lunedì 26 agosto 2019

BOB DYLAN


Il documentario Dont Look Back (scritto così, senza apostrofo, forse più per necessità grafiche che per scelta del regista) uscì nel maggio del 1967, in un momento in cui non era chiaro se Bob Dylan fosse ancora vivo. Era sparito dal luglio del 1966, a causa di un mai documentato incidente in moto, ma quel “non guardare indietro” parve a molti una rassicurazione sul fatto che sarebbe presto tornato. Ma ora che, grazie a Martin Scorsese, sappiamo quanto a Bob Dylan piaccia giocare con il suo mito e mostrarci sempre qualcosa che sta a metà tra realtà e finzione, pure Dont Look Back pare un’operazione mistificatoria. Sicuramente l’intento inziale del regista D. A. Pennebaker era quello di ripetere con Dylan quello che gli era riuscito con i coniugi Jacqueline e John F. Kennedy, seguiti fin quasi nell’intimità nel suo film Primary del 1960. Una vera rivoluzione cinematografica la sua, che lanciò la concezione del documentarista come colui che vive accanto al soggetto del suo film in ogni attimo della vita, invece di riprenderlo da lontano con l’occhio dello spettatore. Idea anche qui di successo, perché Dont Look Back è fondamentalmente il film che ha definito l’immagine più classica dell’icona-Dylan. Lo vediamo qui durante la sua prima tournée in terra britannica del 1965, strafottente, polemico, e irrisorio verso i giornalisti inglesi che lo trattavano come un pericoloso anarchico, ma anche sinceramente rispettoso verso i colleghi quando chiede al tastierista Alan Price come mai abbia lasciato gli Animals, o quando fa i complimenti al suo “rivale” inglese Donovan. Oppure eccolo giocoso con gli amici, o ripreso nel pieno della creazione di nuovi brani, e ancora amante sfuggente di una nervosa Joan Baez, e persino piacione con Marianne Faithfull e alcune giovani fan. Tutto un altro Dylan rispetto a quello che abbiamo visto nel recente Rolling Thunder Revue di Martin Scorsese, dove finalmente si scusa con Joan Baez per non averle detto che proprio durante le scene immortalate in Dont Look Back aveva già una relazione con Sara Lownds, che poi sposerà in gran segreto da lei e dal mondo (il gossip-scoop che rivelò le nozze fu opera della giovane giornalista del New York Post Nora Ephron, poi sceneggiatrice del film Harry Ti Presento Sally, storia di un amore/amicizia a più riprese molto simile a quella tra Dylan e la Baez). Una Sara che non appare in Dont Look Back perché raggiunse Bob nella parte finale della tournée, quando la Baez se ne era già andata sbattendo la porta, e che non appare nemmeno nel film di Scorsese perché in piena fase di una rottura che porterà i due al divorzio. Pur di non nominarla, Scorsese, tra le tante “fake news” sparse volontariamente nel suo “documentario”, si è inventato un regista mai esistito (o forse qualcuno di voi ha mai sentito nominare Stefan Van Dorp?), e si è “dimenticato” del film Renaldo e Clara, girato dallo stesso Dylan nel corso della stessa tournée, con Sara protagonista. Dont Look Back invece è rigoroso nel descrivere la realtà vista da Pennabaker, ma è lecito sospettare che l’atteggiamento così sopra le righe del giovane Dylan non fosse altro che una delle sue recite. Autentiche sono comunque le scene on stage del concerto tenuto al Royal Albert Hall, o il videoclip inziale del brano Subterranean Homesick Blues, con l’idea del testo presentato su cartelli in mezzo ad una via di Londra che darà vita a innumerevoli imitazioni e parodie (Andy Warhol lo citò, con sé stesso al posto di Dylan, nel video Misfits dei Curiosity Killed the Cat del 1987). Non il vero Dylan dunque, ma un vero film su Dylan.


lunedì 19 agosto 2019

BILL CALLAHAN

Bill Callahan 
Shepherd in a Sheepskin Vest
[Drag City 
2019]
dragcity.com
 File Under: family man 

di Nicola Gervasini (01/07/2019)

Se non piaceva ai fan il Dylan in versione papà bucolico del periodo a Woodstock (1967-1971 circa), il Lou Reed sposato dei primi anni 80 che cantava le gioie di una casa ben arredata e delle gite in moto alla domenica o la Patti Smith dedita a marito e figlio di Dream Of Life, potrà mai piacere il family-record di un autore che ha passato 25 anni buoni a professare l’arte del self-made record scritto in solitudine (e cantando di solitudine)? Ma prima o poi la vita privata entra sempre nell’opera di un artista, ancor più se sensibile e spesso autobiografico come Bill Callahan.

Dopo la copiosa epopea dietro la sigla Smog e quattro album a proprio nome, Bill si era preso una lunga pausa per dedicare anima e corpo alla famiglia, dopo aver dato alle stampe Dream River nel 2013. Ci sarebbero quindi tutte le premesse per aspettarsi poco fuoco da Shepherd In A Sheepskin Vest, “spataffiata” di 20 canzoni registrate quasi in solitaria (lo aiutano Matt Kinsey alla chitarra, il tuttofare Brian Beattie e Adam Jones alla batteria, con sporadici interventi della lap steel di Gary Newcomb e della voce della moglie Hanly Banks) nel corso di questi anni di ritiro d’amore, eppure qui accade un piccolo miracolo. Shepherd in a Sheepskin Vest infatti conserva tutta la tensione e l’oscuro fascino dei suoi predecessori, ed è significativo che pur essendo quasi un concept sull’amore coniugale e sulle gioie e preoccupazioni della paternità, si concluda con The Beast, un testo in cui Bill si immagina navigatore in partenza per liberare in mare la bestia rinchiusa nel proprio animo, un finale perfettamente in linea con il suo abituale stile lirico, ma che lascia un’ombra inquietante sul disco dopo tanti inni alla nuova vita.

Prima comunque aveva già trovato un perfetto equilibrio tra la sua ispirazione, nata come espressione di solitudine e depressione, e quella sensazione di essere arrivati finalmente a qualcosa di concreto che innegabilmente ti regala la paternità. Siamo dunque lontani dal Nick Cave tutto casa-studio di registrazione che partorì in situazione analoga il doppio Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus, perché là dove Cave operò una normalizzazione e una perfetta quadratura del suo stile (regalando infatti un disco che aveva il paradossale difetto di essere, appunto, troppo perfettino e studiato, come un “buon padre di famiglia” si sente in dovere di essere), qui Callahan dimostra che tra un pannolino e l’altro, il tempo per la scrittura di canzoni ha seguito le sue solite logiche creative.

Cambiano i temi, ma non cambia lo spirito insomma, che anzi riesce in 20 brani a trovare un punto di arrivo al percorso intrapreso a proprio nome nel 2007. Non possiamo parlarvi di tutti i brani, che vanno ascoltati con testi alla mano, ma sicuramente vanno citate Writing (con un testo della serie “va bene il realizzarsi nella famiglia, ma io sono quello che scrivo”) e una lunga serie di liriche che proseguono sull’immagine dell’uomo di mare per descrivere la nuova condizione di padre (Black Dog On The BeachSon Of The SeaTugboats and Tumbleweeds). Ma alla fine, scoprire che è da uno come Callahan che riceviamo una delle più poetiche ed emozionanti wedding-song di sempre (Watch Me Get Married), ci fa rendere conto di quanto sia ancora oggi uno degli autori più importanti della nostra musica.

domenica 4 agosto 2019

STEEL WOODS

The Steel Woods
Old News 
[Woods Music 2019]
thesteelwoods.com

 File Under: Southern Songs about Trump Era
di Nicola Gervasini (21/01/2019)
Le vecchie notizie del titolo del secondo album degli Steel Woods (nel 2017 era uscito Straw in the Wind) non sono tanto quelle della musica proposta (It’s only southern rock, but I like It avrebbe cantato Mick Jagger se fosse nato a Jacksonville), ma quelle di una società americana lacerata dalla presenza di un presidente che non piace a sinistra (ma questo era scontato), come a destra (e qui sta la novità del momento). Risiede in questo messaggio politico di ricerca di una nuova unità nazionale (“Potremmo bruciare tutto sulla TV del nonno, o smettere di puntare il dito e rimboccarci le maniche” cantano nella title-track), simboleggiata dalla Statua della Libertà in copertina, il senso di queste 15 canzoni che devono un qualcosa a tutti, e che a tutti restituiscono sotto forma di alcune significative cover.

Non so se faccia apposta o sia vera natura, ma la voce del leader Wes Bayliss davvero ricorda quella di Gregg Allman (esiste complimento migliore per un southern-singer?), che viene prontamente omaggiato con una Whipping Post che arriva nel finale, quando ormai hanno sparato tutte le proprie cartucce. Che sono fatte di classiche ballate sudiste (Without You), up-tempo vicini al blues (All Of These Years), splendide cavalcate dark puntellate dai violini (Wherever You Are), o echi dei Lynyrd Skynyrd più recenti (Blind Lover). Nulla di rivoluzionario, e tutto già sentito, nei giri come nelle soluzioni melodiche, ma tutto ben (ri)fatto. Funzionano anche le riletture, anche se a fare una versione southern-soul di Changes dei Black Sabbath c’era già arrivato Charles Bradley prima di loro, ma una lacrima scende per gli omaggi a Townes Van Zandt (ripescata addirittura quella The Catfish Song che chiudeva At My Window del 1987) e al chitarrista di Nashville Wayne Mills, (che noi ricordiamo anche al fianco di Jamey Johnson), ucciso da un barista con un colpo di pistola alla testa per una sigaretta fumata in un’area non-fumatori nel 2013 (avete in mente quel discorso sulle armi e la legittima difesa…), e di cui riprendono One of These Days.

E ancora, giusto per chiudere il cerchio sulle evidenti influenze, una band di Nashville non poteva dimenticarsi di infilare un brano di un gigante del country alternativo come Merle Haggard, di cui pescano da un disco degli anni ottanta il brano Are the Good Times Really Over (I Wish a Buck Was Still Silver), mentre il gran finale è affidato a Southern Accents di Tom Petty, dove l’accento del sud - che Tom diceva che i giovani del luogo chiamano patria, ma gli yankees chiamano idiota - è il simbolo di una nazione che non trova pace neanche sul linguaggio da usare. E chissà che le parole che aprono Old News possano invece servire anche a noi italiani, che di certe lacerazioni sociali cominciamo ad esserne esperti: “Puoi odiare tutti gli altri perché ti odiano, quando loro in fondo odiano solo il pensiero che tu stesso li odi, puoi gridare a tutti che sei rosso, bianco o blu, ma io non posso pensare che il pensare stesso sia ormai diventato una vecchia notizia”.

giovedì 1 agosto 2019

BRIAN JONESTOWN MASSACRE

The Brian Jonestown Massacre
The Brian Jonestown Massacre
[
A Recordings/ Goodfellas 2019]
thebrianjonestownmassacre.com
 File Under: In Berlin, by the wall...

di Nicola Gervasini 
(30/04/2019)
Non è facile introdurre qualcuno oggi alla musica dei Brian Jonestown Massacre, band ormai giunta al diciottesimo disco (se non ho sbagliato i conti, naturalmente). La sigla rappresenta ormai di fatto il leader Anton Newcombe, unico sempre presente fin dalle cassette registrate nei primissimi anni 90, con cambi di formazione continui a seconda dell’instabile umore del padrone di casa. Una sorta di vate della psichedelia in ritardo di cinquant'anni, e il nome della band (dedicato a Brian Jones, con riferimento però al massacro di Jonestown del 1978), così come i titoli di alcuni loro album (Who Killed Sgt. Pepper?, Their Satanic Majesties' Second Request, My Bloody Underground) dicono già molto dello spirito che anima la band. La quale, dopo una carriera copiosa in termini di album, sembra essere arrivata a cercare una svolta, direi proprio una ripartenza, simboleggiata dal fatto di non aver dato un titolo al nuovo album come si fa solitamente con gli esordi.

Non so quanto i fan di vecchia data apprezzeranno, Newcombe infatti opera una sorta di normalizzazione del loro sound per affrontare il classico disco all’insegna del “facciamo un riassunto di quello che abbiamo fatto fino ad oggi”, operazione che prima o poi tocca a tutti. Suono grezzo e diretto quello scelto, sempre basato su fidi collaboratori come Joel Gione e il tuttofare Ricky Maymi, unici sopravvissuti al cambio di residenza del padrone di casa, che ormai vive stabilmente a Berlino. Siamo a di fronte ad un album che oggi suona come un vecchio recupero dell’alternative rock dei primi anni 90, con l’up-tempo alt-rock quasi radiofonico Drained ad aprire le danze, prima di una Tombes Oublieèes che potrebbe essere quello che avrebbero fatto i Velvet Underground in era shoegaze, con l’eterea voce di Rike Bienert a giocare a fare una Nico in francese. My Mind Is Filled With Stuff è invece uno strumentale infarcito di organi lisergici e chitarre fuzz che fa capire bene quale sia la roba usata per riempire la mente del titolo, mentre Cannot Be Saved è un indie-rock abbastanza classico e se vogliamo ormai banale, come anche A Word.

Il disco però ha una impennata con la bellissima ballata We Never Had A Chance, ipnotico giro immerso in mille riverberi e archi che dimostra tutta la grande capacità di Newcombe di saper ancora creare momenti evocativi. Le chitarre di Hakon Adalsteninsson dei Third Sound risaltano invece in Too Sad To Tell You, brano che ricorda molto i Dinosaur Jr quando riascoltano per l’ennesima volta un album di Neil Young, mentre più confusa la cavalcata rock di Remeber Me This, che anticipa il gran finale di What Can I Say. 38 minuti di luci e ombre dunque, in un album che ci fa riflettere su come certe canzoni che nei Novanta ci sembravano avanguardistiche, oggi suonino come reazionarie e puramente classic-rock. E un posto nella galleria del rock classico i Brian Jonestown Massacre se lo sono ormai guadagnato, e questo album omonimo, seppur non sarà annoverato tra i loro titoli più imprescindibili, sembra fatto apposta per capitalizzare tanto meritato prestigio.

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...