mercoledì 29 dicembre 2021

NichelOdeon, InSonar and Relatives

 

NichelOdeon, InSonar and Relatives – INCIDENTI, Lo Schianto

SNOWDONIA, 2021

Ci vorrebbe un libro per entrare nei meandri della carriera di Claudio Milano, ufficialmente “Ricercatore vocale, compositore e musicoterapista” secondo la sua biografia, ma, alla fine, un caso dove la passione del musicista e la ricerca del musicologo trovano una sintesi nei suoi tanti progetti sparsi in più di vent’anni di attività. Le sigle NichelOdeon e InSonar rappresentano alcuni dei tanti gruppi, anzi, “laboratori multimediali” come ama definirli lui, con cui pubblica dischi, e non è difficile chiedersi perché proprio la Snowdonia, etichetta abituata a pubblicare progetti complessi e visionari fin da quelli dei padroni di casa Maisie, abbia deciso di pubblicare questo INCIDENTI_Lo_Schianto, progetto che unisce tante collaborazioni per 76 minuti di musica. L’effetto un po’ stordente di tante parole e suoni di diversa provenienza è inevitabile, l’album infatti è nato probabilmente per essere ascoltato non con voracità e sempre tutto di fila, ma centellinato brano dopo brano. Claudio Milano comunque è il centro del progetto, in cui unisce rock, classica, jazz, world music e tanto altro (giusto per dare definizioni molto generiche che andrebbero poi sviscerate con più puntuale dovizia di particolari). Suoi anche i testi, anche se in alcuni casi è ricorso a rielaborazioni di lavori altrui come Variations on The Jargon King che riscrive un testo di Peter Hammill (il brano The Jargon King era sull’album Black Box del 1980), oppure la suite in 3 parti Ho Gettato mio Figlio da una Rupe Perché non Somigliava a Fabrizio Corona ha una fase col testo composto da un cut-up di frasi tratte dalle recensioni ai suoi precedenti dischi, intitolato ironicamente Il Coro dei Critici all'ultima Sponda del Commiato, tra le quali basterebbe citare la definizione di “The Antichrist of Italian Prog”.  Ovviamente non manca qualche riferimento letterario più classico come i “Una Strana Zingarella” di Dino Campana e “Profezia” di Pier Paolo Pasolini citati in Nyama (Gettarsi oltre) e un Idiota – Autoritratto (Tadzio’s Death) che, come è evidente, si ispira alle opere di Dostojevski e Mann, mentre alcuni testi portano la firma di Salvatore Lazzara (Senza Ritorno e Sabbia Scura). Per il resto, detto che anche la confezione dell’album rispetta gli standard di straordinaria cura e amore dell’etichetta, che non bada certo a spese nel nobilitare la sempre meno di moda arte del supporto rigido, non vi resta che provare ad addentrarvi nelle canzoni di Milano, tra testi esistenzialisti e poetici e strutture musicali che amano le sorprese e i cambi di tempo. Qualcuno appunto lo definisce prog italiano, ma sinceramente mi viene più naturale considerarlo un disco di musica “totale” che volutamente non cerca confini stilistici, e forse è proprio l’essere costretti a navigarci dentro senza coordinate il suo grande valore.

VOTO: 7

lunedì 6 dicembre 2021

THE BLEACHERS

 

The Bleachers - Take the Sadness Out of Saturday Night

RCA, 2021

 

Rifiutandomi di cedere ancora alla facile scappatoia di una definizione di “indie-pop” che ormai può includere di tutto, senza più dire niente di preciso, faccio effettivamente fatica a focalizzare un modo per descrivervi la musica dei Bleachers, soprattutto alla luce di questo loro terzo album Take the Sadness Out of Saturday Night. “Loro”, o farei meglio a dire “suo”, perché poi (questo si che è un vezzo tipico dell’era “indie”) il nome nasconde un progetto solista di Jack Antonoff, ragazzo del New Jersey nato a pane e Springsteen, ma innamorato delle mille possibilità produttive delle tastiere e delle programmazioni informatiche musicali. Ma anche poliedrico musicista (tra gli impegni anche quello di batterista per i Fun) che ama ammantare di effetti, loops e riverberi canzoni figlie di mille tradizioni, e soprattutto autore e produttore capace di sfornare hit per St Vincent (sua la produzione di Masseduction), Taylor Swift, Lana Del Rey, e tanti altri. Dicevamo Springsteen però, una presenza quasi obbligatoria nel background di uno del New Jersey, ma che mai come ora esce allo scoperto in questo album, vuoi perché il prode Bruce interviene di persona e presta la sua inconfondibile voce per il brano Chinatown, paradossalmente il più puramente pop e radiofonico (e diciamo meno springsteeniano) del lotto, vuoi perché gli arrangiamenti di altri brani del disco (Big Life, 45) celano un “wall of sound” alla Born To Run fatto di cori, campanelle e tanti suoni amalgamati. Ma il tutto viene comunque filtrato attraverso la voce per nulla da Jersey-sound del padrone di casa, e da mille interventi produttivi. Il risultato è spesso divertente (How Dare You Want More) o pure suggestivo (Don’t Go Dark), anche se resta un po’ la sensazione di rimanere storditi più che ammirati davanti a tante citazioni e elementi, in uno stile pop barocco che è sicuramente modernissimo, se è vero che anche il Beck più recente si aggira in questi paraggi sonori. Il disco dura solo 33 minuti ma ci sono idee almeno per un triplo, e ribadisce come Antonoff rimanga alfine sospeso tra una formazione decisamente da classic-rocker e velleità pop (il duetto con Lana Del Rey di Secret Life), finendo un po’ per sembrare troppo elaborato per il mondo degli ascolti fugaci dello streaming commerciale, e fin troppo autore di un pop mordi e fuggi per una audience più adulta. Ma pare evidente anche dalla pedante partenza di 91, brano che riprende un’opera della scrittrice Zadie Smith (che interviene di persona) confezionato con l’aiuto di Warren Ellis, che il progetto dei Bleachers sia diventata la sua palestra per provare spunti e idee e sfidare entrambi i mondi, forse per ricordarci quanto il confine tra vecchio e moderno oramai sia talmente labile da non poter più, appunto, trovare una sua giusta e riconoscibile definizione.

VOTO: 6,5

lunedì 1 novembre 2021

SON VOLT

 

Son Volt

Electro Melodier

(Thirty Tigers, 2021)

File Under: These Are The Times

Destino strano quello di Jay Farrar e della sua creatura Son Volt, nati dalle ceneri degli Uncle Tupelo (ma dobbiamo davvero ricordarvelo?) con premesse persino più promettenti di quelle dell’antico compare Jeff Tweedy e dei suoi Wilco, ma rimasti invece negli anni relegati ad un mondo di appassionati di genere, mentre Tweedy nel frattempo cavalcava palchi in linea con le mode degli anni 2000. L’aspetto che spesso viene sottolineato della loro storia musicale è un certo immobilismo stilistico, che rende i dischi dei Son Volt, ma pure le stesse singole canzoni che li compongono, sostanzialmente sempre identici se ascoltati da un orecchio non allenato, ma noi sappiamo che, al netto di una possibilità espressiva non proprio vastissima della sua vocalità e della sua concezione artistica, non è proprio così. Per questo Electro Melodier, decimo album della sigla, ci è piaciuto subito, perché rappresenta una summa delle anime della sua musica, che passano dalle chitarre rozze di Reverie alle ballate sognanti come Arkey Blue (ma anche qui nel finale il break di chitarra elettrica sottolinea i due tipici registri di Farrar).

Electro Melodier è un disco da lockdown come tutti quelli che stiamo ascoltando di questi tempi, nato durante il forzato stop al tour di Union, che Farrar ha sfruttato positivamente con una serie di canzoni davvero ben scritte che fotografano la situazione del suo paese, non più tanto con la vis polemica che animava il precedente disco, quanto più con un taglio giornalistico di pura presa di coscienza dello stato di una società, prima ancora di una nazione. In questo senso l’inserimento di alcuni brani che fanno il punto anche sul suo lungo matrimonio (Lucky Ones e Diamonds and Cigarettes, ballatona da brividi con la voce di Laura Cantrell), assume un aspetto quasi di voluto parallelo tra vita privata e rapporti sociali che si stanno rigenerando e ricostruendo dopo lo tsunami del Covid, che ormai ci si rende conto anche nelle canzoni quanto sia una rivoluzione globale paragonabile all’11 Settembre 2001.

Ma è tutto il disco che appare essere particolarmente ispirato, con un anthem come Living In The USA (springsteeniana non solo nel titolo) che tornerà sicuramente buono nei prossimi tour, dure fotografie della realtà come War On Misery (e qui siamo in puro campo gothic-country, come anche The Levee On Down) o These Are The Times, che confermano Jay Farrar come uno dei più meritevoli eredi della filosofia di Woody Guthrie, solo con qualche scarica elettrica in più. Ma come aveva già provato nel valido The Search del 2007, qui prova anche ad ampliare il sound con qualche inusuale intervento (il moog di The Globe) e qualche volutamente non celato richiamo alla storia del rock (i Led Zeppelin echeggiati da Someday Is Now). Un disco comunque ottimista e pieno di speranza, nonostante i toni cupi e malinconici tipici del suo autore, e forse era proprio quello di cui avevamo bisogno ora.

Nicola Gervasini

venerdì 29 ottobre 2021

WALLFLOWERS

 

Wallflowers – Exit Wounds

2021 – New West

 

Che Jakob Dylan sia il figlio di Bob è informazione inutile per un artista che ha ormai alle spalle sei album con i Wallflowers e due come solista, ma con il papà ancora così in forma e sulla cresta dell’onda, pure Exit Wounds, settimo capitolo della band, viene presentato ovunque ancora come il disco “del figlio di”. Ingiustamente direi, visto che nonostante Jakob ovviamente non possa (e credo mai abbia neanche tentato di…) raggiungere la statura artistica e storica del babbo, la sua discografia resta comunque una delle più importanti della musica americana degli ultimi 30 anni. Exit Wounds esce dopo un periodo di lungo silenzio, dopo che l’ultimo capitolo Glad All Over nel 2012 aveva fallito un rilancio del marchio anche tra un pubblico non esclusivamente roots-oriented. Di fatto la storia dei Wallflowers dimostra una certa regolarità nell’alternare album di matrice puramente “Americana” come l’esordio del 1992 (che anzi musicalmente si identificava parecchio nel movimento H.O.R.D.E. dell’epoca), il vendutissimo Bringing Down The Horse del 1996 o Rebel, Sweetheart del 2005, ad altri dove era evidente il tentativo di trasformarsi in band radio-friendly con produzioni più che ammiccanti (Red Letter Days del 2002 e appunto Glad All Over), con in mezzo l’ottimo Breach del 2000 che resta forse il loro album più equilibrato tra le due anime. Exit Wounds, come si suole dire, “riporta tutto a casa” in un rassicurante sound da vecchio roots-rock anni 90, quasi come se Dylan Jr. si sia reso conto che è inutile cercare di raggiungere un pubblico che mai potrà comprendere in pieno le sue canzoni decisamente da era classic-rock, per cui meglio tener caldi i fans della prima ora. Ne è segno anche il fatto che dopo anni i Wallflowers escono dal mondo delle major e si accasano alla New West, etichetta importantissima, ma pur sempre in una nicchia ben definita come quello del rock americano. Con un risultato valido se sentito con orecchio allenato al genere, probabilmente il loro sforzo migliore dai tempi appunto di Breach, sebbene ormai in ritardo con la storia per diventare anche un disco importante per tutti. Resta il fatto che purtroppo non abbia più senso parlare di “loro” quanto di lui, perché la formazione attuale è completamente rinnovata, e non ritroviamo nessuno dei musicisti delle formazioni più storiche (con perdite comunque significative in termini di personalità come Rami Jaffee o Michael Ward) ma qualche scafato session-man in più. Jakob comunque dimostra che il lungo stop gli ha fatto bene perché brani come Maybe Your Heart's Not in It No More o I'll Let You Down (But Will Not Give You Up) entrano di diritto nel suo songbook migliore. Lo stile di base comunque resta il solito, con qualche momento in cui si alza il ritmo come Who's That Man Walking 'Round My Garden, ma un clima generale senza troppe spigolature, nel caso sempre smussate dall’intervento della seconda voce di Shelby Lynne. Potrebbe essere il “car-record” giusto per l’estate per chi avrà possibilità di viaggiare.

VOTO: 7

Nicola Gervasini

mercoledì 27 ottobre 2021

MICHELE ANELLI

 

Michele Anelli

Sotto Il Cielo di Memphis

(Delta Records & promotion, 2021)

File Under: Memphis in the meantime

Qualche giorno fa sui suoi social Michele Anelli ha scritto “L’altra sera ho sentito il corpo desideroso di scaraventare fuori tutta l'energia possibile, come se avessi dentro i Clash a sostenere le mie braccia. Sentire che gli anni passati a suonare e cantare con i Groovers e gli Thee Stolen Cars siano stati così importanti e propedeutici a essere quello che sono.”. Sta in questa frase l’essenza della sua più recente carriera discografica, dove gli anni del rock da strada in inglese appaiono lontani dalle canzoni presenti in album come Divertente Importante del 2018 o Michele Anelli & Chemako del 2013, ma l’energia che scorre nel sangue è sempre la stessa. Stavolta Anelli però ha voluto fare le cose in grande, andando a registrare il nuovo Sotto il Cielo di Memphis letteralmente sotto quel cielo. Anzi, in quel tempio di gran parte della musica che amiamo che sono i Muscle Shoals, dove Anelli ha immerso le sue canzoni nei suoni degli studi, col vantaggio di poter anche usufruire della collaborazione di qualche storico session-man della zona come il bassista Bob Wray (l’elenco delle sue collaborazioni fa girare la testa, da Al Green, a Ray Charles) e Justin Holder, oltre alla produzione del suono di John Gifford III, uno che ha lavorato ad esempio anche all’ultima fatica di Gregg Allman prima di lasciarci. Con queste premesse il suono del disco lo potete immaginare, anche se poi la sua band, i Goosebumps Bros (Cesare Nolli, Paolo Legramandi e Nik Taccori, con l’aggiunta di Andrea Lentullo e Elia Anelli), ha registrato in Italia. Quello che rende particolare il disco però è che se il sound cerca l’omaggio e l’effetto retrò, la scrittura resta quella sua più recente, molto vicina ad un cantautorato italiano più classico, quasi alla Ivan Graziani, sottolineato dalla sua voce sempre più pulita e usata su toni alti. Anzi, l’iniziale Appunti ricorda addirittura un po’ l’Amarsi un Po' di Lucio Battisti, mentre Quello che Ho è un bel duetto melodico con la voce di Elisa Begni dei Bluedaze. E dopo Tenerezza, caratterizzata da un bel crescendo finale, arriva Fino all’Ultimo Respiro, un brano decisamente Finardi-style anche nel testo, caratterizzato però da un bell’organo vintage alla Booker T Jones. La seconda parte è dedicata a brani più riflessivi, come Ballata Arida, quasi un lento da beat italiano degli anni 60, e È solo un Gioco, mentre Spalo Nuvole ha un’atmosfera più da Black Music anni 70, per finire con la sofferta dichiarazione di Sono Chi Sono. La Memphis Pack edition (LP, CD e 45 giri) contiene demo inediti che aggiungono sale ad un piatto già ricco, Anelli dimostra infatti con questo album che anni di esperienza sulla strada e sui palchi cominciano a pesare anche in fase produttiva, perché Sotto il Cielo di Memphis è qualcosa di più di un semplice omaggio alla musica che l’ha ispirato, ma è un disco molto maturo e personale, semplicemente immerso nel Mississippi esattamente come il Manzoni risciacquò nell’ Arno i suoi Promessi Sposi. E sebbene il disco sia al 100% italiano nello stile di canto e scrittura, a Memphis credo abbiano approvato con stima.

Nicola Gervasini

 

domenica 24 ottobre 2021

BENJAMIN FRANCIS LEFTWICH

 

Benjamin Francis Leftwich

To Carry A Whale

(Dirty Hit. 2021)

File Under: What's The Use Of Getting Sober

E’ ascoltando il quarto album del cantautore britannico Benjamin Francis Leftwich che ci si rende conto come la canzone indie-folk maturata tra gli anni novanta e duemila (diciamo di derivazione “Nickdrakiana” per dare un riferimento storico) sia ormai un genere a sé che si è radicato a tutti i livelli, sia quello della scena alternativa indipendente da cui è scaturito, ma ormai anche nel mainstream internazionale. Un bene in fondo, perché comunque il fenotipo del cantautore timido che sussurra la sua intimità con una chitarra acustica e poco altro, è comunque sempre in linea con le strade della tradizione che ci piace continuare a sondare anche in questi anni di gran confusione del mondo musicale mondiale. Benjamin Francis Leftwich viene da York, ha esordito nel 2011 in ritardo sulla la storia del suo genere, ma abbastanza in tempo per diventare un punto di riferimento anche molti giovani ascoltatori, a giudicare dal buon seguito registrato nelle piattaforme streaming. Prima dell’uscita di questo To Carry a Whale, Leftwitch aveva pubblicato online alcune cover degli Arcade Fire, Placebo, Killers e Blue Nile, un percorso che rende chiaro come abbia le idee chiare su dove collocare la continuità storica della sua musica, ma poi in una intervista citò Ryan Adams come prima ispirazione contemporanea, e i conti tornano tutti. Voce soffice ed eterea alla Bon Iver, giri di chitarra da vecchia scena folk, tastiere ed effetti a condire, e pure qualche flauto a sottolineare la melodia: l’apertura di Chery in Tacoma dice già tutto sull’obiettivo di album e artista, ma è anche uno dei brani più arrangiati del disco dal produttore Eg White (Adele, Florence & The Machine), perché già Oh My God Please riduce tutto ad un gioco tra le voci e la chitarra. Quello che rende particolare la proposta è comunque il suo modo di cantare inesorabilmente “british”, che a volte ricorda quello di Ian McNabb (ad esempio in Canary in a Coalmine, brano che racconta anche della sua uscita dall’alcolismo, tanto che il disco viene presentato come il suo primo ad essere stato registrato da sobrio). Rispetto ai dischi precedenti come Gratitude del 2019 o After The Rain del 2016 c’è molto meno uso di elettronica e tastiere, anche se Tired in Niagara o Everytime I see a Bird non si negano un crescendo finto-orchestrale e Wide Eyed Wandering Child si poggia su una non invadente drum-machine. Il disco si adagia pian piano nel suo involuto folk, con poche variazioni sul tema (in Slipping Through My Fingers appare un piano alla Pink Moon) e tanto evidente amore per autori come Jose Gonzalez, fino al veloce folk-pop finale di Full Full Colour che chiude in maniera più spensierata un album comunque cupo e decisamente intimista. To Carry A Whale è un capitolo molto personale di Leftwitch che forse non gli porterà grandi nuovi onori (il suo esordio Last Smoke Before the Snowstorm ricevette molte attenzioni nel 2011), ma resta una nuova valida testimonianza di come non serva essere per forza originali e  innovativi quando si hanno delle buone canzoni.

Nicola Gervasini

 

venerdì 22 ottobre 2021

JAMES YORKSTON

 

James Yorkston and the Second Hand Orchestra – The Wide, Wide River

Domino, 2021

Ci si potrebbe anche chiedere come mai, dei tanti autori della folk music britannica, solo James Yorkston ottiene sempre così tante attenzioni e riconoscimenti anche da stampa e pubblico innamorati dell’indie-folk moderno. In fondo lui è uno scozzese che, pur non essendo ancora cinquantenne, potrebbe tranquillamente essere artisticamente un coetaneo di Michael Chapman o di uno Steve Tilston, per citare due vecchi leoni della chitarra acustica ancora pienamente attivi, e di certo la sua musica non è figlia di questi anni duemila. Eppure, fin dall’esordio Moving Up Country del 2002, Yorkston ha sempre trovato la perfetta sintesi tra il non suonare completamente sorpassato e il non mollare di un centimetro l’amore per la tradizione e per una musica fatta di strumenti acustici e soffici melodie. Non fa eccezione The Wide, Wide River, disco anche più facile all’ascolto rispetto ad altre sue uscite più recenti, e che potrebbe anche ripetere l’exploit di suoi titoli come Just Beyond the River del 2004 e When the Haar Rolls Indel 2008, che entrarono addirittura nella Billboard inglese. L’iniziale Ella Mary Leather, nei suoi poco più di tre minuti, sembra infatti rispondere perfettamente alle attuali esigenze di immediatezza e brevità (quasi un folk-pop potremmo dire), ed’ è sapientemente piazzata all’inizio per mettere subito chiunque a proprio agio. Ma Yorkston anche questa volta concede senza però rinunciare a nulla, per cui subito dopo ecco arrivare la lunga e intensa To Soothe Her Wee Bit Sorrows, che è uno di quei brani giocati sul dialogo chitarra e violino che suona familiare solo a chi davvero mastica brit-folk da tempo.  Ma è evidente che il disco nel suo proseguo cerchi un ponte tra tradizione britannica e una indole cantautoriale, e se Choices, Like Wild Rivers ci va vicino a trovarla, la splendida Struggle, una ballata che potrebbe appartenere al Josh Ritter più ispirato, ci riesce in pieno, e rappresenta l’highlight dell’album con la tesa cavalcata di There is No Upside che la segue. Un esempio ancora più chiaro è A Very Old-Fashioned Blues, brano che se vi dicessero che è una outtake di Bonnie Prince Billy, ci credereste pure. Il disco esce cointestato con la Second Hand Orchestra, collettivo di musicisti svedesi capitanato da Karl-Jonas Winqvist (artista con cui Yorkston aveva già collaborato in passato), e in cui militano nomi importanti della scena come Peter Morén, Cecilia Österholm e Emma Nordenstam,. Il disco ha infatti un piglio da jam session quasi, con Yorkston che lascia spazio a tutti, e dimostra quanto sappia comunque fare la differenza anche in gruppo con brani azzeccati come A Droplet Forms o We Test The Beams. L’autunno è passato, ma dei dischi autunnali di Yorkston c’è sempre bisogno.

VOTO: 8

mercoledì 20 ottobre 2021

JOHN MURRY

 

John Murry - The Stars Are God’s Bullet Holes

Submarine Cat records, 2021

Sarà forse per la lontana - ma reale - parentela di uno dei suoi genitori adottativi con lo scrittore William Faulkner, ma a John Murry è sempre piaciuto infarcire non solo le proprie canzoni, ma anche le proprie storie personali, di tanta letteratura. E così da qualche settimana ama raccontare ai giornalisti che hanno avuto le interviste in esclusiva per il lancio di The Stars Are God’s Bullet Holes, suo atteso terzo album solista, che il disco non solo è stato l’ultimo registrato ad Abbey Road prima della chiusura per lockdown, ma che addirittura l’ingegnere del suono si era dovuto portare via tutto in bicicletta per mancanza di mezzi pubblici. Ma in fondo negli anni ogni suo disco e ogni racconto sulla sua vita (non ultima una proposta di matrimonio avvenuta durante una intervista, con risposta affermativa di lei arrivata via Twitter) sanno di “storytelling”, compresa l’arte della citazione più o meno colta che anche qui assale l’ascoltatore fin dal titolo della prima canzone Oscar Wilde (Came Here to Make Fun Of You). Insomma, John Murry pare dirci che è inutile darsi tanto da fare a registrare musica se poi intorno non ci ricami una storia da ricordare e ri-raccontare. Sarà forse per questo che il suo nome venga spesso accostato a quello di Lou Reed, uno che sempre più aveva elaborato una forma di rock vista quasi più come mezzo per arrivare ad un racconto. Murry non ha forse la statura musicale (e storica) di un Reed, ma ha prodotto due album molto validi come The Graceless Age o A Short History Of Decay, infarciti di storia musicale americana, sia quella rurale della provincia, che quella più avanguardista di New York, con un amabile gusto retrò che rappresenta forse il suo limite, ma gli va dato atto di essere nel bene o nel male uno degli artisti più eclettici e che meno si accomoda su un risultato raggiunto. Ne è la prova anche questo nuovo album, che è già un libro fin dal titolo, con una storia da raccontare che è la sua collaborazione con John Parish, l’uomo giusto per assecondare il suo amore per la new wave e per certa elettronica degli anni 90, con in aggiunta anche il fatto di essersi definitivamente trasferito in Irlanda a respirare sapori britannici. Fatto sta che il nuovo album è un riuscito mix di krautrock, dark anni ‘80, trip-hop ’90, e comunque prove da cantautore puro (la bella Ones + Zeros) che allargano ancora di più il suo raggio d’azione stilistico. Quello che va notato è che però resta molto più personale la sua scrittura (brani come Time & A Rifle e Perfume & Decay cominciano ad avere un suo marchio di fabbrica), che le sue soluzioni musicali, dove il gioco del rimando, dell’omaggio e della citazione, a volte sfocia fin troppo nella voluta ricerca del paradiso dell’ascoltatore nostalgico.  Tanti racconti che poi alla fine ci parlano di una artista che semplicemente non ha mai smesso di parlare con un passato che spesso non è neppure suo, come dimostrano le cover che abitualmente piazza a fine di ogni album o durante i concerti. Stavolta tocca a Ordinary World dei Duran Duran, a sorpresa forse una delle pop-song meglio sopravvissute nei giorni nostri dagli anni novanta, che lui riveste di nuovi sapori con aria da scafato artista.

VOTO 7,5

lunedì 18 ottobre 2021

SIRIO

 Sirio

Cronache Siderali

Rivertale Productions

 

Antonio Gilioli, in arte semplicemente Sirio, è un giovane cantautore bresciano (classe 1995) che da qualche anno propone una formula da folker one-man-band nei concerti della sua zona. Cronache SideralI è il suo primo album, selezione dei brani migliori tra i tanti scritti in questi anni di formazione, e, per l’occasione, nonostante il suono non abbandoni di base la sua abituale formula da combat-folker da strada, si è fatto aiutare da una vera e propria band formata dal batterista Stefano Doninelli (che suona anche il cajòn, la particolare percussione peruviana usata da molti artisti di strada) e il bassista Bruno Bonarrigo (abitualmente al seguito di Cisco), più la voce di Miriam Mori in brani come Son nel mezzo e nella veemente Ho scelto la luce. Per il resto è lui che tiene sulle spalle il tutto, con canzoni molto interessanti che gettano un ponte tra la tradizione dei cantautori italiani classici (Postumi di civiltà, Utensili spirituali o Canzone per un Amico) e ispirazioni più recenti (Lo scherzo della Morte piacerebbe a Vasco Brondi, ma anche Annegherò insieme a te o Destino biologico). Si fa notare come prova d’autore anche Da Qui, con la sua armonica dylaniana e un timido piano, mentre Son Nel Mezzo ha un “appeal” radiofonico non indifferente, che fa capire che con questa voce e questo tipo di canzoni Sirio potrebbe anche tentare fortune più ampie, ora che il mercato è particolarmente ricettivo a questo tipo di canzone in italiano. E potrebbe anche accadere senza dover per forza rinunciare ad una certa tendenza al testo ermetico, di quelli che non sempre si colgono al primo colpo, con libertà poetiche che potrebbero anche diventare dei riconoscibili marchi di fabbrica in un futuro

sabato 16 ottobre 2021

DE FRANCESCO

 

De Francesco

Tra Le Righe

(Rivertale Productions, 2021)

Quando nel 1957 Ray Bradbury pubblica L’estate Incantata è ormai uno scrittore affermato nel mondo della fantascienza grazie ai due romanzi precedenti (Cronache Marziane e Fahrenheit 451) e alle sceneggiature scritte per il cinema. Poté così permettersi un romanzo di formazione molto più personale e intimista, che ovviamente non ebbe lo stesso successo (ma ne pubblicò un seguito nel 2006 pochi anni prima di lasciarci), ma che oggi è l’ispirazione per il singolo dell’album di esordio di De Francesco. Una scelta coraggiosa quella di questo cantautore che testimonia che il vezzo di pubblicare un album dove ogni singolo brano prende l’ispirazione da un romanzo non sia una questione di permettere a chi non lo conosce di avere dei riferimenti in cui trovarsi subito, ma da un vero amore per le storie raccontate da altri autori. Inevitabile quindi il gioco di riconoscere la fonte di ogni brano, ma nelle parole di Di Francesco poi però troverete tutta la sua anima e il suo mondo, per cui brani come Aska (impreziosito dal sax di Dario Acerboni), La Donna Di Pietra (con la voce di Kika Negroni) o Evelyn Tango (qui interviene alla voce la bresciana Ottavia Brown) e una La Strada inizialmente immersa in effetti elettronici, sono comunque racconti personali. Album che si esprime con un suono indie-rock molto moderno, prodotto da David Mahony (qualcuno lo ricorderà come chitarrista dei Pitch), e suonato da una band ben rodata sui palchi formata da Michele Coratella alla chitarra, Matteo Rossetti alle tastiere e Simone Helgast Cavagnini alla batteria, con l’aggiunta di Kimmy Amelia alla voce (particolarmente in evidenza in Padania Blue).

martedì 12 ottobre 2021

AN EARLY BIRD

 

An Early Bird

Diviner

(Greywood Record, 2021)

 

Terzo appuntamento sulle nostre pagine in poco più di tre anni con la musica di Stefano de Stefano, alias An Early Bird, segnalato a suo tempo con i precedenti Of Ghosts & Marvels nel 2018 e Echoes Of Unspoken Words del 2020. Questo nuovo Diviner però esce per l’etichetta tedesca Greywood Record, segno tangibile sia di quanto sia maturata la scena indipendente anglofona italiana, ma anche di quanto il mercato nostrano sempre meno sembra ricettivo a questo tipo di artista (di fatto il grande salto di popolarità avuto da molti artisti dei bassifondi indipendenti italiani ha richiesto una proposta nella nostra lingua). Il singolo Under My Skin contiene già tutti gli elementi della sua musica, con riflessioni sull’amore cantati in puro stile da indie-folker e con aperture melodiche e pop nel finale, elementi che era ancora più nel primo singolo fatto uscire ad anticipare l’album Holding Onto Hope. Particolare anche la cura nella realizzazione dei video, con il primo che omaggia Il Piccolo principe e il secondo che vede protagonista un bellissimo gatto bianco. An Early Bird comunque gioca spesso con l’alternarsi di aperture scarne e acustiche, con successiva esplosione di tastiere e percussioni (Help Me Shine, Fishes In The Ocean, Mullholland Drive e Prayers In The Temple partono con chitarra acustica, Angela o Bad Timing come una piano-song). Molto belle anche One Week e Go All Out, sempre sorrette da un bel pianoforte, che confermano anche quanto spesso il suo modo di cantare e arrangiare oggi ricordi molto i dischi del mai dimenticato Tom McRae dei primi anni 2000.

sabato 9 ottobre 2021

DINELLI

 

Dinelli

Tiny Seeds

(Inconsapevole Records / Duff Records 2021).

Chissà quante volte vi abbiamo raccontato (e chissà quante volte ancora vi racconteremo) la storia di un componente di una band proveniente dal mondo del metal o del punk che si stacca dal gruppo per elaborare una personale proposta basta su un sound prettamente acustico e folk-oriented. È questo il percorso anche del toscano Dinelli, già attivo come voce dei Seed’N’Feed, band devota dei Bad Religion che ha animato la sempre fervente scena hardcore-punk italiana dalla fine degli anni 90 fino al 2011, ma che con questo Tiny Seeds si propone come nuova voce dell’affollato ma pur sempre attuale mondo dell’indie-folk internazionale. Lorenzo (questo il suo nome di battesimo), che già aveva esordito nel 2016 cantando in italiano con l’album Liberi per sempre, ha prodotto questi 13 brani in solitaria, suonando gran parte degli strumenti (ma sul suono ha buon peso il violoncello di Michele Menchini), e sottoponendo ad un trattamento da studio di registrazione solo la cover acustica di All My Life dell’Evan Dando solista di Baby I'm Bored. Il suono è molto pieno e la sua voce decisamente evocativa, e le canzoni da una parte continuano a parlare della sua visione del mondo sociale con la stessa rabbia lirica dei pezzi scritti in passato, ma dall’altra si concentrano molto sulla sua condizione di artista ormai maturo ma nel pieno di cambi di vita relativi a famiglia e lavoro che dovrebbero essere normali, ma che il mondo di oggi rende fortemente problematici sotto tutti i punti di vista. Ci sono tanti momenti introspettivi (Roselin, Forgiven, Endless), ma anche variazioni elettriche e più “rock” (Killed a Man, Back Into, Summerdays), il tutto confezionato con un buon gusto decisamente anni Novanta.


martedì 5 ottobre 2021

RYAN ADAMS

 

Ryan Adams – Big Colors

2021, PAX AM

 

Pare che fortunatamente le polemiche scatenate dal ritorno discografico di Ryan Adams con l’album Wednesdays non siano state abbastanza forti dal fermare la sua voglia di ritornare sotto le luci della ribalta. Un bene per chi comunque continua ad apprezzare il suo grande sforzo produttivo e artistico, e così dopo pochi mesi siamo qui a parlare di Big Colors, secondo capitolo di una trilogia registrata ormai più di tre anni fa, ma rimasta nel cassetto in attesa di tempi meno burrascosi per la sua reputazione. Anche qui pare che qualcosa sia poi stato variato dal progetto originario, e già Wednesdays era uscito in una versione ridotta rispetto a quella annunciata tempo fa, ma in attesa del terzo capitolo (che potrebbe uscire già comunque entro la fine del 2021), fa piacere constatare come Adams, pur nella sua inarrestabile “iper” (e forse anche “sovra”) produzione, riesca comunque a dare una personalità precisa alle proprie creature discografiche. E così se Wednesdays esaltava il suo lato più intimista e cantautoriale, Big Colors segue invece la vena più radio-friendly di album come Prisoner o Cardinology. D'altronde la title-track posta in apertura ribadisce tutto il suo mai nascosto debito verso il pop inglese (il suo primo album solista si apriva con una discussione su Morrissey ad esempio), ma è tutto il disco che cerca nuovamente quella perfetta sintesi tra rock americano e un gusto melodico tutto “british” che aveva già trovato la sua perfezione formale in Love Is Hell del 2004, tanto che persino la cover Wonderwall degli Oasis pareva un suo brano. Stavolta però il risultato è alterno, perché l’utilizzo di una produzione (c’è Don Was ad aiutarlo) che riporta in evidenza le batterie nuovamente “grosse”, ritornate in auge in questi anni dieci (dopo che l’indie-folk le aveva fatte sparire per lungo tempo), a volte pare un po’ forzato e non necessario (Fuck the Rain non perderebbe vigore senza ad esempio), e i risultati migliori sembrano arrivare laddove Ryan si concentra più sulla canzone (Manchester o le più convenzionali What Am I e In It For The Pleasure) che sull’effetto che desiderava ottenere. Resta che ci sono episodi che escono con successo dai suoi schemi abituali (l’hard-rockabilly di Power ad esempio), ma altrove cerca un suono da rock FM anni 80 che non gli si addice troppo. Se paragonassimo infatti Do Not Disturb ad un brano del miglior Chris Rea credo che neppure lui si scandalizzerebbe, ma cose come I Surrender o Middle Of The Line, per quanto piacevoli, ha smesso da tempo di farle persino Bryan Adams, quello con la B in più. Eppure, sebbene il disco non abbia lo stesso spessore del suo predecessore (e credo che verrà in futuro annoverato tra i suoi episodi minori), Big Colors riesce a confermare ugualmente la statura eccezionale di questo artista, ancora capace di sbagliare con gusto.

VOTO: 6,5

venerdì 1 ottobre 2021

GRUFF RHYS

 


Gruff Rhys

Seeking New Gods

(Rough Trade, 2021)

File Under: Under the Volcano

Il Monte Paektu (spesso chiamato anche Baitou) è un vulcano che si trova al confine tra Corea del Nord e Cina. È considerato sacro, se non proprio una divinità lui stesso, dalla popolazione coreana, in quanto è una montagna viva che ancora cresce circa 3 cm all’anno. Il lago che si trova oggi nel cratere, chiamato Lago Paradiso, è nato nel 1597 a seguito di una eruzione particolarmente violenta, e tutto fa pensare che anche in futuro la montagna muterà la propria morfologia. No, tranquilli, non ci siamo trasformati nel National Geographic, ma semplicemente vi stiamo parlando del protagonista principale di un concept-album che solo una mente fervida e innamorata di storie da raccontare come Gruff Rhys poteva affrontare. Il leader dei gallesi Super Furry Animals, istituzione del brit-pop degli anni 90, da tempo ormai sembra esprimersi al meglio nelle sue sortite soliste, e già sulle nostre pagine avevamo segnalato il bellissimo Candylion del 2007, probabilmente uno dei più bei omaggi al brit-folk classico degli anni 2000, da mettere in bacheca vicino ai dischi di James Yorkston e degli Espers. Ma Rhys ha dimostrato poi che anche la sua ispirazione ama pescare un po’ ovunque, e così questo Seeking New Gods racconta di tutti i significati esoterici che il vulcano coreano porta con sé, e che tanto lo hanno impressionato, attraverso uno straordinario viaggio che mischia pop psichedelico, folk e tanto altro. Immaginate un incontro in studio di registrazione tra Ben Watt e John Grant per dire, con strani intrecci che già nel primo brano Mausoleum Of My Former Self portano a sentire interventi di elettronica che duellano con una sezione fiati quasi tex-mex (opera del trombettista Gavin Fitzjohn) su un classico mid-tempo folk-rock alla Richard Thompson. Altrove leggerezze soft-pop come Can’t Carry On (con il gran lavoro alle voci di Mirain Haf Roberts e Lisa Jên) o una Holiest Of The Holy Men che sa di Blur al 100% diventano così un nuovo ingrediente da aggiungere all’evidente amore per il cantautorato (non solo britannico) degli anni Settanta, evidenziato da brani come Seeking New Gods o Hiking In Lightning. La band che lo segue è la stessa che usa da qualche anno anche nei tour, con il batterista Kilph Scurlock e il bassista Stephen Black ormai consolidati partners, e il pianista Osian Gwynedd che si divide con lui anche l’incombenza di spargere quelle che chiamano “cosmic synths” un po’ ovunque. Produzione di gruppo quindi, perfezionata tecnicamente dal missaggio di Mario Caldato, il “Mario C” delle produzioni dei Beastie Boys. Il disco, sebbene non sia per nulla leggero nelle liriche e nei significati, anche molto personali, nascosti dietro alla lunga storia del vulcano, si ascolta anche con immediato piacere, e solo nel finale arrivano i brani più lenti e complessi come Everlasting Joy e Distant Snowy Peaks. Probabilmente se Harry Nilsson fosse ancora vivo e lucido, avrebbe potuto fare un disco così.

 

Nicola Gervasini

giovedì 30 settembre 2021

J SINTONI

 


J. Sintoni

Backroads

(Go Country, 2021)

File Under: Going up the Country

Di chitarristi blues che finiscono ad abbracciare il mondo della cosiddetta “americana” ne abbiamo visti tanti, anche in Italia (penso a Paolo Bonfanti, per dirne uno tra i tanti), e non fa eccezione anche il romagnolo J. Sintoni. Di fatto il suo nuovo album Backroads, chiarificatore sul contenuto fin da titolo e copertina, completa il passaggio già iniziato dal precedente Relief del 2017, dove la collaborazione ormai continuativa con Grayson Capps si faceva sentire parecchio (e complice anche la produzione dell’esperta Trina Shoemaker). Ma qui il salto verso una visione musicale che potrebbe avvicinarlo quasi al Dave Alvin più innamorato della tradizione, si completa, e ormai il suono è davvero lontano da quello del suo album Better Man del 2012, immerso com’era nella rigida grammatica del blues elettrico.

L’ossatura delle canzoni ruota comunque ancora intorno alle sue chitarre, sebbene lui sia sempre meno portato all’esibizione di assoli, e ad una sezione ritmica che lo vede impegnato anche al basso, in aggiunta alla batteria di Angelica Comandini. Il disco però si avvale anche di una serie di prestigiosi interventi che arrivano sia dalla scena nostrana (l’armonica di Marco Pandolfi, il violino di Elisa Semprini, il banjo di Thomas Guiducci e il piano di Gianluca Morelli), sia da qualche amico straniero come il da noi molto seguito Buford Pope, l’ex Blue Mountain Cary Hudson, Corky Hughes., Katrina Miller e lo svedese Rickard Alerstedt con i suoi importanti interventi con la Pedal Steel Guitar.

Ma se le connessioni del periodo di lockdown hanno permesso di riunire una squadra di primo livello, non sfugge quanto il disco sia davvero un encomiabile sforzo solista di Sintoni, che canta con anche più convinzione (e, detto nel senso positivo del termine, anche con più “mestiere” di un tempo), e si è evidentemente concentrato nello scrivere dieci brani più che validi che racchiudessero un po’ tutte le anime di quella musica americana che tanto lo influenza. E così se Hope sa di puro country-rock d’annata, When I Go Home lo riporta sui già esplorati territori di un gospel-blues alla Capps, ma già The Lighthouse, brano lento e intenso, fa capire quanto anche abbia velleità da autore puro. Le influenze di country music restano comunque le più evidenti (Let’s Try To Get Lost, Country AF), anche se il finale di Take This Song ricorda più le ballate West-Coast anni settanta alla Jim Croce, stile che tra l’altro si adatta ancor meglio alla sua voce.

Una volta chiesero al cantante afroamericano Charley Pride (scomparso pochi mesi fa per il Covid-19) come si fosse sentito ad essere il primo artista “di colore” ammesso al Grand Ole Opry di Nashville (era il 1967), e lui rispose che il Country si era evoluto talmente tanto che era ormai diventato una stanza abbastanza larga per farci stare tutti. Anche in Italia ci stiamo cominciando ad entrare con sempre più consapevolezza e rispetto, e anche Backroads si conquista il suo spazio in quella grande stanza.

Nicola Gervasini

venerdì 17 settembre 2021

CORAL

 

Coral - Coral Island

2021, Modern Sky UK / Run On

 



È sempre bello poter raccontare come una band nata sui banchi di scuola raggiunga un certo successo, e addirittura diventi una realtà più che longeva. Gli inglesi Coral, ad esempio, sono assieme dal 1996, anche se l’esordio discografico è arrivato solo nel 2002 dopo una giusta gavetta di concerti locali, e sicuramente sono una delle realtà che meglio rappresenta la musica di questo ultimo ventennio, fatta di Smiths e R.E.M. come benzina presa dagli anni ottanta, miscelata con lo spleen timido e lo-fi dell’indie-rock moderno. Coral Island è il loro decimo album, un numero da band scafata che è riuscita, tra gli inevitabili alti e bassi della carriera, a non perdere seguito e consensi neppure dopo aver perso una delle colonne portanti (il chitarrista Bill Ryder-Jones, degnamente sostituito da Paul Molloy), o neppure quando, dopo una pausa di riflessione del gruppo, il cantante James Skelly aveva sentito il bisogno nel 2013 di una sortita solista. Insomma, una band-famiglia che non ha mai deviato troppo dalla propria formula musicale. Coral Island però introduce una novità, quella della struttura da concept album, con una precisa trama da seguire (scritta dal tastierista Nick Power) che racconta le vicende di una città immaginaria, narrata da una voce che ha subito fatto accostare il disco a classici come Ogdens' Nut Gone Flake degli Small Faces. Sebbene la durata non sia eccessiva (54 minuti), l’album figura essere un doppio, diviso in una prima parte che immagina la nascita e il fiorire di questa cittadina di mare (con parecchi ricordi di una infanzia felice dell’autore), e una seconda che invece vede il declino visto con gli occhi di alcuni personaggi che la popolano. Insomma, una storia moderna di nostalgia per un mondo che si perde pian piano, quasi un C’era una volta il West costruito ad hoc per i palati di oggi, che infatti ha due anime distinte, una più spensieratamente pop nella prima parte (e i Kinks ringraziano per quanto li si fa sentire ancora importanti), una più involuta e malinconica nel secondo disco. Il tutto sempre comunque ammantato da quel sognante tocco di psichedelia “old-style” che rappresenta un po’ il loro marchio di fabbrica.  Inizialmente la band voleva pubblicare i due dischi separatamente, a breve distanza l’uno dall’altro, come purtroppo si usa fare ora per rispondere alle esigenze di brevità dello streaming, ma proprio “Fuck Streaming!” è stata l’esclamazione dell’ex Oasis Noel Gallagher (passato a salutarli in studio durante le registrazioni) che li ha convinti far uscire il tutto in un unico corpo. E meno male, perché Coral Island, per quanto non innovativo nelle soluzioni, trova però un brillante espediente per tenere incollati alle casse l’ascoltatore, sia con ariosi pop da radio come Change Your Mind, che con momenti riflessivi da perderci la mente come Mist on the River. Le statistiche delle piattaforme streaming ci diranno se vincerà anche la sfida di tenere incollati i loro utenti per quasi un’ora con una musica che viene dal passato.

Nicola Gervasini

VOTO: 7,5

lunedì 13 settembre 2021

CURRENT JOYS

 


Current Joys

Voyager

(Secretly Canadian, 2021)

File Under: Space Pop

 

C’è una storia che definirei di epica moderna dietro il nickname di Current Joys. La sigla infatti appartiene a Nick Rattigan, uno dei tanti giovani che più di dieci anni fa è stato incoraggiato a suonare e registrare dall’attento pubblico del social MySpace, probabilmente l’unico sito che ha davvero contribuito a creare un contatto reale tra nuovi artisti e nuovi ascoltatori in questi anni duemila, community purtroppo dispersa dopo breve tempo dall’avvento di social meno mirati ma più inclusivi (oggi si tenta di resuscitarlo, ma i tempi sono purtroppo cambiati). A partire dal 2011 Rattigan ha cominciato a registrare cambiando ogni volta nome d’arte (i primi furono The Nicholas Project, TELE/VISIONS, ma la lista è lunga), ma soprattutto in questi dieci anni si è anche lanciato in altre imprese, che lo hanno visto prodigarsi come leader di una band di “surf-punk (i Surf Curse), scrittore, regista (oltre ai suoi, ha girato anche un video per i Girlpool), giornalista e fotografo. Insomma, un poliedrico entusiasta dell’arte, ma anche un talento dispersivo e non sempre abile a riordinare tante idee in un prodotto totalmente maturo. E così questo Voyager, nono disco in carriera e quarto uscito sotto la sigla Current Joys, non è un caso che esca dopo ben tre anni (una eternità per i suoi ritmi) dal precedente A Different Age, perché l’album ha tutta l’aria del salto di qualità finalmente ponderato con calma. Non che ci sia da salutare una grande rivoluzione musicale, questi brani affondano infatti le mani in tradizioni molto consolidate di indie-rock anni 2000, con il pensiero che va innanzitutto agli Okkervil River, anche per una certa somiglianza della voce con quella di Will Sheff, ma anche per certi arrangiamenti, che da uno scarno folk stralunato alla Robyn Hitchcock (The Spirit of the Curse) cercano armonizzazioni (Dancer in the Dark) e leziosità che quasi ricordano certe cose degli Shearwater (per rimanere sempre nella stessa famiglia degli Okkervil River), oppure alcune soluzioni del Damien Jurado più maturo e desideroso di vestire le proprie canzoni. 16 brani in 54 minuti di musica, lunghezza che quindi ancora non si arrende ai tempi da streaming (pare che solo il 20% degli ascoltatori vada oltre il terzo brano di un singolo disco, il che spiega l’ormai ingestibile invasione del formato EP), che forse avrebbe avuto bisogno ancora di qualche taglio in più per arrivare ad un lavoro veramente unitario e di ugual intensità dall’inizio alla fine, ma in ogni caso l’opera nel complesso non arriva mai ad annoiare. Risaltano alcuni brani come American Honey e Altered States ma anche i momenti più movimentati di Naked e Money Making Machine o quelli più genuinamente pop come Calypso, Amateur o la “paulwelleriana” title-track che chiude al piano un disco più che discreto.

 

Nicola Gervasini

 

mercoledì 8 settembre 2021

NEILSON HUBBARD

 


Neilson Hubbard

Digging Up The Scars

(Appaloosa, 2021)

File Under: Strings Folk

In un certo senso potremmo dire che un bel disco di Neilson Hubbard era nell’aria da tempo. Il quarantottenne produttore di Nashville, infatti, ultimamente si era speso in prima persona per il bel progetto degli Orphan Brigade (e anni prima con gli Strays Don’t Sleep insieme a Matthew Ryan), e come collaboratore dietro la consolle per gli amici Ben Glover e Joshua Britt (ma sempre da lui si servono anche Rod Picott, le Worry Dolls, Mary Gauthier, Sam Baker e la lista sarebbe ancora lunga). Anche i suoi dischi solisti sono sempre stati abbastanza apprezzati, ma forse è solo per questo Digging Up The Scars, già ottavo capitolo dal 1997 ad oggi, che Neilson sembra avere trovato suono e canzoni per fare un piccolo colpo e scuotere un po’ l’intorpidito mondo della roots music americana. Non che Digging Up The Scars non sia destinato ad avere i soliti riscontri commerciali limitati del genere, ma l’impressione è che in queste canzoni ci sia il seme di qualche cambio di rotta che in qualche modo auspichiamo. I brani sono una sorta di unitario dialogo tra lui e la sua compagna (nel precedente album ne aveva raccontato il matrimonio), con tutte le domande sulla vita e sul futuro che vengono ad una coppia che chiede solo di poter costruire la propria quotidianità in serenità, e partendo da una presa di coscienza del proprio modo di essere (Our DNA) fino al dolce finale di Slipping Away, Hubbard costruisce una serie di dolci ballate (di base country-songs d’autore) tutte costruite sull’intreccio tra la sua voce e la sua chitarra acustica e la onnipresente pedal-steel di Juan Solorzano (la band prevede anche Joshua Britt al mandolino e la grande chitarra di Will Kimbrough). Quello che però aggiunge davvero grande valore ad un album già di per sé intenso e riuscito sono gli arrangiamenti orchestrali che Hubbard ha pensato per ogni singolo brano, qualcosa che forse qualcuno potrebbe trovare anche un appesantimento (se non proprio stucchevole), ma che ricrea l’atmosfera di certe orchestrazioni che venivano spesso aggiunte ai brani dei cantautori di Nashville nei primi anni settanta, o più semplicemente cercano un concetto non dissimile da quello teorizzato dallo Springsteen di Western Stars. Insomma, quasi fosse un novello Randy Newman, Hubbard si diverte a fare l’arrangiatore di sé stesso nel migliore dei modi, e forse proprio la sensazione che anche per fare un disco comunque destinato a vendere poco ci sia spesi in un lavoro di produzione così certosino lascia piacevolmente di stucco. “Nobody is making records like this anymore” recita la sua presentazione, e per una volta l’esagerazione tipica degli uffici stampa non suona totalmente fuori luogo, perché qui abbiamo un artista che sa dare un colore intenso ai suoni come un Joe Henry o un T-Bone Burnett quando producono dischi altrui, ma senza l’idea di voler sottrare a tutti i costi, ma semmai riempire gli spazi (vanno citati anche i fiati suonati dal tastierista Danny Mitchell), con anche il vantaggio di saper scrivere delle ottime canzoni cantate in uno stile che ricorda molto quello di Ray Lamontagne. Ve lo consigliamo anche se la stagione e la voglia di uscire non è la migliore per un disco così intimo e autunnale.

 

Nicola Gervasini

venerdì 3 settembre 2021

GARY MOORE - TONY JOE WHITE

 

Gary Moore - How Blue Can You Get (Provogue/Mascot Label Group)



Tony Joe White - Smoke From The Chimney
(Easy Eye Sound)

A scuola ci hanno insegnato che Virgilio non considerava affatto l’Eneide come conclusa, e che solo la morte prematura gli impedì di rimetterci mano per una nuova revisione, ma si sa che quando un‘opera diventa immortale neppure il suo autore ne è davvero più proprietario. Ci sarebbe quindi da fare anche una bella lista di quanti album “postumi” nel corso della storia della musica rock sarebbero in verità stati ben diversi se solo l’autore fosse stato in vita. Per questo ho sempre considerato la categoria dell’album inedito come qualcosa da considerarsi in maniera acritica, un puro documento storico e oggetto per buono per i fans dediti al “completismo”, pur sapendo che spesso nei cassetti degli autori che vengono a mancare ci si ritrova autentici tesori.

E si capisce anche che le famiglie degli artisti abbiano ragionevolmente voglia di omaggiare i propri cari scomparsi, e magari guadagnarci anche qualcosa (nessuno scandalo, anche l’inedito fa parte dell’asse ereditario in fondo), e la differenza sta solo nella cura e nel rispetto che ci mettono nell’operazione. Per questo vanno salutati con piacere dischi come How Blue Can You Get, otto registrazioni inedite di Gary Moore uscite a dieci anni esatti dalla morte, o Smoke From The Chimney, album che resuscita alcune registrazioni casalinghe di Tony Joe White (scomparso nel 2018), perché sono due operazioni tra loro molto diverse, ma ugualmente sentite, e in fondo utili a continuare ad amare questi due importanti chitarristi dediti a due tipi di blues molto differenti tra loro.

L’operazione che riguarda Gary Moore è di puro archivio, per esempio, perché probabilmente l’autore mai avrebbe pensato di pubblicare questi brani assieme e in quest’ordine. Sono delle “outtakes” uscite dalle tante sessioni in stile blues che hanno caratterizzato la seconda parte della sua carriera, a partire dal grande successo di Still Got The Blues del 1990. 4 brani originali e 4 cover che consocerete sicuramente già se siete dei frequentatori abituali del genere, come la celeberrima I'm Tore Down di Freddie King che apre le danze, Steppin' Out di Memphis Slim e l’immancabile omaggio a Elmore James (qui riprende una già più rara Done Somebody Wrong) e a BB King (How Blue Can You Get). Nulla che cambi di una virgola l’eredità artistica lasciata da questo hard-rocker irlandese dal cuor gentile e particolarmente amante dei blues lenti e romantici, ma in ogni caso materiale più che meritevole di una pubblicazione ufficiale.

Diversa invece l’operazione che ha riguardato Tony Joe White, visto che non di inediti di studio si tratta, ma di demo ritrovati dal figlio e saggiamente affidati al re della retro-mania rock Dan Auerbach (Black Keys), che con entusiasmo ha risistemato le registrazioni aggiungendoci parti completamente nuove registrate a Nashville da Gene Chrisman, Bobby Wood, Dave Roe e addirittura Marcus King alla chitarra.

Il risultato è davvero riuscito, con anche momenti davvero importanti come la lunga storia di Bubba Jones che entra di diritto nel novero delle sue canzoni migliori, perché poi le registrazioni vedono un White nel suo momento più espressivo, e la post-produzione di Auerbach segue un gusto che comunque non si  allontana dalle ultime prove dell’autore, che aveva già da tempo abbandonato il suono un po’ addomesticato delle sue prove a cavallo degli anni 80 e 90, per tornare ad un approccio più sporco e “fangoso” al suo swamp-blues.

La riflessione non è tanto dunque sulla bontà del materiale pubblicato, quanto sulla paternità, perché se nel caso di un semplice recupero di archivio come quello di Gary Moore semmai il dubbio resta solo se poi l’autore avesse tenuto nel cassetto le registrazioni ritenendole non all’altezza del materiale poi effettivamente pubblicato (sinceramente mi paiono più o meno sullo stesso livello), nel caso di White ci troviamo davanti ad un prodotto la cui titolarità andrebbe condivisa con Auerbach. Ma forse sono questioni di poco conto, anche perché il pensiero va a certi danni fatti con le post-produzioni operate sul materiale di Jimi Hendrix nel corso degli anni e non resta che ringraziare Auerbach di aver giocato a carte scoperte con grande qualità, non cercando di venderci il disco come un lost-record originale, ma per quello che è, un puzzle realizzato con alcune vecchie tessere e altre nuovissime a coprire i buchi. E vogliamo credere anche il buon Tony Joe avrebbe sicuramente apprezzato.

 

Nicola Gervasini

martedì 31 agosto 2021

MARCO SONAGLIA

 


Marco Sonaglia

Ballate dalla grande recessione

(Vrec / Audioglobe, 2021)

File Under: a muso duro

Sebbene le nuove leve del cosiddetto indie italiano l’abbiano rivista e rivisitata in chiave più moderna, e forse anche più internazionale, la tradizione del cantautorato italiano, figlia di De Andrè e Guccini, sembra non conoscere crisi di nuovi adepti e seguaci. Il quarantenne Marco Sonaglia ad esempio è un autore che chi segue il genere conosce ormai bene, vuoi per i suoi primi due dischi da solista (Il Pittore è l'Unico che Sceglie i Suoi Colori del 2012 e Il Vizio Di Vivere del 2015), vuoi per quelli più recenti con i Sambene (Sentieri Partigiani, tra Marche e Memoria del 2018 e I Sambene Cantano De Andrè nel 2019) che ben fanno capire le sue radici musicali, opere che lo hanno portato ad esempio a seguire le tournee di nomi come Claudio Lolli, Modena City Ramblers e Massimo Bubola. E fin qui tutto chiaro, ma con questo Ballate Dalla Grande Recessione  Sonaglia prova un ulteriore passo in avanti, costruendo una serie di belle ballate, ispirate alle strutture rese celebri dal francese François Villon, intorno alle composizioni di Salvo Lo Galbo, poeta “militante” alla vecchia maniera. Loro le hanno chiamate “canzoni emergenziali” perché nate in epoca-covid, ma alla fine il disco è una sorta di campionario di alcune battaglie per l’umanità e la dignità che la pandemia ha solo un po’ fatto dimenticare. Canzoni che ricordano chi era alla ricerca di un rifugio dalla miseria già prima del Covid (Primavera a Lesbo), di lotte civili che restano vive e ancora non vinte attraverso episodi e personaggi noti (Canzone per Stefano, dedicata a Cucchi, o Canzone Dello Zero dedicata al ex sindaco di Riace Mimmo Lucano) e meno noti (Canzone per Sacko, dedicata ad un sindacalista morto in Calabria, o Ballata a una Ballerina, dove lo spettro di Auschwitz torna nella storia di Lola Horovitz, nome d’arte della ballerina polacca Franceska Mann). E infine doverosi omaggi (a Lolli in Canzone per Claudio), e una serie di brani “da combattimento” come Ballata per Cuba e La Mia Classe. Prodotto, arrangiato e suonato con Paolo Bragaglia e gli interventi del violoncello di Julius Cupo, Ballate Dalla Grande Recessione è una sorta di urlo di battaglia che ricorda che la canzone d’autore di stampo politico non è morta, e che ci sono anche tante questioni ancora da risolvere, anche a suon di note.

 

Nicola Gervasini

 

 

lunedì 23 agosto 2021

VAN MORRISON

 


Van Morrison

Latest Record Project, Vol. 1

(BMG Rights Management, 2021)

File Under: I Fought The Law

Accade un fatto curioso riguardo a Van Morrison. Va bene, nessuno credo possa discutere che Van “The Man” abbia dato il meglio con la sua produzione passata. E va ricordato, per contro, che rispetto a molti suoi contemporanei, lui è uno dei pochi che può vantare di aver tenuto un livello eccelso anche negli anni 80 (riconosciuto da tutti ai tempi), trovando il suono giusto per continuare a suonare moderno senza troppi compromessi anche in quegli anni difficili per la prima generazione rock. Poi però, a partire dagli anni 90, improvvisamente la sua musica è diventata vecchia, anzi, forse il simbolo del vecchio per antonomasia per tantissime riviste musicali (anche nostrane), un po’ per l’effettivo calo di ispirazione, unito quel senso di “rimescolamento della stessa minestra” che i suoi dischi degli ultimi 30 anni hanno avuto, un po’ però anche per un insensato e aprioristico ostracismo di una critica che lo ha trattato con più severità di molti suoi colleghi altrettanto non più brillanti come un tempo, molto spesso ignorando completamente le sue uscite discografiche. Invece per questo Latest Record Project, Vol. 1 si sono tutti affrettati a parlarne, perché il disco è stato anticipato da una serie di dichiarazioni e “instant-songs” che seguivano un po’ il filone complottista del periodo covid, e quindi, per la prima volta dopo anni (o forse proprio per la prima volta in assoluto), anche su Van Morrison c’è la possibilità di montare un caso mediatico utile strappare click. Alcuni di quei brani sono qui, ma neanche tutti, lasciando presagire davvero un secondo volume. Qui si impone dunque una riflessione: da quando infatti riteniamo davvero gli artisti (musicali, ma non solo) importanti per quello che pensano e non per come lo esprimono, tanto da usare la sensatezza dei loro discorsi come unico metro di giudizio della loro opera? Quando è successo che ci siamo davvero curati del fatto che il loro pensiero fosse coerente, logico, etico, e via dicendo? Ancora oggi di fatto ascoltiamo un sacco di testi rock che sono infantili, ingenui, inutilmente visionari, esagerati, incoerenti, violenti, politicamente e socialmente non più accettabili, eppure non smettiamo di farlo neppure quando ce ne rendiamo conto.  L’artista non è colui che può tracciare un sentiero, l’artista è colui che ti fa scoprire della sua esistenza, esprimendo con l’arte, e non con le teorie, le emozioni che quel sentiero suscita in lui. Lasciamo ad altri il compito di tracciare sentieri quindi. Il discorso vale per Van Morrison: stroncare questo album per le teorie sull’attualità che contiene (come si è affrettata a fare molta stampa estera, anche quella che da tempo lo ignorava) ha poco senso, perché qui bisognerebbe invece notare che queste 28 canzoni, tra gli inevitabili alti e bassi di una mole esagerata e, nel finale, anche un po’ sfiancante, sono le meglio cantate, suonate, prodotte, e - in alcuni casi - anche scritte dei suoi ultimi anni. Non che ci siano grandi novità di sorta rispetto “al suo solito”, anche se l’assolo di chitarra quasi garage-rock di Where Have All the Rebels Gone è una rarità nel suo menu, e ovunque impazzano degli azzeccatissimi cori in stile doo-wop anni 50 che paradossalmente rendono più fresco e moderno ciò che innegabilmente resta “vecchio” e passatista. Ma quella che è diversa è proprio la sua motivazione a cantare, ad aggredire la vita con i primi testi che da tempo non si adagiano nel quieto vivere della sua “splendid isolation”, per dirla alla Warren Zevon. Anche a costo di scadere ogni tanto nel patetico (vedi Why Are You on Facebook), un rischio che ritengo comunque doveroso che un artista del suo calibro si prenda. Insomma, l’ultimo disco di Van Morrison vede in pista di nuovo un uomo che esce dal suo guscio con le armi migliori che ha, la voce e la musica, il che mi porta a sperare che “s’incazzi” ancora di più per il volume due.

Nicola Gervasini

domenica 1 agosto 2021

DANIEL LANOIS

 


Daniel Lanois – Heavy Sun

Maker, 2021

 

Daniel Lanois rappresentava uno stranissimo caso in un mondo della musica che per anni ha ragionato per generi che facevano fatica a parlarsi e riconoscersi. Di certo negli anni ottanta la musica elettronica/ambient di Brian Eno non era esattamente quella che si ascoltava a New Orleans tra un disco di Allen Toussaint e uno di Dr. John, eppure lui ha incarnato alla perfezione le anime di due mondi così diversi, mettendo poi la sua esperienza al servizio dei più grandi (per U2, Bob Dylan, Peter Gabriel, Robbie Robertson, Neville Brothers, Willie Nelson, Emmylou Harris, Neil Young le sue produzioni più memorabili). La sua carriera solista ha sviluppato ancora meglio il concetto, con album di bellissime canzoni nate nel fango del Mississippi come Acadie o For the Beauty of Wynona, alternati a quelle sperimentazioni di studio imparate negli anni in cui si è fatto la gavetta come assistente proprio di Brian Eno (va ricordato perlomeno Belladonna del 2005). Ma probabilmente è questo nuovo Heavy Sun la migliore sintesi della sua musica, un disco di canzoni gospel-oriented concepito con una band creata con gli amici Rocco DeLuca (chitarra), Jim Wilson (basso) e Johnny Sheperd (organo), tutti impegnati a creare con le loro voci splendidi impasti vocali, a cui manca davvero solo il falsetto di Aaron Neville per riportare in auge il suono che creò per i Neville Brothers in quel capolavoro che fu Yellow Moon. L’elettronica c’è, ma per l’occasione Lanois ha preferito dare l’impressione di un gruppo che suona dal vivo in studio, nonostante resti evidente che il lavoro di produzione resta imponente e certosino come sua abitudine. Ma a questo giro Lanois ha voluto concentrarsi soprattutto sulle canzoni, lanciando, in un clima di totale ritrovata pace spirituale, appelli come Power, brano contro le disumane dittature africane, imbeccato proprio da una petizione lanciato dall’amico Brian Eno, ma anche altri richiami tipici di questa nuova era-covid come Every Nation, Mother's Eyes e Angels Watching. Protagonista, tra gli strumenti, è sicuramente l’organo Hammond di Johnny Sheperd, musicista che proviene proprio dal mondo della musica di chiesa, e che Lanois ha imbarcato anche nelle vesti di consulente sull’argomento. Il risultato è un disco molto intimo, melodico, rilassato, in cui per una volta ci si gasa più per la brillantezza delle soluzioni vocali, piuttosto che per la perfezione delle soluzioni tecniche adottate. Ed è questo che rende Lanois uno dei musicisti più completi della nostra era, ormai poco presente purtroppo come produttore per conto terzi (ma l’epoca dei grandi produttori è tramontata con la triste vittoria del più economico home-record), ma sempre attivo come teorizzatore di una musica che unisca in egual misura tecnica e anima, due spiriti che il mondo del rock è sempre riuscito a conciliare con grande fatica.

 

Nicola Gervasini

Voto: 7,5

lunedì 26 luglio 2021

DINOSAUR JR.

 


Dinosaur Jr.

Sweep It Into Space

(2021, Jagjaguwar)

File Under: We Are Family

La voce un po’ stridula e quasi sofferente di J. Mascis è sempre quella, e pure la chitarra un po’ acida e distorta si riconosce subito, eppure i Dinosaur Jr. nel 2021 continuano a provarci ad uscire dallo schema fisso della loro musica. Dire che poi ci si siano mai riusciti è arduo, in fondo i loro dischi più acclamati sono quelli più scarni in cui emerge il loro stile nudo e puro, e album come Hand It Over o I Bet on Sky (ma per una certa critica anche il classico Green Mind), in cui più che in altre occasioni cercavano di far evolvere il loro suono, sono generalmente visti come episodi minori. Chissà, quindi, cosa penseranno i loro “hard-fans” quando vedranno il video di Take It Back, primo estratto da questo Sweep It Into Space, trovandosi davanti a quella che è fondamentalmente una pop-song, non so poi quanto leggera visto che Mascis non è mai stato tipo in vena di grandi disimpegni. A rendere il tutto decisamente rassicurante arriva anche un bel video con figure in pongo, come si usava spesso fare negli anni 90, e il batterista Murph sui social ha ironizzato sul fatto di presentarsi con un video così alla portata di tutti, piccoli compresi, ricordando che nel frattempo J. Mascis e Lou Barlow sono diventati padri. Ed è da qui che forse bisogna partire per capire come sia possibile che questa line-up a tre, che negli anni 80 resse tra mille litigi solo l’arco di tre album, dal 2007 ad oggi abbia pubblicato cinque album con la tranquilla regolarità degli scafati professionisti. Partendo da questo presupposto non meraviglia quindi che Sweep It Into Space sia un disco piacevole fin dal primo ascolto, persino accomodante, pur conservando quelle spigolature che rappresentano il marchio di fabbrica della casa, sicuramente meno sofferto del precedente Give a Glimpse of What Yer Not che forse del nuovo corso era il disco che aveva ricevuto più consensi (ma invecchia bene anche Beyond del 2007). Certo, qui si concedono qualche uscita dal seminato in più (I Ran Away, And Me), ma alla fine anche il fan di vecchia data che può vantarsi di aver comprato Bug prima di tutti può ancora sentirsi a casa con brani come I Met the Stones, Hide Another Round o To Be Waiting. Quello che traspare è la mancanza di tensione, e non so quanto sia un bene, ma pare evidente che Lou Barlow si stia accontentando davvero di fornire alla causa solo un paio di brani ad album (qui sono la quasi folk You Wonder e la notevole Garden) e mettersi comunque al servizio del Mascis-pensiero. Sarà forse anche che l’album è stato registrato a distanza per le cause che ben sapete dopo le prime sessions in comune, tanto che stavolta ci si è potuto permettere persino un ospite (Kurt Vile). D’altronde già nell’iniziale I Ain’t Mascis urla “I ain’t good alone” con la forza di chi sa che l’unione fa la forza, e l’dea che ci si fa è che quella dei Dinosaur Jr non sia stata una “reunion”, ma solo una continuazione di un qualcosa che non sarebbe mai dovuto finire (anche se va ricordato che anche senza Barlow la sigla ha licenziato dischi belli e importanti come Where You Been), e che soprattutto non hanno intenzione di far finire finché gli sarà possibile. Che dite, preparo già una recensione per il loro disco del 2040 in cui li paragonerò ai Rolling Stones per longevità, coerenza stilistica,  e tenuta della formazione?

 

Nicola Gervasini

lunedì 19 luglio 2021

NICK WATERHOUSE

 

Nick Waterhouse

Promenade Blue

(Innovative Leisure, 2021)

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C’è una certa perversione di fondo nella retro-mania di molte produzioni degli anni 2000, e non parlo di chi semplicemente ancora suona i vari generi che hanno dato vita al “classic-rock” provando almeno a cercare una personalizzazione, quanto proprio chi, come Nick Waterhouse, cerca di riprodurre il suono di un tempo, difetti compresi, per realizzare album che paiono davvero usciti negli anni sessanta. Sono ormai passati più di venticinque anni da quando i film di Quentin Tarantino hanno ricordato al grande pubblico che con le vecchie canzoni ci si poteva divertire ancora, ma il fenomeno non pare avere fine. Sia nel versante del New Soul, sia in quello di riproposizione di una cultura “sixty-pop” come nel caso di Waterhosue, l’imperativo è sembrare esattamente come quelli di un tempo, ma magari con canzoni che suonino moderne nel linguaggio e nel modo di porsi. Promenade Blue è il quinto album di questo californiano di 35 anni, e ancora una volta lo vede trasformare in forma pura ciò che dal vivo propone con grande spettacolarità, ormai forte anche di una certa popolarità arrivata dopo che ha dato voce nel 2017 ad una hit estiva del duo di dj francesi Ofenbach, che avevano ritrasformato la su Katchi, con grande successo in spiagge e discoteche di tutta Europa. Nick però resta un cultore di un certo pop raffinato degli anni 60, ed è facile citare Burt Bacharach o Lee Hazlewood come punti di riferimento, ma il vantaggio di giocare nel 2021 lo aiuta a condire il patito con echi di soul, jazz, e persino di garage-rock, anche se la sua versione di Pushin’ Too Hard dei Seeds, sorta di inno dei rozzi bassifondi degli albori del rock, qui appare in una veste del tutto estetizzante, per non dire - usando termini antichi - parecchio imborghesita. Un tempo li chiamavamo “party-records”, e ascoltando brani come To Tell effettivamente torna in mente quando il buon David Johansen proponeva qualcosa di molto simile negli anni 80 sotto le mentite spoglie di Buster Poindexter, con l’ironia della sorte che già allora (e parliamo di 35 anni fa), per qualcuno, lui pareva solo un simpatico rocker nostalgico da non prendere troppo sul serio. In ogni caso se è la forma che importa a Waterhouse, ogni tanto ci piazza anche della sostanza, con brani comunque interessanti come The Spanish Look, Silver Bracelet o B. Santa Ana. 1986. Però è ovvio che il senso di tutto è il gioco ai rimandi e al citazionismo che pare essere diventata la marca espressiva principale di questi anni venti in ogni campo (le serie televisive in primis), tanto che durante Medicine, senza neanche accorgetene, ti ritrovi a canticchiare Sixteen Tons in puro stile Platters, imbeccato da un coro basso alquanto simile, e ti rendi conto che il buon Nick non si offenderebbe affatto della cosa, ma anzi ne sarebbe lusingato. Perché alla fine un disco come Promenade Blue serve soprattutto a questo, a riconoscerci per una cultura musicale in grado di fare a pezzi queste canzoni e trovare l’origine di ogni tassello, magari avendo un po’ di invidia per quel ventenne (ci sarà no?) che, sentendo questi brani, non si chiederà da chi proviene questo suono, ma se li godrà senza troppi pensieri.

Nicola Gervasini


BILL RYDER-JONES

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