer Ghosts arriva a ricordare un certo ispirato pop-elettronico alla John Grant, quando invece A Retreat To Find intreccia un giro acustico folk con un contrabbasso jazz, mentre Figures in The Landscape ripropone duelli tra orchestrazioni e pianoforte alla Style Council. Molto bella Knife In the Drawer, sempre in bilico tra basi jazz e sperimentazioni elettroniche, mentre la lunga e delicata Irene, brano in cui viene aiutato da Alan Sparhawk dei Low, fa giocare benissimo al ricamo una chitarra con un Wurlitzer, preludio ad una più sintetica Sunlight Follows The Night che riporta a certo brit-pop anni 90 alla Verve. Completano il quadro Hand, altra malinconica piano-song che oggi può ricordare molto il lavoro di Bill Fay, e You’ve Changed I’Ve Changed, brano che torna al pop sofisticato dei suoi anni 80 (e ricorda molto anche i Blue Nile), prima che il finale di Festival Song faccia dialogare piano e violoncello chiudendo in tinte grigie un disco davvero intenso.

Registrato in trio, accompagnato da Rex Horan al contrabbasso e Evan Jenkins alle percussioni, Storm Damage è un viaggio lirico di un uomo che cerca nella sfera personale le risposte alle angosce derivate dal contesto politico, qui descritto con toni pessimistici, se non proprio sprezzanti. È un’opera che ha forse l’unico limite nell’essere un riassunto delle puntate precedenti nonostante l’evidente grande sforzo produttivo profuso, ma mantiene il nome di Watt nelle sfere alte dell’attuale panorama di artisti “storici”, a conferma di quanto la vecchia guardia non abbia ancora nessuna intenzione di abbandonare il campo.

GREG DULLI

Greg DulliRandom Desire
[BMG 2020]
gregdulli.com

 File Under: Solo
di Nicola Gervasini (16/03/2020)


Quando si raccontano gli anni 90 oggi, e magari si fa l’elenco di chi è meglio sopravvissuto nel tempo (artisticamente, ma purtroppo spesso nel vero senso della parola), a volte ci si dimentica di Greg Dulli. Non tanto magari dei suoi Afghan Whigs, il cui album Gentleman del 1993 (senza dimenticare Congregation o Black Love) finisce sempre in qualsiasi lista dei "must have" dell’epoca, quanto della sua carriera degli anni 2000. Che è stata tutto sommato regolare, con la sigla dei Twilight Singers a farla da padrone con cinque album che forse non hanno fatto epoca, ma sono sempre stati trattati con rispetto da critica e pubblico, e l’effimero super-duo dei Gutter Twins, creato con Mark Lanegan.

Evidentemente un percorso che non era abbastanza neanche per lui, se è vero che negli anni più recenti Dulli ha sentito il bisogno di riunire la vecchia sigla per la quale è più riconosciuto, in occasione di due album (Do to the Beast del 2014 e In Spades del 2017) accolti da alterne fortune e risultati artistici alquanto discussi. Random Desire è il primo vero album a suo nome, se consideriamo Amber Headlights del 2005 soltanto come una breve raccolta di demo di brani destinati ad un progetto dei Twilight Singers, poi abortito per la morte di Ted Demme. E anche questa volta arriva dopo la morte di un collaboratore stretto, il chitarrista degli Afghan Whigs Dave Rosser, lutto che getta una patina di tristezza su un disco registrato in piena solitudine tra vari studi (non a caso lui cita Todd Rundgren tra le influenze presenti), con l’aggiunta di qualche sporadico intervento di session-men esterni.

E forse proprio perché libero dal condizionamento di dover suonare come un disco degli Afghan Whigs a tutti costi, che aveva secondo me reso non sempre fluidi i due dischi precedenti, qui Dulli dimostra di essere pronto ad entrare nella sua era matura (ha ormai 55 anni pure lui…). Lo fa con un disco “solista” a tutti gli effetti, in cui esaurite le appartenenze ad un certo rock che fu nei primi brani (Pantomina resta legata al mondo Afghan Whigs, Sempre e Marry Me sono un mid-tempo e una ballatona acustica da classic-rock), Dulli si butta nel mondo di una canzone adulta fatta da piano-songs (Black MoonSlow Pan) e orchestrazioni che un tempo mai avremo sospettato di poter trovare in un suo disco (Scorpio o Lockless), con inevitabili inserti elettronici un po’ ovunque.

Operazione coraggiosa la sua, e per certi versi anche riuscita, nonostante manchi al suo songwriting il respiro del grande autore (anche se It Falls Apart resta però un bel centro al bersaglio), e alcuni esperimenti come The Tide rimangano un po’ a metà strada tra vecchio stile e nuove necessità di ampliamento di visuale. Un disco affascinante anche se non del tutto risolto, ma che sa di inizio di qualcosa che vale la pena seguire in futuro.

giovedì 5 marzo 2020

BILLY CORGAN

Billy Corgan riesce ancora a sorprendere.

La vita artistica di Billy Corgan viene spesso commentata come se ci fosse “un tempo”, quando con gli Smashing Pumpkins produsse tre album cardine della musica degli 90 come Gish, Siamese Dream e il monumentale Mellon Collie and the Infinite Sadness, e un “adesso”, che dura praticamente dal 1998, in cui Billy, con le zucche, da solo o con gli Zwan, ha rincorso un’ispirazione non sempre all’altezza della sua golden era.
William Patrick Corgan - Cotillions
Martha’s Music – 2019
Detto che invece magari qualche episodio della sua vita artistica degli anni 2000 andrebbe rivalutato nell’ottica di un artista che comunque ha provato a cambiare registro per non rimanere imprigionato nei suoi stessi cliché, questo Cotillions pare davvero essere il disco che potrebbe finalmente mettere d’accordo tutti che, ok, i tempi d’oro passano per tutti, ma su quel palco sale un songwriter ancora vivo e in grado di insegnare qualcosa alle nuove generazioni.

La rivelazione William Patrick Corgan – Cotillions

Ancor più paradossale che la quadratura del cerchio su come scrivere e realizzare le sue canzoni Corgan l’abbia finalmente trovata abbracciando in pieno una grammatica da roots-music americana. Fino ad arrivare a scrivere una folk-song che si intitola Hard Times, che penso sia un passaggio obbligato per ogni hobo armato di chitarra acustica in attività negli USA quanto eseguire almeno una cover di Bob Dylan nella vita.

Cotillons è il viaggio americano di William Patrick Corgan

Ed è esattamente questo immaginario che Corgan ha rincorso documentando su Youtube un viaggio negli USA durato 30 giorni da Los Angeles a Chicago.


E che si è tradotto in ben 17 brani che potrebbero fare invidia a Ryan Adams per come riescono a rileggere la musica americana tradizionale in maniera personale e autoriale. Stilisticamente Billy (perdonatemi se lo continuo a chiamare così) non si inventa nulla. Anzi, arriva ad adottare anche una sintassi del tutto codificata come quella della country-music (Jubilee). Anche se più spesso si rifugia in una piano-song come la title-track che lo vede davvero a suo agio con la voce. Quello che impressiona è che Cotillions arriva là dove forse un autore che in fondo qualcosa gli deve come Conor Oberst dei Bright Eyes non è mai riuscito ad arrivare negli album a suo nome, che davvero tanto assomigliano a questo.

Un’ora in compagnia di un cantautore insospettabile

Inevitabile che in un album di 61 minuti ci sia qualche calo di tensione. Ma nel complesso questo disco, che Corgan ha registrato quasi praticamente da solo, produzione compresa, rappresenta uno degli episodi cantautoriali più convincenti del 2019. E lo sforzo risulta ancor più encomiabile proprio perché arriva da un artista che con tutta evidenza sta calpestando sentieri stilistici non abituali. Non so se darà seguito a questa nuova vena, o se semplicemente Cotillions risulta un capriccio personale che i suoi fans storici non saranno così compatti nell’accettare (me li vedo a chiedersi dove siano le chitarre di Siamese Dreams). Ma sicuramente, grazie a questo exploit, i dubbi sulla sua reale statura artistica sorti in questi anni vengono spazzati via definitivamente.

domenica 1 marzo 2020

GIANT SAND

Giant Sand
Glum (25Th Anniversary Edition)
[Fire Records/ Goodfellas 2019]

howegelb.com

File Under: burn sand

di Nicola Gervasini (26/11/2019)

Sono praticamente certo che se prendessimo dieci fan dei Giant Sand e chiedessimo loro di indicare il disco migliore della sigla, avremmo dieci risposte diverse. Nella loro lunga e copiosa carriera, ancor più corposa se si considerano tutti i progetti di Howe Gelb e si aggiunge l’epopea dei Calexico, nata comunque come costola del gruppo (un raro caso di side-project che diventa più popolare della sua origine), di dischi belli e importanti ne hanno fatti tanti, e anche in epoche molto diverse, se è vero che anche in questi anni Dieci hanno detto la loro con il bel Tucson del 2012.

Sicuramente però qualcuno citerà Glum, il disco che nel 1994 in qualche modo riportò in auge la sigla dopo un periodo in cui anche la critica li stava un po’ perdendo di vista, travolti dalle nuove ondate di rock portati in dote dagli anni 90. E sì che solo due anni prima l’album Center Of Universe aveva tentato di coniugare il loro stile (si usa da sempre definirlo “desertico”, per quel che può significare) con i nuovi attriti elettrici e sperimentali che arrivavano dall’affiorare del mondo alternative degli 80, ormai tutti accasati presso qualche major a raccogliere finalmente quanto seminato. Quel disco per molti è il loro vero capolavoro oscuro, ma fu anche un mezzo flop che li portò a fare un passo indietro con il più convenzionale Purge e Slouch del 1993. Con Glum però Gelb compie il coraggioso atto di affidarsi ad un produttore come Malcolm Burn, uno che stava vivendo un momento di grazia dopo anni passati a fare l’aiutante di Daniel Lanois (che qui concede i suoi studi di New Orleans per la registrazione del disco), e che sul gruppo costruisce un suono pressoché perfetto che costituirà di base lo schema per tutte le loro produzioni future.

Ma a girare perfettamente è anche la band, con il duo Joey Burns/ John Convertino ormai pienamente protagonista (ascoltate il finale di Happenstance) e ormai totalmente convinto dei propri mezzi non comuni (i Calexico nasceranno l’anno dopo infatti), e un Chris Cacavas che sguazza dentro gli arrangiamenti sempre molto costruiti voluti da Burn (sentitelo in Frontage Road o Helvakowboy Song). In più una serie di ospiti che vanno dal dobro di Rainer Ptacek che dà benzina a Yer Ropes, al violino di Lisa Germano che interviene a delimitare le armonie, alla voce di Victoria Williams che impreziosisce la pianistica Spun o al solito Peter Holsapple nel suo ruolo ideale di membro aggiunto. Gelb mostra qui il suo grande ecclettismo, passando da cavalcate elettriche alla Dinosaur Jr come Painted Bird al rauco outlaw-country di Left, anche questo pronto ad esplodere a metà del percorso. E ai margini la partenza con una title-track che riprendeva a pieno titolo l’eredità dei Thin White Rope nel definire percorsi elettrici tra la sabbia, e un finale puramente nostalgico con il vecchio cowboy Pappy Allen (fondatore di un noto ristorante e locale per suonare in stile western chiamato Pappy & Harriet's a Pioneertown) che canta il classico di Hank Williams I'm So Lonesome I Could Cry.

Insomma, coordinate precise per far capire da dove veniva e dove voleva andare questa musica, che in questa nuova ristampa appare ancora più bella e attuale, quasi che Glum abbia rappresentato per Gelb e soci un vero e proprio punto di arrivo, anche se poi titoli come Chore of Enchantment del 2000 o Is All Over the Map del 2004 svilupperanno ulteriormente il concetto. La nuova edizione della Fire Records attua una operazione strana, eliminando le bonus tracks che la stessa etichetta aveva incluso in una edizione del 2011 (che era allora la prima ristampa uscita fin dal 1994), e sostituendole con 9 tracce derivanti dalle session a Santa Monica del 10 giungo 1994 definite “Morning Becomes Eclectic, KCRW”, interessanti, anche se slegate dal disco come sonorità.

Inoltre, va detto che nella versione CD di queste nove ne troverete solo due (World Stands Still e I Wish You Love), per cui è evidente l’intenzione di portarvi ad acquistare il doppio vinile. Operazione che sinceramente crea un po’ di confusione (visto che l’etichetta è la stessa, perché non fare una Deluxe Edition con sia queste 9 nuove registrazioni e le 6 outtakes del 2011?), ma che comunque ci riporta a riascoltare uno dei dischi cardine degli anni Novanta, definito come il disco migliore della band persino dallo stesso Gelb sul loro sito, un must have per capire come mai ancora oggi la roots music si suona così.

BILL RYDER-JONES

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