sabato 30 maggio 2020

La lezione del Coronavirus


La lezione del Coronavirus

Orson Welles, mentre girava Il Terzo Uomo, improvvisò sul set una battuta rimasta celebre, e mantenuta nonostante non fosse sul copione scritto da Graham Greene. «Sotto i Borgia per trent' anni l'Italia ha vissuto guerre e terrore, ma ha prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. La Svizzera invece, 500 anni di democrazia e pace, che cosa ha prodotto? Solo l'orologio a cucù.» era la battuta.
Lasciando da parte le generalizzazioni campanilistiche (si sa che le battute migliori sono quelle che usano lo stereotipo per altri fini, e non hanno intenzione di alimentarlo), pensavo alla frase in questi giorni di “allarme Coronavirus”. La battuta infatti nasconde una triste verità, e cioè che i grandi cambiamenti, e soprattutto i migliori progressi della civiltà, sono spesso bagnati da sangue e tragedie.
In altre parole, l’uomo è pigro, e si smuove dall’abitudine e dal proprio quieto vivere nello status quo, solo se ne è costretto, a volte violentemente. Può essere quindi come l’asino che segue la carota dei grandi guadagni, o come chi scappa da un incendio con il fuoco alle spalle, ma difficilmente l’uomo correrà in assenza di carote o fuochi.
Ora dunque abbiamo un fuoco che si chiama COVID-19, che sta condizionando la nostra vita sociale, ma soprattutto economica. Impareremo qualcosa anche da questa esperienza? Forse sì.
Impareremo ad esempio che quei malefici aggeggi che teniamo in mano ogni giorno principalmente per postare sui social e chattare, possono sì servire ai lavoratori per lavorare da casa, ma anche alle scuole per fare lezione a distanza. Invece in questi giorni di scuole chiuse, ho visto professori disperati e impreparati che cercavano di capire come far funzionare una videoconferenza online, con esiti non sempre efficaci. E al di là che l’aggiornamento alle nuove tecnologie è cosa che ogni persona dovrebbe curare prima per sé stesso, non gliene voglio fare una colpa.
Manca infatti un coordinamento dall’alto che faccia capire che quello del lavoro a distanza non è neanche più il futuro, ma un presente che esiste in maniera performante e soddisfacente da anni, e con costi più che affrontabili ormai. Sarebbe dunque dovere dello Stato fare sì che i docenti sappiano già come usare un sistema di videoconferenza, e che ci siano programmi ministeriali appositi pensati per una lezione (e conseguente verifica) a distanza, giusto per non demandare tutto all’improvvisazione del singolo professore.
E, soprattutto, che non possano esistere studenti che non vi possano accedere, perché se l’acquisto di un certo tablet o uno smartphone alla moda è cosa che non deve interessare ad un governo, il fatto che possa esistere qualcuno escluso da questo nuovo modo di educare per mere questioni economico-sociali dovrebbe essere evitato, ma purtroppo mi rendo conto che sto parlando in una realtà che permette che ogni anno una spesa che si aggira tra i 200 e i 500 euro per i libri scolastici gravi sulle famiglie.
È solo un esempio di una cosa che spero impareremo da questa brutta esperienza, che era meglio evitare ovviamente, ma almeno cominciamo già a ragionare sulle possibili conseguenze positive. Basterebbe prepararsi, essere pronti all’evenienza, e il mondo sociale ed economico non sarebbe costretto a bloccarsi completamente in casi drammatici come quello che stiamo vivendo, e anche i decreti che “chiudono tutto” ci sembreranno più sopportabili in ogni senso. Bisogna non essere pigri prima, che ci si guadagna dopo, o perlomeno ci si perde di meno. Vale per la scuola che ho preso ad esempio, ma vale per tutto.

mercoledì 27 maggio 2020

MOBY


Moby | Discografia | DiscogsAlle ore 17 del 26 dicembre 2019 sono sicuro che voi (come noi) stavate ancora cercando di smaltire gli svariati avanzi dei pranzi natalizi, e così ci ha pensato Moby a ricordarci in quel momento, con un post sulla sua pagina Facebook, che la recente Conferenza sul Clima Cop25 non ha minimamente fatto menzione del ruolo dell’alimentazione e dell'agricoltura animale nell’attuale disastro ecologico. “Per essere molto chiari; la produzione di carne e latticini è la terza causa principale dei cambiamenti climatici (nonché la causa del 95% della deforestazione della foresta pluviale)” ammonisce Richard Melville Hall, vero nome di questo newyorkese che da anni crea in egual misura hit radiofoniche e iniziative animaliste, frase poi riproposta anche il 5 gennaio in occasione degli incendi in Australia. Per descrivere come per lui musica e attivismo non siano scindibili, basterebbe trovare un video del tour che fece nel 1996 come “spalla” dei Soundgarden. Ricordo che il numeroso pubblico intervenuto a dare l’addio alla band di Chris Cornell accolse male questo magro Disc-Jockey (tale era ritenuto ai tempi), che si permetteva di scimmiottare la vena più punk-oriented del “grunge”, e così pochi capirono bene l’utilità del suo set tutto chitarre e proclami. Oggi è invece tutto più chiaro, persino quella parentesi di rock alternativo ed estremo che si era concesso con l’album Animal Rights del 1996, prima di tornare dietro le sue consuete consolle e tastiere, e conquistare il mondo con il bestseller Play (era il 1999), quello di Natural Blues e Honey per intenderci. Animal Rights fu un flop totale, ma servì a far da manifesto filosofico della sua arte, ed è solo di tre anni fa il suo ideale seguito, significativamente intitolato More Fast Songs About The Apocalypse. Vegano e animalista convinto, Moby rappresenta al meglio lo spirito ecologista dei nostri tempi, che fa dell’alimentazione umana il punto di partenza per la guerra individuale contro la distruzione del nostro pianeta. Il nome del suo ristorante vegano, il Little Pine, aperto nel suo quartiere a New York nel 2015, è oggi diventato anche una linea di prodotti ad impatto zero, e i proventi di tutte queste sue attività (compresi i libri scritti sull’argomento e il festival ambientalista Circle V), vengono destinati alle numerose associazioni animaliste a cui fa da testimonial, ad esempio quelle contro gli allevamenti intensivi come Humane Society, Farms Not Factories, Best Friends Animal Society e Farm Sanctuary, ma anche la politicizzata MoveOn (nata nel 1996 per difendere Bill Clinton dall’impeachment, oggi attiva per Bernie Sanders). Per trovare fondi per la società Physicians Committee for Responsible Medicine vendette addirittura la sua copiosa collezione di vinili usati per anni quando era un giovane DJ, e non riesco ad immaginare sacrificio più estremo. “Vegan For Life” recita uno dei suoi tanti tatuaggi, e forse non c’era bisogno di ribadirlo.


giovedì 21 maggio 2020

ECO-SONGS


Voci dall'aldilà XII - Joni Mitchell - AngelicASesso, droga e rock and roll, ovviamente. Poi tanti amori immensi e appassionati, corrisposti o dolorosi, persi e mai dimenticati. E ancora rabbia sociale, politica, lotte di piazza, inni generazionali o confessioni individuali: il rock è un’arte che ha affrontato una grande varietà di temi, eppure l’ecologia è un argomento che ha attraversato la storia della musica moderna in maniera molto sommessa, direi quasi marginale.  In questo scenario, la questione “green”, dopo qualche raro accenno negli anni 60 (il Jim Morrison che nel 1967 si chiedeva “cosa abbiamo fatto alla terra?” in When The Music’s Over dei Doors per esempio), ha vissuto principalmente quattro fasi. La prima, a cavallo degli anni 60/70, era permeata da un ecologismo quasi esistenziale, e il tema, nella stragrande maggioranza dei casi, era quello di un ritorno alla natura visto da un punto di vista dell’umano che recupera la sua essenza primordiale al di fuori delle nuove metropoli, viste come mostri omologatori e spersonalizzanti. Di questo parlava Paul McCartney in Mother Nature’s Son dei Beatles (1968), con toni nostalgici per la vita di campagna vissuta da ragazzo ben lontani da quelli della sua invettiva ecologista anti-trumpiana Despite Repeated Warnings, pubblicata lo scorso anno. Quello era il senso cercato anche dai Canned Heat nel celebre invito a tornare a vivere in campagna dell’era Woodstock di Going Up The Country (1968), il Cat Stevens che lamentava l’assenza di prati per i bambini in Where Do the Children Play? (1970), o il Bob Marley che raccontava del contadino trasformato in operaio depresso dal cemento in Concrete Jungle (1973). Insomma, nulla che in Italia il nostro Adriano Celentano, in questo davvero pioniere del tema, non avesse già denunciato con Il Ragazzo della Via Gluck del 1966, e ancora più chiaramente nell’Albero di Trenta Piani (1972), seguito a ruota da Lucio Battisti via-Mogol, con la sua visione della natura come rifugio dei sentimenti veri contro la corruzione della vita moderna (risentitevi Le Allettanti Promesse del 1973 in merito). Che l’impatto della modernità non facesse male solo all’uomo cominciò a rendersene conto Joni Mitchell con la celebre hit Big Yellow Taxi (1970), forse la prima vera canzone ecologista in senso moderno, dove alla cementificazione selvaggia, che era già tema più che dibattuto, lei aggiunse quello dei pesticidi (“Hey contadino, metti via quel DDT, non mi importa delle macchie sulle mie mele, lasciami gli uccelli e le api!”) e della deforestazione (“Hanno tagliato gli alberi, li hanno messi in un museo e ora chiedono alla gente di pagare un dollaro e mezzo per vederli”). Meno famoso, ma decisamente diretto, un brano dello stesso anno creato da Skip Battin e Kim Fowley per i Byrds (Hungry Planet), dove il testo, scritto in prima persona dalla pianeta Terra che si lamenta per come viene depredato selvaggiamente dall’uomo, costituì un primo interessante cambio di prospettiva. Ma furono fuochi di paglia, che preludono ad un periodo in cui la causa passò di moda, se non per qualche tema specifico come la salvaguardia delle balene che toccò Crosby & Nash (The Last Whale del 1975), gli Yes (Don’t Kill the Whale del 1978) e un preoccupato George Harrison (Save The World del 1981), o l’inquinamento dei mari che impensierì i Beach Boys (e chi altri se no?) in Don’t Go Near the Water (1971)  e i Jethro Tull che combattevano contro le compagnie petrolifere in North Sea Oil (1979) . Il che ci porta ad una seconda era dell’ecologismo-rock, quello in cui il problema divenne una delle tante voci possibili di quell’obbligo all’impegno che gli anni 80 portarono nelle tematiche della musica popolare. E così nell’era delle rockstar con la faccia da bravo ragazzo (che non si droga, o perlomeno non lo dice) alla Bono Vox, l’ecologismo diventa solo una delle tante questioni da citare, ma mai importante quanto la fame del mondo (argomento clou del decennio) o la guerra all’impoverimento da “tatcherismo” e “reaganomics” che ha caratterizzato la canzone politica dell’epoca. I Depeche Mode furono i più sensibili con uno dei primi brani che azzardava una visione apocalittica come The Landscape Is Changing (1983), ma al di là dell’impegnato Bruce Cockburn che in If a Tree Falls (1988) accennò per la prima volta alla connessione tra deforestazione dell’Amazzonia e produzione della carne, e gli australiani Midnight Oil che, osservando le terre abbandonate dagli aborigeni, intuirono per primi il problema del surriscaldamento globale nella super-hit Beds Are Burning del 1988 (non a caso registrata nel 2009 da vari artisti per una raccolta fondi contro il cambiamento climatico, e purtroppo divenuta realtà nei nostri giorni), la visione dell’ecologismo anni 80 resta però di un inquinamento figlio del totalitarismo politico e delle scelte folli dei potenti (pensate a This Is Your Land dei Simple Minds del 1989 o al terrore post-Chernobyl di Time Will Crawl del David Bowie del 1987), e non delle abitudini poco eco-sostenibili dei singoli. Per quello bisognerà aspettare gli anni 90, con la crisi economica che uccise l’ottimismo degli 80, e le prime vere prese di coscienza di un problema che coinvolge tutti. L’ecologia sarà infatti uno dei pochi argomenti sociali a interessare molta della cosiddetta X Generation, ben rappresentata dalla scena “grunge” di Seattle (ne parlano Head Down dei Soundgarden del 1994 e Do The Evolution dei Pearl Jam del 1998), ma anticipata dal loro padre spirituale Neil Young, che già nel 1990 avvertì tutti che il disastro era imminente con la sua Mother Nature. Fanno storia a sé i bellissimi album sul tema di Julian Cope (Peggy’s Suicide del 1991 e Autogeddon del 1994 i più incentrati sul tema), qualcosa di più di un folle delirio di un artista che si era calato nei panni di un druido particolarmente ossessionato dall’inquinamento causato dall’industria dell’automobile. Il cambio di paradigma di questi anni è reso ben evidente da Michael Jackson nel 1995, il cui video di Earth Song lo vede nel bel mezzo di una apocalissi ecologica in vari parti del mondo che tocca alte vette di retorica, ma resta comunque una efficace carrellata della presa di coscienza su parecchie questioni fino ad allora solo sfiorate dalla musica popolare. Arriviamo così agli anni 2000, quarta era dell’ecologismo in musica, quella dell’impegno verde che sostituisce il sempre più raro impegno politico, con l’11 settembre 2001 che annichilisce ogni lotta di piazza a causa di un nemico troppo indefinito e lontano per farci una canzone, e un mercato discografico sempre più povero e frastagliato che non ha più interesse ad arrivare a tutti solo con discorsi rassicuranti e poco scomodi. Ai Radiohead il compito di definire il passaggio alla nuova era con le tante canzoni in spirito sparse nella loro discografia, tra cui vanno almeno ricordate la hit Fake Plastic Trees del 1995, ma soprattutto la feroce Idioteque del 2000, in un nuovo secolo dove mainstream (i Cranberries di Time Is Ticking Out del 2002) e musica indie (i Grandaddy dell’album The Sophtware Slump del 2000) per la prima volta vanno a braccetto anche sui temi da trattare, tra espliciti appelli come Kyoto Now! dei Bad Religion, iniziative personali (Náttúra ad esempio è insieme una canzone e una organizzazione per l’ambiente creata da Bjork nel 2008), o nuovi temi da affrontare, come la plastica che invade i mari raccontata dai Gorillaz di Plastic Beach nel 2010. Mancano all’elenco ovviamente tante canzoni, e soprattutto certi filoni più di nicchia, come quello che vede anche il mondo hard/heavy metal in campo, sia nei 70 (le visioni apocalittiche di Nobody’s Fault degli Aerosmith del 1975, o Mama Nature’s Said dei Thin Lizzy del 1973) che negli 80 (la terrificante vendetta di Madre Natura in Total Eclipse degli Iron Maiden del 1982). Una cosa è certa, oggi nessuno scrive più una What A Wonderful World da far cantare ad un Louis Armstrong, ed è di questo che dobbiamo davvero preoccuparci.

lunedì 18 maggio 2020

FRAGILE - TRIBUTE TO NINE INCH NAILS

A Fragile Tribute a un disco importante ma sfortunato dei Nine Inch Nails.

Era il 1999, i Nine Inch Nails erano già una delle più riconosciute avanguardie della musica degli anni 90, e Johnny Cash li aveva già persino sdoganati in altri mondi musicali grazie alla cover di Hurt, quando loro decisero che erano pronti per il doppio album epocale che li avrebbe consegnati alla storia.
A Fragile Tribute
O’disc – 2019
Qualcosa però andò storto, se è vero che oggi pochi si ricordano di The Fragile come del Sandinista dei nostri tempi, e certo non era colpa del contenuto di quel doppio album, quanto forse del fatto che il 1999 fu l’anno in cui l’industria musicale mutò improvvisamente, iniziando il proprio inesorabile declino, e la casa discografica di allora (la Interscope) non fu quindi pronta ad approfittare del momento propizio con una adeguata promozione. Il disco era molto atteso, e infatti vendette moltissimo nella prima settimana di uscita tanto da portare alla band l’unico prima posizione della loro carriera, ma sparì presto dalla Billboard.

La longevità di The Fragile

Col tempo però The Fragile è rimasto il bigino utile a tutta la musica sperimentale degli anni 2000, dalla noise all’elettronica, fino all’indie. E ad onor di questa gloria, più postuma che guadagnata ai tempi, la piccola etichetta italiana O’Disc ha riunito una serie di musicisti dell’undergound nostrano per un album tributo davvero particolare. La scaletta ripercorre fedelmente quella del disco di Trent Reznor e soci, compresa la divisione in disco di sinistra e di destra decisa per il cd (il vinile era triplo invece). Impossibile ripercorrere tutta la scaletta in una sola recensione o citare tutti gli artisti, e vi lasciamo per una volta il piacere della scoperta. Ma al di là della banalità di dire che ogni operazione del genere riserva delusioni e sorprese a seconda del vostro gusto personale, va detto che la materia di partenza qui ha offerto materiale adatto ad alcuni esperimenti sonori come la title-track, tradotta in italiano da Nevica con l’aiuto della chitarrista Dagger Moth (Massimo Volume e Cesare Basile), o i tanti episodi tranquillamente ballabili come la Complication offerta dal russo Alex Kelman, o più “ambient” come The Frail di Fabio Cuomo.

A Fragile Tribute svela anche una scena musicale italiana non  abbastanza nota

Gli artisti coinvolti dal curatore Roberto Forlano sono per la maggior parte già protagonisti della storia decennale della O’Live, società che oltre dell’etichetta discografica O’Disc, si occupa di booking e promozione, e vengono da ogni parte di Italia, anche se particolare attenzione viene data alla scena elettronica di salernitana. Da notare comunque l’aggiunta di qualche collaborazione internazionale (Floor 5, Franky Selector) e qualche nome anche storico della scena indipendente italiana come Francesco Di Bella (ex leader dei 24 Grana) o Enzo Moretto degli A Toys Orchestra. A Fragile Tribute non sostituisce l’originale ovviamente, ma gli si affianca per dimostrare come la scena Industrial (e affini) italiana è quanto mai viva e gode di un respiro internazionale quasi del tutto ignorato in patria. Proprio per questo lo consiglierei non solo ai fans di Trent Reznor, ma a chiunque voglia avere una valida guida di una buona parte della scena sperimentale nostrana, visto che tutti questi artisti hanno produzioni personali che meritano di essere scoperte.

disco LEFT

1.Floor 5 – Somewhat damaged
2. Blessed child opera – the day the world went away
3. Fabio Cuomo – The frail
4. Baobab Romeo – The wretched
5. Giu.do – We’re in this together
6. Nevica feat. Dagger Moth – The fragile
7. Carmine Cataldo – Just like you imagined
8. Lomb – Even deeper
9. Folwark – Pilgrimage
10. Yes daddy yes – no,you don’t
11. Max maffia – La mer
12. Enzo Moretto (A toys orchestra) – The great below

disco RIGHT

1. Zaund – The way out is through
2. Nicodemo – Into the void
3. Franky Selector – where’s everybody???
4. Dj Pio – the mark has been made
5. Photographs – Please
6. Francesco di Bella e i nani cinesi – starfuckers,inc
7. Alex Kelman – complication
8. Bubble Gun – I’m looking forward to joining you,finally
9. Caboose – the big come down
10. rOMA – underneath it all
11. Gianfranco Villano (Yres) – Ripe (with decay)

venerdì 15 maggio 2020

BLACK LIPS

La leggenda Black Lips

Si narra che durante i concerti dei Black Lips si siano verificati casi di nudità sul palco, artisti intenti a vomitare e urinare, chitarre infiammate e, persino (roba inaudita) gare di macchine elettriche durante l’esibizione (!?). E non parliamo di concerti a Londra nel 1978, ma nella ben più tradizionalista Atlanta in Georgia dei primi anni 2000, ma questo armamentario base da rock debosciato degli anni 70 per i Black Lips è un passato lontano, quando, a detta del bassista Jared Swilley, la band doveva sopperire con effetti teatrali alla Alice Cooper al fatto di non aver ancora imparato bene a suonare i singoli strumenti.
Recensione: Black Lips - Sing in a World That's Falling Apart
Fire Records – 2020
Capirete quindi da dove arriva l’attitudine punk dei Black Lips, band che oggi, ormai matura e consolidata dopo otto album, continua con Sing in a World That’s Falling Apart a proporre in maniera del tutto anacronistica un country accelerato, del tutto coerente con le tradizioni americane. Negli anni 80 lo avremmo chiamato cow-punk, li avremmo visti come una versione forse meno veemente dei Jason & The Scorchers, oppure, visto che sono nati nel 1999, li avremmo visti come concorrenti degli Old 97’s.

Black Lips – Sing in a World That’s Falling Apart

Sing in a World That’s Falling Apart è un titolo che poi la dice lunga sullo spirito dell’album, un “canta che ti passa” a suon di country-songs accelerate e con tanta voglia di fare festa, senza più gli eccessi giovanili di cui dicevamo, ma con l’idea che se mai questo pazzo mondo finirà, sarebbe bello che succeda mentre si balla tutti in linea da ubriachi. Capitanati sempre da Cole Alexander, e con un nuovo chitarrista nel motore (Jeff Clarke), i Black Lips partono subito a 100 all’ora con Hooker Jon, cavalcata dylaniana che porta allo stonato pure-country di Chainsaw e addirittura alla baldanzosa ballata da line-dance di Rumbler.

Holding Me, Holding You invece rispolvera l’alt-country degli Uncle Tupelo, episodio breve che sfocia nella lunga ballad Gentleman, dove i cinque evidenziano anche un songwriting di tutto interesse e un bell’arrangiamento country-soul grazie all’uso dei fiati, con un risultato che sta dalle parti dei Rolling Stones del periodo Exile On Main Street. Get It On Time ha invece un piglio più svaccato alla Jeff Tweedy nelle sue giornate storte, ma la scanzonata Angola Rodeo riporta subito un clima di festa, prima del finale con il boom-chicka-boom alla Johnny Cash di Georgia e i riff elettrici alla Byrds di Odelia. Disco vintage nello stile e nei suoni, eppure chissà come mai così moderno nel suo ricordare che oggi la tradizione è ovunque, se è vero che anche i giovani ascoltano ad esempio Orville Peck, uno che un disco del genere lo ascolterà di sicuro.

martedì 12 maggio 2020

…And You Will Know Us by the Trail of Dead

Band e titolo più lunghi del 2020: …And You Will Know Us by the Trail of Dead – X: The Godless Void and Other Stories

...And You Will Know Us by the Trail of Dead - X
Dine Alone Records – 2020
Sono arrivati al decimo album, e forse ancora troviamo difficile scrivere o dire il nome correttamente senza dover fare un controllo sull’ortografia, ma d’altronde quando si sceglie di chiamare un progetto musicale …And You Will Know Us by the Trail of Dead, penso che la difficoltà sia più che voluta. I fans infatti si riferiscono da sempre a loro come Trail of Dead, se non addirittura T.o.D., in ogni caso i quattro musicisti di Austin restano una delle più durature realtà nate nella metà degli anni 90. X: The Godless Void and Other Stories arriva dopo un lungo periodo di pausa e riflessione, deciso all’indomani della pubblicazione di IX nel 2014, anni in cui la band è stata attiva in tour celebrativi dei vent’anni di carriera.

La formazione dei Trail of Dead

Attorno al leader Conrad Keely continuano ad esserci il co-leader Jason Reece, l’unico rimastogli fedele fin dal 1994, con la particolarità di alternarsi a lui sia alla voce che alla batteria, oltre a Autry Fulbright II e Jamie Miller, che invece si sono imbracati tra il 2010 e il 2011 a seguito di un rimpasto di line-up. Non è facile raccontare la loro musica, sospesa a volte tra atmosfere rarefatte e l’elettricità sofferta di band nate al pari di loro negli anni 90 come i Madrugada o i Catherine Wheel.

X: The Godless Void and Other Stories: un po’ nostalgia guida i Trail of Dead

Dopo la intro strumentale di The Opening Crescendo, che tra archi e muri di suoni maestosi pare introdurre ad un film epico, si parte con il tetro giro di All Who Wander, con distorsioni chitarristiche puramente “nineties” e un cantato enfatico, mentre la quasi title-track Into The Godless Void ha un drumming tipico dell’era grunge. Insomma, si respira aria di nostalgia un po’ ovunque, con Don’t Look Down che riporta alla mente gli Smashing Pumpkins o Something Like This che cala i toni quasi fosse un brano dei Buffalo Tom, e ancora Gone, che ha una tensione che ricorda i Live.

In tutto questo però va dato atto che, se è vero che ha palesemente deciso di pigiare sul tasto dell’amarcord a beneficio degli over-40 che gli anni novanta li hanno vissuti come anni ruggenti, con X i Trail of Dead a mantenere un certo marchio di fabbrica. Più evidente magari nei brani più sognanti come Children of The Sky, che evidenza anche una tendenza ai cambi di tempo all’interno della canzone che li rende forse meno radio-friendly, e a volte addirittura più vicini alle complesse strutture hard-prog dei Tool (sentite Who Hauntes The Haunter).

L’era della maturità?

Jason Reece ha presentato il disco come una raccolta dedicata alla musica con cui sono cresciuti, il che è palese ammissione che l’era della maturità è arrivata, e ora si pensa solo a raccoglierne i frutti. A voi decidere se seguirli in questo viaggio a ritroso, o se attendere che tornino a guardare in avanti, magari sbagliando, ma con più coraggio.

venerdì 8 maggio 2020

PUNK ITALIANO NEL 2020

Tre storie punk per gli anni Venti.

“Sono stato punk prima di te” cantava Enrico Ruggeri rivolto al figlio nel 1990, anno in cui il punk era considerato periodo storico chiuso, prima che proprio gli anni Novanta riportassero in auge il termine. E fu così anche in Italia, dove in quel periodo nacquero parecchi progetti che guardavano a band come Skiantos e Gaznevada e quel mondo che tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta aveva unito il punk vero e proprio con lo ska e altre influenze.
punk Italia 2020

E nel 2020 cosa è rimasto del punk in Italia? Ne abbiamo parlato con tre band che ancora amano definirsi “punk”, e che in qualche modo rappresentano la scena in tre zone d’Italia: i Pay vengono da Varese, gli Osaka Flu da Arezzo, mentre gli RFC sono casertani.

C’era una volta la canzone politica

A loro abbiamo ad esempio chiesto se oggi l’abusato termine “punk” può avere il senso fortemente politico che aveva trent’anni fa, e scopriamo così ad esempio che Revolution, singolo con cui gli RFC festeggiano vent’anni di attività, è “politico solo nel titolo, perché la rivoluzione di cui parliamo è quella che parte soprattutto da sé stessi, aprire gli occhi e la mente, curarsi di ciò che si ha intorno e proteggerlo da chi costantemente cerca di impaurirci fomentando solo odio. Speriamo che questa sveglia (è così che ci piace definire Revolution) suoni per tutti come un input che possa ricordare a tutti di essere l’anello di una grande catena e dove tutti possono e devono fare qualcosa per l’altro. La Musica è solo un mezzo, e speriamo che le nostre parole possano davvero aiutare qualcuno a darsi una mossa”.

Oppure che La Strana Famiglia, il nuovo CD di cover degli Osaka Flu che unisce autori molto diversi tra loro, ma accomunati da un approccio molto “politico” (chi con ironia come Giorgio Gaber, Rino Gaetano o gli Skiantos, chi più seriamente come Fabrizio De Andrè, i CCCP e i Diaframma), sia nato perché secondo loro sono autori che “ci hanno aiutato a vedere le cose da un altro punto di vista, ad approfondire e farsi parecchie domande” e che il disco nasca dalla convinzione che “in tutte le arti sia necessario dire quello che si pensa senza paura”
Anche i Pay, nel loro nuovo album Va Proprio Tutto Bene, sembrano più parlare di una condizione umana di “noia” rispetto a tutto, compresa la politica. “Da sempre la nostra scrittura è stata differente da quella delle band della scena nella quale militavamo.  cantavamo ironicamente nel 1996 nella nostra prima musicassetta (O Yeah O Yeah). Quindi non abbiamo perso la speranza che le canzoni possano avere ancora la forza di smuovere qualcosa nella coscienza sociale collettiva, in realtà abbiamo sempre creduto che anche il nostro messaggio fosse politico, sebbene differente dal cliché che sembrava inevitabile in quegli anni.

Il punk in Italia nel 2020

Alle tre band abbiamo dunque chiesto sia di fare una fotografia sulla scena punk attuale, e magari di capire se davvero esistono parentele con la scena rap italiana, che spesso viene definita il “nuovo Punk”.  Gli RFC ad esempio rivendicano il fatto di essere l’unica band casertana di genere, sottolineando però il fatto che la scena punk italiana si stia risvegliando negli ultimi anni.
RFC
Anche per gli Osaka Flu la scena nazionale è in crescita, “c’è voglia di divertirsi ballare e pogare: il punk sale, l’It pop scende”, e anche se non esiste una scena punk aretina vera e propria, “nell’ultimo paio di anni”, dicono, “c’è stata un’iniziativa molto interessante che si chiama “Arezzo che Spacca”: promuove band locali, organizza concerti e soprattutto ha permesso a tanti musicisti aretini di collaborare, conoscersi, diventare amici.”

Più nostalgici i Pay, “La scena attuale è radicalmente differente, come lo è la fruizione e il consumo di musica ai giorni della rete. Mi mancano molto le fanzine che recensivano il tuo disco e anche la possibilità di suonare dal vivo per portare in giro il tuo disco è fortemente diminuita. Credo sia un fatto generazionale, molti dei nostri primi fan che un tempo venivano a fare “stage diving” dal palco oggi sono seri padri e madri di famiglia, e i più giovani vengono presi più facilmente da altri generi musicali più affini alla loro generazione”

Il Punk nell’era del rap e della trap

In ogni caso proprio i Pay convengono che “se la forza del Punk stava nel dimostrare che chiunque avesse qualcosa da dire poteva farlo imbracciando degli strumenti che non necessariamente doveva essere in grado di saper suonare, trovo che l’approccio alla Trap sia molto simile, sebbene con strumenti ben differenti. Anzi a ben vedere, è ancora più semplice da affrontare, non devi nemmeno cercare una sala prove per non farti cacciare dai vicini di casa, e non devi necessariamente trovare altri membri per formare una band. Il percorso di Salmo ad esempio (che ha iniziato suonando in gruppi punk ska-core come gli Skasico o i To Ed Gein) credo abbia seguito precisamente questo sviluppo. Se tra i milioni dei suoi seguaci qualcuno dovesse arrivare a noi, non potrei che esserne contento. Noi comunque proseguiamo il nostro cammino, fieri di poter dimostrare quanto basso chitarra e batteria abbiano ancora da dare.”
PAY
Idea condivisa anche dagli Osaka Flu “Probabilmente sia il Rap, la Trap che il Punk nascono da un’esigenza molto semplice: comunicare con i pochi mezzi che uno ha, sia tecnici che economici. Per il resto non crediamo che un genere sia meglio o peggio di un altro, ma è chi lo esegue che fa la differenza. Sicuramente ci sarà qualche fan di Salmo più curioso che si ascolterà per caso qualche bel disco punk italiano e non ne potrà più fare a meno.”
Si ricordano bene di Salmo anche gli RFC anni fa, forse troppi, condividemmo con lui anche il palco. Il suo talento era percepibile già all’ora, lo seguiamo e siamo molto felici del suo successo. Le vicinanze al nostro genere sono quasi nulle, forse solo il buon Salmo suona ancora con una band e fa featuring con band rock come per esempio i nostri amici Linea 77, ma non vedo nessun genere di legame.”

Punk in italiano o in inglese?

Insomma, il punk italiano non è passato, ma ha ancora un presente più che vivo, ed è interessante notare che sebbene le motivazioni sociali siano ormai diverse, lo spirito non sia cambiato. Resta sempre il problema di riuscire a internazionalizzare un genere che parla la nostra lingua, ma pare che le tre band non se ne facciano un problema. Revolution degli RFC ad esempio adotta una lingua mista, con strofe in inglese e in italiano che convivono nel brano. “Nel corso di questi anni ci è capitato di suonare per lo più fuori l’Italia, nonostante la gente canti e apprezzi i nostri brani, abbiamo tentato di essere più diretti possibili e tentare di lanciare un messaggio globale, che potesse essere percepito un po’ ovunque^.
Osaka Flu
Gli Osaka Flu addirittura erano partiti producendo musica in inglese, ma “Dopo una trentina di date non si sapeva neanche più quello che si diceva e poi e si sentiva l’esigenza di parlare come si mangia. Non vogliamo dire che non sia possibile cantare in inglese, è stato un bel modo per iniziare, ma almeno dal nostro punto di vista si può fare in generi o progetti dove il testo è in secondo piano. Negli Osaka Flu ha poco senso.”. Concordano con loro i Pay che “Per il progetto PAY, la lingua italiana è fondamentale, non abbiamo interessi di conquista particolarmente sviluppati, autoproducendo i nostri lavori abbiamo sempre dato precedenza alla urgenza di scrittura piuttosto che alla distribuzione più o meno ampia del lavoro che pubblicavamo”

Un occhio alla tradizione del punk

In ogni caso se la scena guarda al futuro, mantiene anche ben saldi i legami con la tradizione. Per gli RFC ad esempio la lista di band da cui si sentono influenzati è lunga“tralasciando gli artisti americani, sono tante le band che ci hanno ispirato e con le quali nel corso degli anni siamo riusciti a legarci da una profonda amicizia, come gli SHANDON, BANDA BASSOTTI, STATUTO, VALLANZASKA. Loro continuano ancora oggi a mandarci tanti input d’ispirazione”
Gli Osaka Flu invece guardano ancora all’estero, nonostante presentino un tributo ad autori italiani: ”Potremmo citare i Diaframma e i CCCP, ma se dobbiamo essere sinceri come sound ci ispiriamo molto alla scena punk inglese e americana, con un intervallo temporale che va dagli  anni Settanta agli anni Novanta. Per citarne alcuni: Clash, Buzzcocks, Undertones, Dead Milkmens, Rancid”.
Anche i PAY sono nati dalla scuola anni Novanta, e ci disegnano bene lo scenario in cui sono cresciuti “ Kurt Cobain, che era l’icona alla moda in quegli anni, ci diceva di essersi formato alla scuola del punk, e si era appena sparato un colpo di fucile in faccia. Dall’America stava arrivando una seconda ondata di punk cazzone (NOFX in primis) che era irresistibile, e aggiungi che in quel momento qualcuno tira fuori un disco dei CCCP – Fedeli alla linea – e scopri che la lingua italiana non serve solo ai cantautori. Ecco, è precisamente in quel momento che abbiamo deciso di scrivere anche noi. E come puoi ben vedere non abbiamo ancora deciso di smettere”

Il Punk in Italia nel 2020: le tre Band

RFC: sono Maurizio Affuso (Voce e chitarra), Antonio Masciandaro (Basso), Antonio Daniele (Batteria), Biagio Felaco (Chitarra). Nati nel 1999 nella provincia di Caserta, hanno all’attivo quattro album studio (“Anarchia Sentimentale” 2002 / “Ama e Difendi” 2006 / “Ne Voglio Ancora” 2008 / “Ritieniti Fortemente Coinvolto” 2013), un disco live (“One, Five, Ceck” 2015) e diversi singoli. Il nuovo singolo si intitola Revolution.
Osaka Flu: nascono ad Arezzo nel 2010 quando i fratelli Daniele (voce e chitarra) e Francesco (basso) Peruzzi conoscono Michele Casini (batteria). Il primo disco, “Look Out Kid”, esce nel 2014. Nel 2016 tornano con “KM 183” e nel 2018 con “L’Italia È Fuori Dal Mondiale”. La Strana Famiglia è il loro quarto album.
PAY: sono Mr Grankio (alias Ariele Frizzante, storica voce di Radio Lupo Solitario, Rock FM, Life Gate), Mr Pinguino e una serie di collaboratori sotto la sigla “Operai del RnR”. Tra i loro album ricordiamo “Potevate Anche Ynvitarci” del 1998,“Provate Ammore Ynutile” del 2001, “Federico Tre e il Destino Infausto” del 2005, “La Ragazza con il Coltello” del 2010 e il nuovo album “Va proprio tutto bene”.

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