martedì 28 settembre 2010

RYAN BINGHAM - Junky Star


Il giornalista sportivo Gianni Brera sosteneva che la passione italiota per il calcio fosse dettata dal fatto che quello che accade in campo è esattamente quello che succede nella vita di tutti. Oggi, che il calcio di Brera è morto e sepolto con lui, sappiamo che anche lo schifo che accade fuori dal campo è ben rappresentativo della vita del nostro paese, per cui ben facciamo noi ad occuparci di altro. Ma per una volta concedeteci di ispirarci al buon Brera per capire come mai il nostro giovane campione del momento (Ryan Bingham) si sia espresso al meglio con un allenatore di serie B (il prode Marc Ford, ex Black Crowes, un fuoriclasse della chitarra, quanto un produttore ancora alla ricerca di un proprio marchio di fabbrica), piuttosto che sotto la guida del "Mourinho della roots music" (l'iperattivo T-Bone Burnett). La risposta è calcistica: "squadra che vince non si cambia", e allora visto che al duo Bingham-Burnett è bastata una sola canzone per vincere addirittura un oscar (Weary Kind), logico aspettarsi l'album di rito. Ma il risultato parla chiaro: Junky Star è un sofferto 1-0 d'inizio stagione, strappato con i denti da una squadra portentosa, con una punta come Bingham che dimostra anche in questo caso di essere l'unico nome davvero credibile e riproponibile ad alti livelli (la stessa Junky Star lo ribadisce subito, certi tiri riescono solo ai grandi talenti), e un Burnett che fa sentire il suo peso come al solito.

Ma sempre Brera insegna che i giocatori e gli allenatori possono anche essere bravi, ma una squadra vincente nasce da una giusta alchimia e da una corretta combinazione di ruoli. E così se Burnett quando allena Mellencamp fa meraviglie grazie alla sua tattica di trincerarsi in un'area fatta di tradizione e suoni vintage (una sorta di reazionario catenaccio), con Bingham si ritrova per le mani un giocatore meno duttile e poco adatto al ruolo. Il problema infatti è che è lo stesso Ryan a non tenere la posizione a lungo, perché se questo disco inizia con una grande azione difensiva (la riflessiva The Poet) esattamente come succedeva in Mescalito, il nostro fallisce il primo ribaltamento di campo con Strange Feeling In The Air, brano che richiede una incisività a suon di slide-guitars taglienti, ma che il buon T-Bone riesce invece a rendere evanescente e cervellotico. E così, palesemente spaesato, il nostro campione temporeggia con un po' di melina a centrocampo (il difficoltoso trittico Depression, Hallelujah, Yesterday's Blues), ma la dimensione acustica alla lunga (…e l'album è lungo…) gli sta evidentemente stretta.

Finisce così che gli schemi saltano (Direction In The Wind passa sulle strade del blues), l'allenatore gesticola a bordocampo e saccheggia Lay My Head On The Rail sostituendo i bistrattati Dead Horses con nulla, fino a quando la star reagisce e incorna finalmente a rete con la tensione southern di Hard Worn Trail. Ma è evidente che la vittoria è risicata, e che il nostro piccolo campione avrebbe bisogno di dare più libertà al proprio estro per far risaltare la bella scrittura del finale di Self-Righteous Wall e All Choked Up Again, numeri che, con un buon chitarrista solista a fare gli assist o un tastierista di esperienza a tessere geometrie sulla mediana, avrebbero sicuramente generato una goleada.
(Nicola Gervasini)

venerdì 24 settembre 2010

THE MAGIC NUMBERS - The Runaway


Ci sono artisti che passano lasciando grandi tracce, ma dimenticando di lasciarci sopra la propria firma con piena evidenza, con il risultato di rimanere culto solo di pochi appassionati. Se dico Robert Kirby so che molti di voi voleranno subito con la mente alle fantastiche orchestrazioni create per i dischi di Nick Drake, alle tante collaborazioni con il mondo del folk inglese (ha lavorato tanto con gli Strawbs e Richard Thompson), fino alle richieste di aiuto più blasonate arrivate da Elton John , Paul Weller e Elvis Costello. Kirby è stato un vero genio dell'arrangiamento, l'unico uomo in grado di far sembrare sempre discreta ed essenziale un'intera orchestra di archi, sposandoli spesso e volentieri con dolci arpeggi acustici, ma a volte provando anche a cimentarsi in ambiti decisamente più rock. Kirby è morto senza troppi clamori lo scorso ottobre 2009, una di quelle notizie per addetti ai lavori che però aveva alimentato l'attesa per questo disco dei Magic Numbers, pop-band inglese che ha avuto l'onore di dare asilo alle sue ultime creazioni prima della dipartita.


Loro sono stati una delle strillate "next big thing" della stampa inglese nel biennio 2005-2006, due album di brillante e efficace indie-pop che è valso buone vendite e riconoscimenti. Molto ha fatto paradossalmente anche il loro aspetto, dimesso e ben lontano da quello di pop-stars, complice anche una generale stazza fisica di alto peso dei quattro che è stata anche la causa di alcuni spiacevoli incidenti (abbandonarono polemicamente il palco della trasmissione Top Of The Pops perché il presentatore li annunciò come un "grande e grasso melting pot di talento").The Runaway è il terzo disco, giunto dopo un lungo periodo di silenzio, ripensamenti, e probabilmente anche situazioni difficili a giudicare dal clima non certo festaiolo di queste canzoni, Le due coppie di fratelli che compongono il combo (Sean e Angela Gannon e Romeo e Michele Stodart) hanno infatti dato a luce ad una serie di canzoni che fanno tesoro di mille buone lezioni, antiche (Angela cerca le orme di Linda Thompson in Throwing My Heart Away) o recenti (Restless River parte alla ricerca dei Fleet Foxes), inevitabili (Kirby pesa su The Pulse) o sorprendenti nel loro riferimenti temporali (Why Did You Call? sembra una pop-song dei Prefab Sprout anni 80).

Hanno puntato sulla varietà, vuoi ottenuta grazie ai giochi vocali (bella Once I Had), o grazie a ballate malinconiche di immediato effetto (Only Seventeen), o giocando addirittura con lo smooth-pop-soul di The Song That No One Knows o dando carta bianca a Kirby di sovrabbondare con la sua orchestra nella maestosa Dreams Of A Revelation. Chiude la triste I'm Sorry un disco che riesce a passare dal sobrio all'esagerato con una facilità incredibile, tanto che nello stordimento per tanta grazia non si riesce a capire cosa ci resterà. Per il momento sicuramente uno dei dischi più interessanti arrivati dall'Inghilterra.
(Nicola Gervasini)

www.themagicnumbers.net
www.myspace.com/themagicnumbers

lunedì 20 settembre 2010

Broken Hearts & Dirty Windows - Songs Of John Prine


Il peso avuto da John Prine sulla canzone americana è indiscutibile, o perlomeno lo è oggi che veniamo da un decennio che questa influenza l'ha evidenziata di continuo. Eppure nei suoi anni d'oro Prine è stato sempre abbastanza ignorato, vittima del pregiudizio di essere stato solo un nuovo Dylan che ha azzeccato una buona opera prima e nulla più (se dovete/volete scoprire il resto vi rimandiamo al nostro Folklore a lui dedicato). Broken Hearts & Dirty Windows è un tribute album voluto dallo stesso John per la sua etichetta Oh Boy, e che ha questo preciso intento: raggruppare nomi acclamati di ultima generazione per dimostrare l'importanza odierna del suo songwriting. Operazione riuscita in parte diremmo, non tanto per la vertiginosa scaletta, e neppure per i nomi in gioco che sono davvero quasi tutti fondamentali per gli anni 2000, quanto perché il risultato è spesso forzato, quasi un tributo dovuto, sentitamente obbligato.

In ogni caso speriamo davvero che l'opera di Prine venga poi rivisitata anche dai fans ad esempio di Bon Iver, che apre le danze nel suo inconfondibile stile onirico con Bruised Orange, oppure da quel mondo di ascoltatori poco avvezzo al country d'autore che magari visita spesso le produzioni dei Lambchop, qui intenti a rendere sempre più cavernosa Six O'Clock News. Per il resto contiamo sul fatto che il nome di Prine sia già ben noto a chi ama Josh Ritter, certamente uno che gli deve tantissimo e che tratta con dovuto rispetto (anche se senza troppi colpi di testa) la grande Mexican Home, oppure a chi apprezza Conor Oberst, quasi calligrafico nel riregistrare Wedding Day In Funeralville. Buoni tributi vengono da alcune delle migliori roots-band in circolazione, come i Drive By Truckers che trasformano Daddy's Little Pumpkin in un boogie da bar, o i Deer Tick nella loro nuova versione malinconica che piangono su Unwed Fathers (ma qui si sente la mancanza dell'ironia di John), per non parlare degli Old Crow Medicine Show che sono quasi intimiditi nel riprendere in mano il mega classico Angel Of Montgomery.

Gli episodi meno riusciti vengono da Justin Townes Earle, che per rendere Far From Me finisce per fare una parodia del padre Steve, o da Sara Watkins, che si addormenta un po' troppo su una The Late John Garfield Blues che necessita di ben altro vigore. Si salvano i My Morning Jacket, quasi dylaniani nel rendere la bella All The Best, mentre applausi strappano gli Avett Brothers con la loro Spanish Pipedream. Però alla fine le uniche che osano stravolgimenti personali e sorprendenti sono le poco note Those Darlins, che divertono molto con la loro Let's Talk Dirty In Hawaiian, piccola gemma da riscoprire del catalogo minore di Prine. Forse proprio perché le meno attese, sono state le uniche a rischiare qualcosa in mezzo a tanta composta devozione.
(Nicola Gervasini)

:: La scaletta
01 Justin Vernon alias Bon Iver - "Bruised Orange (Chain of Sorrow)"
02 Conor Oberst and the Mystic Valley Band - "Wedding Day in Funeralville"
03 My Morning Jacket - "All the Best"
04 Josh Ritter - "Mexican Home"
05 Lambchop - "Six O'Clock News"
06 Justin Townes Earle - "Far From Me"
07 The Avett Brothers - "Spanish Pipedream"
08 Old Crow Medicine Show - "Angel From Montgomery"
09 Sara Watkins - "The Late John Garfield Blues"
10 Drive-By Truckers - "Daddy's Little Pumpkin"
11 Deer Tick [ft. Liz Isenberg] - "Unwed Fathers"
12 Those Darlins - "Let's Talk Dirty in Hawaiian"

giovedì 16 settembre 2010

JOEL PLASKETT - Three To One


Una delle soddisfazioni (poche ormai) dei recensori è da sempre quella di scovare il disco ignorato dal mondo e stare a guardare come la propria analisi riesca a creare un passaparola tale da dare ad album ed artista un minimo di meritata visibilità. Non sto parlando di quel bruttissimo vizio di molti di urlare nomi sconosciuti solo per fare baccano mediatico, salvo poi dimenticarseli già il mese dopo, ma del genuino colpo di fulmine che ci aveva suscitato l'album Three di Joel Plaskett, disco che vi avevamo presentato con un ritardo di quasi un anno solo qualche mese fa. Qualche mese dopo dobbiamo constatare che stavolta lo sforzo è stato vano, perché il disco è passato pressoché inosservato dalle nostre parti, e la colpa vogliamo pensare che non sia stata della presentazione, quanto della mole esagerata dell'opera, perché il tempo di ascoltare un triplo cd oggi non lo concederemmo forse neanche più ad un nostro beniamino, figuriamoci ad un nome poco noto. Peccato, perché di quei 3 cd almeno una buona metà sarebbe davvero da recuperare, ma non tutto è perduto, perché ora Plaskett, che nella vita prima di fare il solista è stato leader degli Emergency, pubblica per il mercato europeo una versione "redux" dell'album che potrebbe davvero fare il caso vostro. Poi chi conosce il trittico magari potrebbe avere da ridire sulla scelta della scaletta (volutamente volta a cercare i brani più immediati e "easy"), ma in ogni caso queste tredici canzoni possono davvero darvi l'idea del suo rock fresco e variopinto, che spazia dall'indie-folk fino al roots-rock alla Mellencamp (non quello folk di questi tempi ovviamente), passando in rassegna un po' tutta la storia sonora del rock americano degli ultimi trent'anni, elettronica compresa. Avete una nuova chance dunque, riprovateci che male non fa.
(Nicola Gervasini)

lunedì 13 settembre 2010

JOHNNY FLYNN - Been Listening


Un ritmo incalzante, fiati a perdere e un gioioso ritmo caraibico: bastano i primi secondi di Kentucky Pill per capire che Johnny Flynn non ha nessuna intenzione di proporci un A Larum parte seconda. Lui da due anni è uno dei nomi più citati quando si descrive la nuova e feconda scena indie-folk britannica, quella che ha fatto sì che i Mumford & Sons e Laura Marling divenissero acclamati e riconosciuti un po' ovunque, e il suo esordio del 2008 aveva sfruttato il potere del passaparola web, tanto che il suo disco era poi stato pubblicato e distribuito da una major (la Vertigo). Been Listening esce invece per una piccola label, e a detta di Johnny non è tanto per le scarse vendite, quanto perché la Vertigo premeva perché il secondo disco ricalcasse l'incedere folk un po' sbilenco del primo. Johnny invece da buon vero freak-folker ha voluto piena libertà, per cui via in cerca di padroni meno dispotici e spazio sì alle sue folk-ballad moderne che l'hanno reso popolare tra gli appassionati (Lost And Found va in quella direzione), ma largo soprattutto ad un disco sovrarrangiato e particolarmente ritmato (Churlish May), con ballatone quasi mainstream nella loro "normalità" (la notevole Been Listening).

In ogni caso quello che risulta subito evidente è la frenesia con cui Johnny tende a coprire tutti gli spazi, infarcendo di violini l'interessante Bernacled Warship, ma scivolando nel déjà vu tomwaitsiano quando ammanta Sweet William Pt. 2di banjo caracollanti, violini da vaudeville e fiati quasi mariachi. C'è posto ovviamente per l'amica Laura Marling, ma il duetto di The Water, che viaggia quasi dalle parti del folk di Billy Bragg, rappresenta uno dei momenti meno coinvolgenti del disco. Ma Flynn a questo punto esagera, perché con Howl si passa ad un improbabile e sconclusionato blues elettrico, e l'album non si riprende nemmeno con la successiva Agnes, troppo indecisa se essere acustica, o elettrica (o semplicemente una canzone che non decollerebbe in ogni caso), e con la pianistica quanto faticosa Amazon Love. E si finisce con una intrigante The Prizefighter and the Heiress che lascia davvero l'amaro in bocca, perché dopo un inizio scoppiettante che prometteva chissà quali fuochi d'artificio, Flynn si è perso in troppe idee, dimenticando che per fare i grandi dischi è necessario innanzitutto scrivere grandi canzoni, o, in mancanza di quelle, potrebbe bastare un sound definito che qui manca completamente.

Sarà forse che Been Listening sembra quasi un disco di una band piuttosto che di un folk singer solista, sarà che la seconda opera la sbagliano quasi tutti, ma dall'altra parte del mare su questi terreni si aggira gente come Josh Ritter, e non è certo con queste canzoni che si può guadagnare il suo prestigio. Ai miei tempi c'erano gli esami a settembre per chi aveva qualche carenza ma non meritava certo la bocciatura, forse Flynn un paio di prove dovrebbe sostenerle ancora prima di far parte della schiera dei grandi.
(Nicola Gervasini)

giovedì 9 settembre 2010

THE VILLAGERS - Become a Jackal


C'è sempre l'imbarazzo della scelta su da che parte iniziare a raccontare un'opera prima, per cui partiamo dalle cose semplici. I Villagers vengono da Dublino e Becoming A Jackal è il loro primo album, ma già in precedenza avevano licenziato il giusto quantitativo di singoli ed EP sufficiente a far chiacchierare la rete sulla loro venuta. Conor O'Brien è il nome del nuovo genietto da segnarsi come talento da seguire, un artista dotato del necessario talento nell'unire in uno stesso album citazioni di ogni tipo, che dall'Inghilterra arrivano in America passando per pop, new wave, moderno indie rock e un pizzico di originalità che non guasta. Completano la band i compari Tommy McLaughlin, James Byrne, Danny Snow e Cormac Curran, tutti con poche esperienze alle spalle, e soprattutto tutti in odore di essere solo compagni occasionali di un viaggio personale. Di O'Brien a Dublino si era già parlato molto nel 2006 per il disco pubblicato insieme agli Immediate (In Towers and Clouds, un piccolo cult-record irlandese), ma quella era una vera band, con una più decisa parentela con l'elettronica e new wave di fine anni 70.

Voce sofferta e tremolante, con quel piglio un po' scazzato che va un po' di moda tra i nuovi eroi (e tra l'altro non sfugge una certa somiglianza con il Conor Oberst dei Bright Eyes), O'Brien fa parte della categoria di artisti che scrivono canzoni con urgenza, ma si scervellano a lungo per trovare un modo per farlo nella maniera meno ovvia possibile. Per cui è difficile darvi delle coordinate precise per capire questo disco sulla carta, Becoming A Jackal inizia infatti con i toni spettrali di I Saw The Dead, tra archi e pianoforti da colonna sonora (ho visto i morti ballare e mi chiedono di raggiungerli…), prosegue con l'aria da songwriter delicato (il paragone fatto dalla stampa inglese con Paul Simon può anche essere calzante) della title-track, fino all'incedere alla Okkervil River di Ship Of Promises, sicuramente uno dei brani più notevoli della raccolta (una bella riflessione sui ruoli che abbiamo da recitare nella vita di tutti i giorni). Il disco poi rallenta, con una Home che ricorda alcune stramberie dei Two Gallants e i geniali quadretti descritti in The Meaning Of The Ritual, ma prima della fine c'è di che godere per il bellissimo scherzo pop di The Pact (I'll Be Your Fever) e Set The Tigers Free.

Nonostante l'album sia di quelli da ascoltare a lungo e digerire con calma, quello che traspare è che poi alla fine tanto prodigarsi tra strumenti diversi e ricerca di ritmiche non convenzionali, si traduca in un disco molto melodico, diremmo quasi "pop" solo per non usare una parola come "easy" che potrebbe essere interpretata come un dispregiativo. Invece la forza di queste canzoni è proprio quella di avere spesso una musica melodiosa che contrasta con le sue liriche oscure, tipiche di un giovane in pieno cambiamento e maturazione. C'è ancora da lavorare per diventare grande, ma le premesse all'esordio sono già quelle giuste.
(Nicola Gervasini)

www.wearevillagers.com
www.myspace.com/villagers


21/7/2010 Rootshighway

domenica 5 settembre 2010

ALEJANDRO ESCOVEDO STORY

Alejandro Escovedo "Rhapsody "


Non so se ve ne siete accorti, ma quest'anno è uscito un grande disco di rock. Rock con la R maiuscola, fracassone, caciarone, un po' tamarro, con un duetto con Bruce Springsteen che sembra uscito da un disco degli anni 80. Eppure è un disco fantastico, e lo ha fatto un grande artista. Voi ascoltate Street Songs Of Love, il nuovo disco di Alejandro Escovedo...ma poi ricordatevi che i suoi capolavori sono altri. Quali? Serve un ripasso.....


a cura di Nicola Gervasini



:: Il ritratto

Da giovane mi sono molto divertito, ma non mi mancano quei giorni. L'altro giorno Mick Rock mi ha detto "Sei troppo vecchio ormai per morire giovane" (Alejandro Escovedo, 2008)

Probabilmente se Jim Morrison, Jimi Hendrix o Janis Joplin fossero sopravvissuti alla loro vita da rockstar, avrebbero passato il resto dei loro giorni a combattere contro i malanni dell'età come i comuni mortali, invece di continuare a sfidare quotidianamente la morte. L'immagine ben poco affascinante di una Janis intenta a farsi i lifting contro le rughe o di un Jim con il mal di schiena avrebbe fatto inorridire anche il giovane Alejandro Escovedo, ma oggi è proprio questo ex ribelle del rock a raccontarci tutt'altra storia. Lui è uno che dopo le rabbiose pruderie giovanili, spavaldamente sfogate in una pericolosa rebel-music-way-of-life, ha dovuto affrontare l'orrore del proprio lento decadimento fisico e il dolore della malattia. La sua è stata una vita costellata di eccessi e disgrazie, ma la sua odierna immagine di rocker malato, tenacemente sempre on the road, cozza un po' con quell'ideale da mitologia rock che ha ucciso Kurt Cobain professando il verbo dell' "it's better to burn out, than to fade away", e che oggi sembra in crisi nel creare nuovi miti altrettanto credibili nel farsi del male. Escovedo non sarà dunque il prossimo martire del carrozzone dello show business, innanzitutto perché una rockstar che si ammala non fa notizia quanto un bel suicidio da letteratura, secondariamente perché se il successo dipende dal "physique du role", neanche il più scaltro degli stilisti o dei marketing manager riuscirebbe a
trasformare in una icona da poster questo timido mulatto con la faccia pulita.Alejandro Escovedo nasce il 10 gennaio 1951 a San Antonio, in pieno Texas, settimo dei dodici figli di due emigranti messicani, con un padre sempre impegnato a suonare nelle mariachi bands. Il fratello Coke Escovedo fu lo storico batterista dei Santana, prima di morire tragicamente nel 1986, quando venne sostituito nel ruolo dall'altro fratello Pete, la cui figlia (giusto per chiudere il vorticoso cerchio famigliare) è Sheila E., la funambolica batterista dei Revolutions di Prince. Eppure quel battito primordiale che pulsava nei cromosomi di famiglia Alejandro non lo sfogava battendo sui bidoni dell'immondizia come i fratelli,
ma straziando le sei corde di qualunque chitarra gli capitasse a tiro, conquistato fin dalla tenera età dalla musica di tutte le band pre-punk dei primi anni 70, Stooges in testa. La sua vita artistica inizia nel 1976 come chitarrista dei Nuns, una delle prime punk-band di Los Angeles, una sorta di "wild side" dei Velvet Underground (con la perversa Jennifer Miro nel ruolo di Nico e Jeff Olener in quello di Lou Reed). La band non pubblicò LP veri e propri, ma solo alcuni singoli dai titoli ben eloquenti come Decadent Jew, Suicide Child o Child Molester, tutti co-firmati da Escovedo. Con un simile curriculum da bad boy del rock, oltre ad un paio di reali tentativi di suicidio degni di un vero artista maledetto (fortunatamente non andati a buon fine...), Escovedo salì il secondo scalino della sua vita artistica incontrando i fratelli Chip e Tony Kinman e formando con loro i Rank And File, un fondamentale punto di incontro tra la musica rurale americana e il punk californiano. Ma non si fermò qui: schiacciato dalla personalità dei talentuosi fratelli Kinman, lasciò presto anche questa band e si trasferì ad Austin, dove con i True Believers segnò un altro passo importante, la creazione dell'anello di congiunzione tra il cantautorato tipico della città, il southern rock e ancora quella matrice di rumore e anarchia sonora che comunque non abbandonerà mai del tutto. Ma l'ultimo scalino decisivo Alejandro lo ha fatto da solo, nel 1992, inaugurando una carriera solista che rappresenta uno dei più completi e personali melting pot di Texas, California e New York, tre anime di tre americhe diverse, che si sono parlate per la prima volta (senza insultarsi più di tanto…) nella sua musica. L'ultima svolta stilistica non è stata però dettata da un urgenza creativa, quanto dall'ennesimo colpo di sfortuna che lo ha colto nel 1999 sottoforma di una epatite C, una malattia che Alejandro ha tentato di ignorare fino al 2003, quando l'arrivo della fase acuta lo ha costretto a cure dolorose (e costosissime, ben oltre le possibilità di un onesto rocker texano). La storia recente di Escovedo parla di album tributo di colleghi e mille iniziative per racimolare soldi per salvarlo, ma parla anche di un artista che non si è arreso e che con The Boxing Mirror del 2006 ha tradotto la sua tragedia in un altro nuovo suono, un'altra avventura che quest'anno dovrebbe fruttare un secondo capitolo che sa già sulla carta di Iggy Pop, David Bowie e glam rock fin dalla produzione assegnata a Tony Visconti. Ma ovunque andrà la sua arte, e finchè avrà le forze per farlo, Escovedo rimarrà sempre uno dei più originali e del tutto inimitabili autori del nostro tempo, e forse proprio l'irriproducibilità del suo canto e del suo stile di scrittura ha fatto di lui solo un buon esempio, ma mai un vero e proprio modello per le nuove leve della canzone americana, una sorta di padre senza figli che è ancora alla ricerca di qualcuno a cui lasciare di diritto una cospicua eredità artistica. Singolare dunque che l'illustre rivista No Depression abbia consacrato lui come "Artist of The Decade" degli anni 90, e non, ad esempio, gli Uncle Tupelo, padrini onorari della testata, e citati come modello e fonte di ispirazione da più parti. Simili titoli nobiliari nel rock hanno sempre contato poco, ma nel caso di Escovedo, che non vanta vendite degne di finire sui rotocalchi, ha rappresentato l'unico riconoscimento per un carriera con ancora nessuna macchia da lavare.



:: Il capolavoro


Gravity
[Watermelon 1992]

1. Paradise //2. Broken Bottle //3. One More Time // 4. By Eleven //5. Bury Me //6. Five Hearts Breaking //7. Oxford //8. Last To Know //9. She Doesn't Live Here Anymore //10. Pyramid Of Tears //11. Gravity/Falling Down Again


Probabilmente se fosse stato il primo disco di un vero esordiente, avrebbe subito suscitato il canonico coro di saluto al nuovo genio di stagione da parte di tutti, ma Gravity era solo il disco che non ti aspetti dalla persona che non ti aspetti. Nel 1992 Escovedo era un ricordo di pochi, un eroe mancato che tale sarebbe potuto rimanere se nei bar di Austin il nostro non avesse incontrato il chitarrista Turner Stephen Bruton, l'uomo che trovò alle canzoni del ragazzo il suono e i musicisti giusti. I brani nascevano dalla tremenda esperienza della morte della moglie nel 1990 (raccontata con struggimento al limite del sostenibile in She Doesn't Live Here Anymore), quindi intrise di una devastante tristezza, evidente fin dai primi versi di Paradise ("Hai preso l'invito? Ci sarà una pubblica impiccagione, e i corpi oscilleranno l'uno contro l'altro…"), che aprono in maniera ben poco accomodante il disco. Un pessimismo totale che veniva riconfermato subito nella splendida ballata Broken Bottle o nelle attese tradite di By Eleven, mentre Bury Me stendeva un testamento personale tarato sulle diverse possibili date della propria morte, un testo che non concede davvero nulla ai concetti di salvezza e redenzione, e dove la vita eterna negli ultimi versi viene vista come un posto dove "troverò me stesso ma sarà sempre freddo dentro". La via di uscita, se esiste, la si può trovare solo nelle rassicuranti parole di Hope ("speranza"), la protagonista dell'epica Five Hearts Breaking, che tenendo le mani di un uomo distrutto, gli sussurra "believe, everything will be alright". Nella malinconica Last To Know Escovedo ironizza anche sulla vita da artista squattrinato con lo slogan "more miles than money" che darà anche il titolo al suo album live qualche anno dopo. La visione nera dell'esistenza trova la sua apoteosi nei sette minuti finali di Gravity/Falling Down Again, elenco degli inutili tentativi di un innamorato di farsi notare da una donna che invece ne straccia le lettere d'amore e, come se non bastasse, si getta alle spalle i pezzetti come gesto scaramantico per evitare la scalogna di cui l'uomo sarebbe portatore. Con questa insostenibile immagine di completo rifiuto e totale annichilimento umano si chiude un album nero fin dalla foto di copertina, in cui Alejandro sembra proprio vicino a prorompere in un pianto liberatorio. Ma a liberarlo sarà la musica di Gravity, un mix emozionante di musica texana, roots-rock anni 80, rock and roll da bar-band di Austin (evidente nelle travolgenti One More Time e Oxford), il tutto filtrato da uno stile vocale unico e senza riferimenti precisi, forse il vero capolavoro di questo disco.

:: Dischi essenziali


Thirteen Years
[Watermelon 1994]

Nel 1989, dopo aver sciolto i True Believers, e prima di passare un paio di anni di inattività, Escovedo imbastì una vera propria orchestra con cui tentò (troppo presto) di sperimentare l'utilizzo di strumenti classici su un tessuto musicale roots-rock. L'idea, già ripresa in alcuni momenti di Gravity, trovò il suo completo sviluppo nel secondo album Thirteen Years, sempre prodotto da Stephen Bruton, ma registrato con l'ausilio di una sezione d'archi. Inutile dire che quando uscì venne speso da più parti il paragone con The Lonesome Jubilee di John Mellencamp, ma forse solo la straordinaria The End doveva qualcosa ai violini del "piccolo bastardo". Il resto invece presentava un modo davvero nuovo di arrangiare brani di pura Austin-music, con un continuo impasto di archi ipnotici e mai mielosi, uniti al modo di cantare indolente e declamatorio di Alejandro. Ne venne fuori un album difficile, a suo modo estremo nel presentare una serie di brani emotivamente massacranti come Thirteen Years, Way It Goes o Tell Me Why, legati da intrecci di archi che certamente suonavano poco familiari al pubblico rock. Non mancavano le variazioni sul tema, il chitarrista Charlie Sexton aiutò Losing Your Touch e Mountain Of Mud a ritrovare lo spirito della strada, mentre Helpless sperimentava una strada jazzy che rimarrà comunque un caso isolato. L'album divise parecchio la critica, tra chi lo riteneva un capolavoro di straordinaria emotività, e chi invece ci vide uno snervante e autocompiaciuto crogiolarsi nel dolore. Thirteen Years, nonostante i suoi difetti e la presenza di alcuni episodi insoluti del suo songbook, rimane invece un disco seminale per la creazione di un sound unico, una versione intimista e crepuscolare del nuovo rock rurale inventato da Mellencamp qualche anno prima.


With These Hands
[Rykodisc, 1996]

Il sottotitolo del terzo disco sarebbe potuto essere tranquillamente "back home". Esauriti gli esperimenti estremi di roots barocco di Thirteen Years, e raccontato il raccontabile della sua anima a pezzi, Escovedo piazzò idealmente i microfoni nella piazza di Austin e lasciò che la città cantasse per lui tutta la propria poesia. Ne risultò quello che è indubbiamente il suo capolavoro stilistico, forse meno importante di Gravity come scrittura, ma sicuramente più maturo e arrivato come realizzazione. With These Hands chiudeva alla grande il trittico di produzioni di Stephen Bruton, mischiando rock and roll da quarta pinta di birra (Guilty) alle saghe familiari mariachi (Nickel and a Spoon, nobilitata dalla partecipazione di Willie Nelson), anarchie velvetiane (Tugboat) con cavalcate da frontiera (With These Hands, con una orgia di percussioni suonate dai fratelli, nipotina Sheila compresa), zoppicanti funky rurali rallentati (Slip) con distorti blues del sud (Little Bottles). Una conferma anche i testi, sempre in bilico tra pessimismo emozionale (Sometimes), rapporti amorosi incomunicanti (Pissed Off 2 am) o immagini in pericoloso equilibrio tra il macabro e il poetico, come la bizzarra richiesta di essere smembrato della propria vecchia pelle stanca per rivestirci il corpo innocente di un bambino e vederla così riprendere vita (Tired Skin). Solo Put Your Down apriva il disco con una insolita dichiarazione di voglia di vita e di ottimismo, a giustificare un disco dove per la prima volta le storie non erano tutte in prima persona, ma emergeva la voglia di raccontare altri mondi e di fare semplicemente ottima musica. Il tour che seguì l'album fu uno dei momenti più felici e alti della sua vita artistica, ma la malasorte era di nuovo dietro l'angolo…


A Man Under the Influence
[Bloodshot, 2001]

Il quarto disco di Escovedo fu inevitabilmente il disco di assestamento, il viaggio in quota dopo il decollo, ma non per questo fu meno determinante. Innanzitutto la produzione non era più nelle mani di Bruton, ma dell' ex dB's e Golden Palominos Chris Stamey, un veterano che operò sull'album un'opera di "de-texanizzazione", in favore di un sound che faceva tesoro dell'esplosione dell'alt-country e che (guardacaso) non era poi molto lontano da quello che il nuovo enfant-prodige Ryan Adams andava proponendo in quell'anno con grande clamore. Alejandro era ormai un autore di primo livello, e poteva anche permettersi di aprire un disco con un estremo saluto come Wave senza scadere nel patetico. I toni dell'album recuperavano il malinconico pessimismo di Gravity, ma canzoni formalmente perfette come Rosalie e soprattutto Rhapsody, con le loro perfette impalcature country-rock, erano la miglior dichiarazione di sopraggiunta maturità. Anche gli episodi più rock come Castanets, un brano che i Rolling Stones devono essersi dimenticati di registrare, e la toccante Velvet Guitar, brano che descrive le sue difficoltà a suonare con le dita intorpidite dalla malattia, dimostravano come il tocco d'autore ormai fosse evidente anche nel caso di strutture melodiche classiche e rodate, apparentemente banali. I brani che sapevano di abbandono e solitudine, come As I Fall o Follow You Down, continuavano ad essere il momento centrale della sua opera, ma A Man Under The Influence rimane forse il disco dove il senso di perdita delle proprie forze fisiche meglio viene esorcizzato da una musica vibrante e per nulla ammorbante.


Real Animal
[Back Porch 2008]



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Sta tutto nel pensare che sei diventato grande, e poi accorgerti che non è vero". E' con questa frase che Joe R.Lansdale chiude la serie di lezioni di vita imparate dal giovane Stanley nel romanzo La Sottile Linea Scura: passiamo la vita a impegnarci a crescere, ma a maturità raggiunta ci accorgiamo che le cose a cui teniamo di più sono ancora quelle che hanno caratterizzato la nostra infanzia. E' questo il vero senso di Real Animal, nuova fatica di Alejandro Escovedo, uno che ha avuto una lunga gestazione come musicista e un' età artisticamente adulta raggiunta a quarant'anni suonati. E ora che ne ha 57, invece di dare un senso alla svolta stilistica solo abbozzata da The Boxing Mirror, lui realizza un'operazione che sa di pura nostalgia. Il glam-rock, i Velvet Underground, gli Stooges e il primo punk californiano degli anni 70: erano questi i giocattolini con cui è cresciuto, e sono questi i miti rincorsi da Real Animal, fin dalla scelta di far produrre tutto a Tony Visconti, l'uomo che si inventò David Bowie e Marc Bolan. E questi balocchi del giovane Alejandro tornano tutti, sotto forma di racconti da mitologia rock (Chelsea Hotel '78, Escovedo era realmente presente quando in una stanza ci morì Sid Vicious), di dediche dirette agli idoli (Real As An Animal, vera e propria glorificazione di Iggy Pop) o ad amicizie perdute (lo scoppiettante inizio di Always a Friend), oltre ad alcune evidenti citazioni (Sensitive Boys si adagia sullo stesso tappeto di Coney Island Baby di Lou Reed, Smoke era già da qualche parte anche nei dischi dei Mott The Hoople). E come tutti questi poster attaccati alla parete del giovane Alejandro siano riaffiorati nel corso degli anni, ce lo racconta lui stesso, ricordando la sua prima punk band (Nuns Song), l'incontro con i Rank And File (Chip N'Tony, dedicata ai fratelli Kinman), e la scoperta del roots-rock che scorre nelle vene di People (We're Gonna Live So Long). Il tocco di classe arriva con Golden Bear, brano emozionante che non solo sfrutta ritmo e tema di Ashes to Ashes di Bowie, ma pone un ideale parallelo tra il Major Tom drogato e ormai alla deriva nello spazio, raccontato in quel sequel della vicenda di Space Oddity, e la storia della propria invalidante malattia, con un tragico interrogativo posto alla fine di ogni verso: perché proprio a me?. Escovedo racconta tutto senza mitizzare o eccedere in facili romanticismi, non sembra aver nulla di cui vantarsi, se non l'essere sopravvissuto a tutto ciò (come realizza nelle conclusive Swallows Of San Juan e Slow Down). Ma il vero miracolo lo ha fatto realizzando un disco musicalmente attualissimo pur partendo da una voglia di revival, cucendo come un patchwork i suoi proverbiali archi con le cattivissime chitarre dell'amico Chuck Prophet (co-autore di tutto il disco), bravo a travestirsi da Mick Ronson o da Ron Asheton senza perdere personalità. Ci aspettavamo un disco implorante compassione, ci ritroviamo invece con un esplosione di grinta degna di un ventenne. Come quelli di una volta naturalmente…




:: Il resto


The Boxing Mirror
[Back Porch, 2006]

Se il valore di un disco dipendesse dalla sua capacità di tradurre in suoni gli stati d'animo di un artista, The Boxing Mirror sarebbe uno dei più grandi capolavori della storia. Escovedo lo registra nel pieno delle sofferenze per una malattia invalidante, e il risultato è un disco che trasuda tutto il dolore e l'incomunicabilità di un uomo ferito. The Boxing Mirror abbandonò la provincia e recuperò il suono urbano dei Velvet Underground fin dalla scelta di far produrre il tutto a John Cale, tentando di tracciare un coraggioso trait d'union tra tutte le anime della sua carriera, sovrapponendo archi alle chitarre punk, atmosfere dark alle ariose romanze, brani tesi a strani esperimenti proto-pop come Take Your Place. E' la sua opera più drammaticamente confusionaria, per alcuni (tra i quali lo stesso Escovedo) il suo capolavoro, per altri il suo errore incomprensibile, per noi un disco troppo pregno di umori e significati per riuscire a scorrere nella giusta maniera, che andava forse strizzato come una spugna e reso meno rococò nella sua maniacale cura dei particolari. Anche se brani come Arizona o Dear Head On The Wall, che aprono l'album con grande convinzione, danno l'idea che possa solo trattarsi dell' inizio di una nuova grande stagione…ma questa è una storia ancora da raccontare.


Buick MacKane
The Pawn Shop Years
[Rykodisc, 1997]

Nel 1991 Escovedo incontra ad Austin il chitarrista Joe Eddy Hines, il bassista David Fairchild e il batterista Glenn Benavides, e con loro forma il gruppo dei Buick Mackane, band che prendeva il nome da un vecchio successo dei T-Rex di Marc Bolan. L' intenzione era di sperimentare una nuova forma di roots-punk che molto deve agli Stooges di Iggy Pop, ma l'inaspettato gradimento riscosso dal suo primo album solista fece naufragare il tutto. Nel 1997 però, dovendo ancora un titolo alla Rykodisc per chiudere il contratto prima di passare alla Bloodshot, Alejandro recuperò i vecchi compagni e registrò The Pawn Shop Years, vale a dire quello che sarebbe dovuto essere il loro primo album del 1992. Dalla già ipotizzata scaletta originale venne sostituta solo la prevista cover dei T-Rex (nel frattempo era già stata rifatta dai Guns N' Roses di The Spaghetti's Incident), con quella Loose degli Stooges che Escovedo proponeva già da tempo nei suoi concerti. Alcuni brani come The End, Say Goodnight o Falling Down Again, già pubblicati nei dischi di Alejandro, venivano riproposti nella loro veste più selvaggia, insieme ad un pugno di canzoni scritte con la band, con episodi anche notevoli come Big Shoe Head o travolgenti punkish-song come Edith, Queen Anne o Wandering Eye. La presenza di un brano con un lungo titolo, la cui traduzione suona più o meno come "John Conquest, tu hai abbastanza forfora sul tuo colletto da guarnire una cotoletta", rende bene l'idea della voglia di recuperare lo spirito goliardico degli anni di gioventù. La forza delle chitarre acide, mista alla presenza di un artista maturo e ormai in grado di non far degenare la festa, fanno di The Pawn Shop Years uno dei più godibili diversivi della carriera di Alejandro.



More Miles Than Money: Live 1994-1996 [Bloodshot, 1998]

Bourbonitis Blues [Bloodshot, 1999]

By the Hand of the Father [Texas Music Group 2002]

La discografia di Escovedo è stata fino ad oggi molto lineare. A corollario dei cinque album ufficiali, sono solo tre i progetti "a latere" che rappresentano inevitabilmente il corpus only for fans dell'autore. Il live More Miles Than Money: Live 1994-1996 è per la verità un disco significativo per capire la straordinaria resa on stage della formazione con archi portata in tour in quegli anni. Purtroppo il documento è inevitabilmente monco per la decisione di fare un album singolo di soli dieci brani, ma le versioni di I Wanna Be Your Dog degli Stooges e di Street Hassle di Lou Reed (in fondo il brano che più ha ispirato la creazione della sua orchestra) valgono il prezzo del biglietto. Anche Bourbonitis Blues (1999) rappresenta un po' un'occasione mancata: classica raccolta di inediti e b-sides, il disco sembra essere troppo breve per non dare l'impressione che nel cassetto ci fosse ancora parecchio materiale da rispolverare. Anche qui particolarmente curiose le cover di Ian Hunter, Jeffrey Lee Pierce, e come al solito Velvet Underground e John Cale. Più importante invece By the Hand of the Father (2002), colonna sonora di uno spettacolo teatrale che è stato anche rappresentato nel corso del 2000 con buon successo di critica. Composto di brani vecchi presentati in nuova veste (con anche recuperi dell'epoca dei True Believers), e qualche nuovo brano in puro stile tex-mex scritto appositamente per il progetto, l'opera rappresentava la quasi autobiografica epopea di immigrati di una famiglia messicana in America, a cavallo tra il diciannovesimo e ventesimo secolo. Disco di grande valore storico e progetto molto sentito dall'autore, By The Hand Of The Father rappresenta anche idealmente la conclusione del primo ciclo della carriera solista di Alejandro, con un omaggio alle proprie radici che appariva terapeutico quanto doveroso, prima di voltare pagina.


The Nuns
Nuns (PoshBoy, 1980)


Il percorso musicale di Escovedo prima del suo esordio del 1992 è rintracciabile reperendo tre titoli. Per documentarsi sui Nuns bisognerebbe aver la fortuna di trovare la raccolta di singoli The Nuns del 1980 (ristampa in cd uscita solo nel 2005 ad opera della Get Back, piccola etichetta di solito specializzata in vinili), ed è abbastanza facile immaginare lo stile "pre-punk inglese/post-Stooges/NewWave-like" della band. Le "suorine", forti di una cantante in stile Debbie Harry dopo una nottata di bagordi, lasciarono solo piccoli semi del grande albero del punk californiano, scena che anticiparono senza comunque esserne pienamente protagoniste, causa le mille vicissitudini dei propri componenti (solo più tardi iniziarono una regolare produzione discografica che li vede oggi ancora attivi, ovviamente senza l'apporto di Escovedo).

Rank & File
Sundown (Slash, 1982)



Importantissima invece l'avventura con i Rank & File dei fratelli Chip e Tony Kinman (che provenivano a loro volta dai Dils, una hardcore-band di Los Angeles). All'album Sundown viene generalmente attribuito il merito di aver generato il "cowpunk", calderone terminologico con cui si etichettò l'evidente interesse per le radici rurali di molti ex punk rocker in cerca di nuovi approdi stilistici, o certe accelerazioni e asprezze di nuove roots-band come i Jason & the Scorchers. Escovedo partecipò al progetto nelle vesti di chitarrista e si calò davvero perfettamente nello spirito di ricerca di melodie da cowboy-song, regolato da uno piglio punk che rimaneva tale solo sulla carta e negli intenti, visto che il disco rimane un'opera seminale del roots-rock in senso classico, e conserva davvero poco di tutta l'anarchia sonora degli anni 70. I Rank & File rappresentarono però una palestra di stile fondamentale per Alejandro, che co-firmava un solo brano, e offriva la propria voce per i cori, rimanendo comunque in disparte in quella che era a tutti gli effetti una creatura che non gli apparteneva. Ma anche l'essere dove stava succedendo qualcosa di veramente importante era già un segnale importante.

The True Believers
The True Believers (EMI America 1986)
Hard Road (Rykodisk 1994)


Ultimo acquisto consigliato è quello di Hard Road, cd edito nel 1994, che comprende il primo album dei True Believers del 1986 unitamente al loro "lost-album", un secondo capitolo finanziato dalla Emi e mai pubblicato dalla Sony, che nel frattempo aveva acquisito la storica label inglese cambiandone radicalmente l'indirizzo artistico. I True Believers erano un operazione fuori dal tempo, un combo che, forte dell'esempio della scena del Paisley Undergound, integrò il revival del sixties-sound con dosi massicce di rock sudista, evidente fin dalla struttura skynyrdiana a "wall of guitars", con 3 chitarristi solisti che si alternavano alla voce (oltre a Jon Dee Graham e Alejandro, si aggiungeva anche Javier, altro rampollo di casa Escovedo). I loro concerti erano già pura mitologia locale quando la EMI li mise sotto contratto e gli lasciò carta bianca per la registrazione del primo album. A produrlo venne riesumato un dimenticato session-man degli anni 70, un Jim Dickinson che cominciò proprio da qui una fortunata ed encomiabile carriera di produttore. Mito vuole che la pre-produzione dell'album venne fatta sul taxi che accompagnò Dickinson dall'aeroporto allo studio di registrazione, realtà vuole che True Believers rimanga ancora oggi un godibile disco di roots-rock elettrico, con i pregi e i difetti delle sonorità degli anni 80. Javier Escovedo vestiva ancora i panni di leader ed era di fatto il firmatario di uno dei pezzi forti dell'album, quella So Blue (About You) che Graham farà poi reincidere nel 1993 al Calvin Russell di Dream of a Dog. Alejandro rimaneva ancora piuttosto nell'ombra, ma riuscì comunque a far passare una delle sue prime significative composizioni (The Rain Won't Help You When It's Over), e mise l'evidente zampino nella decisione di rifare Train Round The Bend dei suoi miti Velvet Underground. Notevole a posteriori anche il secondo disco, forte di suoni meno attempati e di chitarre lasciate ancor più libere di sovrastare il tutto. Un disco che, se pubblicato per tempo nel 1988, avrebbe evitato di dover aspettare gli anni 90 per scoprire un "manico" come Jon Dee Graham, e, soprattutto, un Alejandro già capace di anticipare i "suoi" tempi con un brano straordinario come Outside Your Door.


:: Riepilogo (discografia)

The Nuns
Nuns (PoshBoy, 1980) - raccolta di singoli

Rank & File
Sundown (Slash, 1982) 8,5

The True Believers
The True Believers (EMI,America 1986) 8
Hard Road (Rykodisk 1994) - raccolta del primo album più il secondo rimasto inedito

Buick Mackane
The Pawn Shop Years (Rykodisc, 1997) 7

Alejandro Escovedo
Gravity (Watermelon 1992) 9
Thirteen Years (Watermelon 1994) 8
The End/Losing Your Touch (Watermelon 1994) ep
With These Hands (Rykodisc, 1996) 9
More Miles Than Money: Live 1994-1996 (Bloodshot, 1998) 7,5
Bourbonitis Blues (Bloodshot, 1999) 6,5
A Man Under the Influence (Bloodshot, 2001) 8,5
By the Hand of the Father (Texas Music Group 2002) 7
The Boxing Mirror (Back Porch, 2006) 7
Real Animal
(Back Porch, 2008) 8,5
Street Songs Of Love (Fantasy, 2010) 8

mercoledì 1 settembre 2010

THE SLUMMERS - Love of the Amateur


Forse Antonio Gramentieri ancora non se ne rende conto, ma quello che è successo in questo Love Of The Amateur potrebbe anche essere qualcosa di epocale per noi italiani, anche se temo che saranno in pochi a saperlo. Gli Slummers, nome che potrebbe dirvi nulla se non vi prendete la briga di leggerne i componenti, sono infatti uno dei rarissimi casi in cui un italiano produce e insegna a creare sound ad americani ben più facoltosi e famosi di lui. Accade così che grazie a questo disco si riesca finalmente a far ben figurare Dan Stuart, uomo che davvero sembrava diventato incapace di camminare con le proprie gambe nella sua vita post-Green On Red. Neppure professionisti doc o nomi altisonanti del rock come Al Perry o Steve Wynn erano riusciti infatti a riportare il coriaceo Dan a percorrere radici e sperimentazione nello stesso tempo (come accade qui nell'iniziale Rift Valley Evolutionary Blues), a ritrovare le strascicate atmosfere di Scapegoats nella splendida East Broadway, i riff alla This Time Around in Bowery Boy (Gramentieri meets Prophet, e il cerchio si chiude), i blues svaccati alla Too Much Fun di Who Knows?, le trame acide e minacciose del primo Paisley Underground di Bread And Water, e pure una ballatona finale che ricorda tanto il Chuck Prophet moderno (Waiting For You).

Ma gli Slummers hanno anche un altro lato, sempre con una metà italiana importante impersonata dalle preponderanti percussioni di Diego Sapignoli, ma con in più la sorprendente performance di JD Foster, produttore di serie A per i nostri lidi (suoi i suoni di Since di Richard Buckner, Post To Wire e We Used To Think The Freeway Sounded Like A River dei Richmond Fontaine, Garden Ruin dei Calexico, per dirne solo alcuni), voce soffice e paladino dell'aspetto più smussato e melodico del disco in questa occasione. Dalle sue parti passano infatti alcune ballate quasi da West Coast di un tempo (la dolce Finally..., la countreggiante All About You, l'acustica Ironbound, la jazzata Another Manhattan), e sono questi i momenti forse più immediati dell'album, a partire da quella Last One Out che mette tutti tranquilli e rilassati dopo la partenza rauca e oscura affidata al vocione sempre più ruvido di Dan Stuart.

Love Of The Amateur finisce così per avere i pregi e i difetti di tutti i progetti nati dall'unione di anime diverse, dove l'amicizia e la voglia di suonare assieme potrebbe pericolosamente prevalere sulla logica di arrivare ad un prodotto che abbia un senso compiuto, se Gramentieri non avesse tenuto tutto dentro i confini ben precisi dettati dalla sua chitarra (sei corde in cui passano Richards, Grissom, Ribot e tanti altri…). Lui e Sapignoli sono tra i primi italiani che hanno davvero imparato a creare un suono lontano dalla nostra cultura come quello del cosiddetto "roots" americano, e non solo ad inseguirlo come una chimera. Per gli americani questo sarà magari solo un ennesimo buon disco della loro storia, per noi è una grande e sudata prima piccola conquista.
(Nicola Gervasini)

www.myspace.com/theslummers
www.bluerose-records.com

25/06/2010

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...