domenica 31 gennaio 2021

MATT BERNINGER

 

La provincia americana, i National e Matt Berninger.

Sappiamo poco di Cincinnati qui da noi, medio-grande (circa trecentomila abitanti) centro perso nell’Ohio che ha la particolarità di prendere il nome da un console romano (Lucio Quinzio Cincinnato). Soprattutto sappiamo poco della sua scena musicale, sempre un po’ marginale e molto meno raccontata rispetto a quella di altre città statunitensi. I primi nomi veramente storici  arrivano solo negli anni ’90, quando dai locali della città uscirono gli Afghan Whigs o il combo roots degli Over The Rhine. Due band che in un certo senso aiutano a capire da dove arrivi il particolare stile di Matt Berninger, il leader dei National che nella città è nato, ha studiato (graphic design), e tutt’ora ha una delle sue dimore.

Recensione: Matt Berninger - Serpentine Prison

Book’s Record – 2020

I National li ha formati a New York, nella classica storia del ragazzo di una “Small Town” che emigra nella “Big City” in cerca di fortuna, ed è innegabile che nella musica offerta dalla band negli otto album pubblicati fino ad oggi scorra forte il suono della Grande Mela.

Serpentine Prison è l’esordio solista di Matt Berninger

Ma per il suo esordio solista, l’atteso Serpentine Prison, Matt Berninger ha in qualche modo spogliato la sua musica delle polveri della grande città, riportando il tutto in provincia, alla riscoperta dei suoni e dei sapori della America rurale. Non che Serpentine Prison possa essere definito un album interamente legato alle radici tout court, le sue aperture a volte persino ariose e pop lo rendono un disco anche vario nel suo spaziare nei generi più in voga in questi anni, ma il suo spirito sta forse proprio là in mezzo, tra la tradizione rivisitata in chiave alternativa della band di Greg Dulli e la pacatezza sospesa a metà tra country, folk e swing degli Over The Rhine.

I musicisti, le canzoni

Una voglia di andare più sul classico evidenziata fin dalla scelta dei collaboratori, con nientemeno che il divino Booker T Jones alla produzione (e naturalmente alle tastiere), Andrew Bird che incide con il suo violino, la bassista Gail Ann Dorsey che impreziosisce la bella Silver Springs. E comunque praticamente tutti gli stessi National a dare corpo a una serie di brani al solito intimisti e oscuri, come è suo stile.

Non che ci si allontani troppo dal seminato della sua band, ma quello che colpisce è che se la loro ultima fatica I Am Easy To Find si era fatta notare più per la ineccepibile forma che per la potenza dei brani, qui Berninger tira fuori dal cilindro alcune tra le canzoni più forti della sua carriera come One More Second o la stessa title-track, sia dal punto di vista lirico (Take Me Out of Town) che melodico (Distant Axis), e la cornice improntata al “Less is Better” che Booker T Jones gli ha costruito intorno è solo un grande valore aggiunto. Sarà dunque dura non chiedergli anche nei concerti dei National qualcuna di queste canzoni (Loved So Little potrebbe sposarsi bene col loro repertorio), a meno che il successo che questo album merita non sia l’inizio di una nuova e indipendente storia.

giovedì 28 gennaio 2021

GODSPELL TWINS

 

Rock indipendente al tempo del covid: Godspell Twins – Badtism.

La noia del lockdown, quello vero del periodo marzo-maggio di questa infausta era-Covid, ha creato uno strano fenomeno, dove i grandi nomi si sono premurati di rinviare uscite e (ovviamente) tour, mentre la musica indipendente non solo non si è fermata, ma ha trovato la forza di reagire da casa con i concerti streaming, ma anche con le numerose produzioni “homemade” nate proprio in quei giorni.

Godspell Twins – Badtism

Outbreak Arts – 2020

Godspell Twins devono la propria esistenza a questo destino infausto, perché Nick Baracchi e Carlo Lancini, il duo di chitarristi che lo ha creato a distanza, sono da sempre impegnati in progetti diversi. Baracchi ha infatti una sua ormai lunga carriera solista, iniziata nel 2003, oltre che una intensa attività di produttore, mentre Lancini ha al suo attivo due album con i Mojo Filter e tre con la sua band attuale, gli Stone Garden. Badtism è un gioco di parole che abbrevia l’espressione “Bad Time Baptism”, un battesimo tenuto in tempi grami a Bergamo, epicentro dell’epidemia in Italia, e che ha portato un disco di puro rock americano davvero godibile.

Godspell Twins: una vera band per Badtism

Aiutati da Daniele Togni al basso e Jacopo Moriggi alla batteria, i due scoprono subito le carte con il micidiale riff di Callie Crane, ma già l’honky-tonk ballad di This Old Town Will Bring Me Down ci riporta ai Green On Red più rurali, con un bel gioco di voci e la sezione ritmica qui fornita da Joe Barreca e Daniele Negro dei Mandolin’ Brothers. Si torna a macinare polvere e elettricità con Way Down Mississippi, con le tastiere di Filippo Manini e la voce di Elisa Mariani a riempire il suono, e si omaggia subito il padre spirituale dell’album Neil Young, con una versione di Mellow My Mind, soffertissimo brano tratto da Tonight’s The Night, se è possibile ancora più al limite di una vocalità rotta dal dolore dell’originale. Molto bella la ballata One More Day, che apre il cuore per affrontare il delta-blues acustico di Kansas City, in cui fa capolino la chitarra dell’esperto Francesco Piu, e l’invettiva politica di Children Of War, un duetto con il rocker nostrano Luca Milani.

Non mancano le cover

Con What’s Going On si entra in puro mood da gospel in salsa southern rock, giusto preambolo alla seconda cover dell’album, una pigra e acustica Willin’ dei Little Feat, che resta forse il miglior inno da strada che gli anni settanta ci abbiano lasciato. Chiude l’album un altro bel giro di chitarre in Mama’s Truthdegna chiusura di un disco che ovviamente non pretende di riscrivere una storia musicale lontana da noi, ma che proprio artisti come Baracchi e Lancini contribuiscono a tenere viva insieme a tutta una scena di roots-music italiana che ormai da almeno 15-20 anni ha raggiunto l’agognato livello del “suonano proprio come gli americani”

lunedì 25 gennaio 2021

LEMONHEADS

 



 

The Lemonheads
Lovey (30Th Anniversary Edition)
[Fire records 2020]

 Sulla rete: thelemonheads.net

 File Under: X Generation classics

di Nicola Gervasini (29/10/2020)

Una delle cose più difficili per chi è della mia generazione, e ha sentito gli anni 90 come il momento musicale più vivo vissuto in diretta, è cercare di essere obiettivi nell’inquadrare certi eroi di quell’epoca, soprattutto alla luce del fatto che di tanti artisti amati nella prima parte di quel decennio, davvero pochi hanno avuto la capacità di mantenere un livello sempre al di sopra della media anche dopo. E qui l’elenco lo lascio fare a voi, ognuno ha i suoi nomi, ma su una grossa delusione forse saremmo tutti d’accordo, ed è quella di Evan Dando. Per questo ringraziamo la Fire Records per aver deciso di ristampare in occasione del Record-Store Day store del 23 ottobre l’album Lovey dei Lemonheads, perché ogni tanto è bene ricordarci che quell’uomo che ormai da anni tergiversa in dischi di cover e in album di originali discutibili (ma l’ultimo, il comeback omonimo dei Lemonheads, è uscito ormai 14 anni fa…), un tempo aveva molto da dire.

Lovey uscì originariamente nel 1990, era il loro quarto album, ma se si considera che della line-up d’esordio era rimasto ormai il solo bassista Jesse Peretz con Dando (e anche lui mollerà la barca dopo questo disco), può tranquillamente essere considerato un nuovo esordio. E lo era anche da un punto di vista dell’etichetta, visto che era il loro primo disco su major (l’Atlantic) dopo tre album di rauco college-punk circolati comunque con grandi onori nel mondo dell’underground anni Ottanta. E di fatto è l’album in cui Dando trova una perfetta quadra tra il furore figlio del punk californiano dei suoi primi dischi, e quell’amore per i songwriter americani degli anni Settanta che aveva sempre professato (nel precedente Lick comparivano già una Luka di Suzanne Vega e un brano della country-singer Patsy Cline per dire). Questo spiega quindi la presenza di una cover dell’eroe country-rock Gram Parsons (una splendida Brass Buttons), ma soprattutto fa capire come mai la sintesi delle due anime fu una sorta di versione aggiornata del pub-rock che fu di Elvis Costello e Nick Lowe o della lezione dei Big Star.



Lo si chiamava nuovo power-pop ai tempi, e abbracciava la filosofia di un rock nato sì nei bassifondi, ma portato alla luce con melodie accattivanti e volendo anche radiofoniche, e 3-minute songs che badavano ad andare subito al sodo senza perdere troppo tempo in arrangiamenti complessi. Lovey era un album breve, con undici brani in cui solo (The) Door sorpassava abbondantemente i tre minuti e mezzo, ma aveva una intensità davvero invidiabile ancora oggi, e brani come Half the TimeStoveBallaratYear of The CatCome Downstairs Ride with Me sono rimasti comunque dei piccoli classici della loro storia. Nonostante venisse spinto da una major, l’album fallì a vendere tanto, ma era il 1990 e gli USA ancora erano ubriacati dal rock FM e dal fenomeno Guns N’ Roses. Di fatto, quando nel 1992 uscirà It’s a Shame About Ray, il seguito di Lovey, anche loro assaporarono buone vendite e il successo di alcuni fortunati singoli, ma nel 1991 era successo di tutto grazie all’esplosione della scena di Seattle, e il terreno si era fatto fertile anche per la loro proposta musicale.

Lovey
 però resta il disco più amato dai fans, perché alla fine conteneva già tutto, e sintetizzava meglio comunque le loro origini di giovani punkettari. Questa 30Th Anniversary Edition esce sia in formato CD che LP, e al disco originale dovutamente ripulito e rimasterizzato, aggiunge un booklet che ripara alla spartanità dell’edizione CD in circolazione da anni, con foto e contributi, e un mini-live di 8 brani intitolato Live At The Wireless, registrato nel 1991, e che vede in scaletta anche una cover di Nightime dei Big Star.

Disco imprescindibile per capire che quanto è successo negli anni Novanta in fondo scorreva già da tempo nelle vene degli Ottanta, e sia mai che magari a Evan Dando torni un minimo di ispirazione rivedendolo così ben confezionato
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venerdì 22 gennaio 2021

TRIBUTE TO MARC BOLAN

 


Autori Vari

AngelHeaded Hipster
The Songs of Marc Bolan & T. Rex

[BMG 2020]


 File Under: Children of Hal Willner

di Nicola Gervasini (21/09/2020)


Una prima riflessione che si potrebbe fare davanti all’ennesimo torrenziale tribute-album è che questo tipo di prodotto è ormai diventato una consuetudine del mondo rock fin dalla seconda metà degli anni Ottanta, per cui sono quasi 35 anni che il rock celebra sé stesso. Detto così fa sentire vecchi, ed è forse ragionando su questa realtà che AngelHeaded Hipster: The Songs of Marc Bolan & T. Rex è stato pensato e voluto da Hal Willner per un cast che fosse davvero rappresentativo di ogni era passata. Willner, produttore di rara intelligenza e sensibilità, è morto ad aprile, abbattuto dal virus che sta infestando le vite di tutti, ed è forse al suo nome che colleghiamo i più bei dischi a tema mai realizzati, motivo per cui questo album, che celebra la prossima e tardiva entrata nella Rock n Roll Hall Of Fame dei T. Rex, rappresenta il suo botto finale.

Nel quale, durante parecchi anni di registrazioni, ha riunito i fratelli artistici e contemporanei di Marc Bolan (Todd Rundgren e David Johansen ad esempio), i suoi primi figli artistici (Joan Jett, Marc Almond o Nick Cave), i suoi seguaci degli anni ottanta (la rediviva Nena, gli U2 che si fanno accompagnare al piano da Elton John, Perry Farrell dei Jane’s Addiction), e poi oltre, con rappresentanti dal mondo della roots music al femminile (Lucinda Williams, Victoria Williams e Maria McKee) e tanti nomi di questi anni 2000 come gli Elysian Fields o Kesha. Varrebbe la pena parlare di ogni singola versione, o della pletora di ospiti di gran livello che hanno suonato in queste canzoni (citerei Donald Fagen, Marc Ribot, Mike Garson, Bill Frisell, Wayne Kramer e Van Dyke Parks), ma in mancanza di adeguato spazio, soffermiamoci sul chiederci perché nel 2020 si senta ancora la necessità di ricordare al mondo che Marc Bolan non fu quel rockettaro un po’ "cialtrone" di cui ricordo che si raccontava spesso dopo la sua morte, ma un grande anticipatore.

E non solo per i suoi stralunati primissimi album, che fondamentalmente sono stati compresi solo decenni dopo, quando quella musica è divenuta il mainstream del mondo indie, e neppure perché a lui si assegna l’onore di avere inventato il glam-rock anche prima di sua maestà David Bowie, un genere visto ai tempi come una commistione di rock ad alto voltaggio e vestiti di scena giocati sull’ambiguità di genere. Di fatto le canzoni qui presenti, che come potrete immaginare godono di interessanti rivisitazioni, come di occasioni mancate (se non proprio di brutte versioni), suonano moderne e ancora adattabili al nostro tempo. Ed è strano che nonostante i Duran Duran li citassero a spron battuto nei loro anni d’oro (con tanto di cover di Get It On nel side-project dei Power Station con Robert Palmer), Bolan non abbia goduto dello stesso culto di un Jim Morrison e di altri morti eccellenti. E, a ben vedere, sebbene già solo nel 2015 fosse uscito un altro tribute-record (Children Of The Revolution), mancava comunque un’opera che lo omaggiasse doverosamente, al pari dei tanti nomi ormai iper-rivistati e sovra-celebrati.

Non posso dire che il risultato sia ottimale stavolta, forse per la troppa carne al fuoco di diversa provenienza, con oltre cento minuti di musica che mostrano spesso il difetto del compitino frettoloso o dello stravolgimento inopportuno, ma questo ormai vale per tutti questi album, i quali forse ormai stanno esaurendo i nomi da omaggiare, e mi chiedo se tutti gli artisti usciti negli anni 2000, per quanto validi, verranno ugualmente celebrati fra qualche anno. Certo è che se fra trent’anni saremo ancora qui a parlarvi del nuovo tribute-album su Bob Dylan, non potremo contare più sul marchio di garanzia di Hal Willner, ed è questa la vera cosa che fa sentire il rock ancora più vecchio.

 La scaletta e gli interpreti

Children Of The Revolution – Kesha
Cosmic Dancer – Nick Cave
Jeepster – Joan Jett
Scenescof – Devendra Banhart
Life’s A Gas – Lucinda Williams
Solid Gold, Easy Action – Peaches
Dawn Storm – Børns
Hippy Gumbo – Beth Orton
I Love To Boogie – King Khan
Beltane Walk – Gaby Moreno
Bang A Gong (Get It On) – U2 feat. Elton John
Diamond Meadows – John Cameron Mitchell
Ballrooms Of Mars – Emily Haines
Main Man – Father John Misty
Rock On – Perry Farrell
The Street and Babe Shadow – Elysian Fields
The Leopards – Gavin Friday
Metal Guru – Nena
Teenage Dream – Marc Almond
Organ Blues – Helga Davis
Planet Queen – Todd Rundgren
Great Horse – Jessie Harris
Mambo Sun – Sean Lennon and Charlotte Kemp Muhl
Pilgrim’s Tale – Victoria Williams with Julian Lennon
Bang A Gong (Get It On) Reprise – David Johansen
She Was Born To Be My Unicorn / Ride A White Swan – Maria McKee

martedì 19 gennaio 2021

BERT JANSCH

 

 


 

Bert Jansch
Crimson Moon
[Earth Recordings 2020]

 Sulla rete: earthrecordlabel.com

 File Under: father and sons

di Nicola Gervasini (19/10/2020)

Non so quanto possa essere lungimirante dal punto di vista imprenditoriale la politica della Earth Recordings, sotto-etichetta della Fire Records, da qualche tempo impegnata in improbabili ristampe dal punto di vista commerciale di parecchi dischi - anche minori - di Bert Jansch. Di certo se il suo è nome venerato e più che nobile nel mondo musicale inglese, lo si deve ai suoi album degli anni Sessanta e Settanta, e alla partecipazione al progetto dei Pentangle; mi chiedo dunque quale pubblico, oltre ai suoi già fedeli fans, possa essere interessato ad una sua ristampa di un disco del 2000. Ma qui effettivamente si va, con innegabile coraggio, a cercare di riparare ad un grave torto che ha fatto sì che Crimson Moon non diventasse a suo modo un classico.

Quando lo pubblicò, Jansch non era affatto un vecchio residuato da recuperare: nel mondo del folk il suo nome continuava ad essere sempre in alto nei cartelloni, e la sua discografia era regolare, seppur non copiosa, però è ovvio che ormai a seguirlo erano gli appassionati di nicchia. Crimson Moon invece fu una sorta di auto-omaggio creato per ricordare alle band che avevano rianimato la musica inglese nella seconda parte degli anni Novanta quanto la sua lezione in fondo fosse ancora moderna, e che forse qualcuno gli doveva qualcosa. E così per queste registrazioni, accanto a Bert, si sedettero l’ex Smiths Johnny Marr e il chitarrista degli Suede Bernard Butler. Accostamenti apparentemente improbabili, che diedero vita però ad un album davvero straordinario, in cui Marr e Butler mostrarono la propria stoffa adeguandosi ai ritmi del vecchio maestro, che qui proponeva brani scritti di suo pugno come la title-track, Caledonia e Fool's Mate, pezzo cardine del disco, e una serie di interessanti cover come la murder-ballad tradizionale Omie WiseMy Donald, un brano del 1964 dell’oscuro folk-singer Owen Hand, il classico blues Singin The Blues di Guy Mitchell, e soprattutto la bizzarra rilettura di October Song, un brano tratto dall’album d’esordio della Incredibile String Band.

Folk dicevamo, ma con le solite venature jazz e blues che da sempre rappresentano il marchio di fabbrica di Mr Jancsh. Il disco ottenne grandi onori dalla stampa inglese ai tempi, anche grazie ai due ospiti, ma sparì presto dalla circolazione perché fu una delle ultime pubblicazioni dell’etichetta When! prima del fallimento che costrinse quindi Jansch a farlo distribuire dalla Castle, etichetta nota più per le raccolte (le Collector Series) e le ristampe, a sua volta fallita nel 2007. Questo rende questa ristampa preziosa, seppur priva di materiale nuovo a rimpolpare il menu. Jansch comunque visse una stagione di rinnovata notorietà anche al di fuori del recinto del brit-folk e anche i due album successivi vantarono infatti ospiti di richiamo per il mondo dell’underground musicale (Edge of a Dream del 2002 rivedeva la partecipazione di Butler con in più Hope Sandoval, mentre in The Black Swan del 2006 ci saranno Beth Orton e Devendra Banhart).

Crimson Moon racconta però meglio di tutti della maturità di una artista, scomparso poi nel 2011, che ogni chitarrista dovrebbe studiare e fondo ogni volta che imbraccia una chitarra acustica
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sabato 16 gennaio 2021

AN EARLY BIRD


 An Early Bird

Echoes Of Unspoken Words

[Artist First/Mightytunes 2020]

 File Under: echi d'amore

facebook.com/anearlybirdmusic

di Nicola Gervasini

Avevamo già incontrato An Early Bird, nickname di Stefano de Stefano, con il bel disco d'esordio Of Ghosts & Marvels nel 2018, album che confermava la raggiunta maturità della scena indie-folk nostrana, e dopo due anni eccolo con l'atteso seguito, intitolato Echoes Of Unspoken Words. Quasi seguendo un percorso ormai obbligato nel genere (alla Bon Iver, mi viene da dire), per cui dagli scarni suoni acustici di partenza, si passa pian piano ad un folk-pop appoggiato ad eteree tastiere e interventi di elettronica, anche An Early Bird decide di arricchire la sua proposta con nuove sonorità e qualche sperimentazione in più rispetto al rigore mostrato due anni fa. Se l'interlocutorio inizio di Declaration Of Life serve a ribadire l'intenzione di affrontare temi ancora più personali, Talk To Strangers, brano che vede la partecipazione di Old Fashioned Lover Boy, è una dolce ballad finemente arrangiata anche negli impasti vocali, che introduce alla guerra tra cuori descritta da una Racing Hearts, che stilisticamente si colloca ancora negli antichi steccati dell'indie-folk più classico (come anche Fire Escape, “Ryan Adams che prende un caffè con William Fitzsimmons“ secondo la presentazione del suo stesso autore). Il disco si mantiene quindi sui toni sussurrati della sua voce (che spesso sembra quasi essere femminile) e su atmosfere evocative. One Kiss Broke The Promise parte infatti come una piano-ballad poi contrappuntata da una drum machine, State of Play simula con i synth un dialogo tra chitarra acustica e sezione d’archi, mentre The Magic Of Things ha una cadenza più da brit-pop. Registrato con l’aiuto di Lucantonio Fusaro, Claudio Piperissa e Luca Ferrari, l’album è sicuramente molto curato e complesso, e raramente si lavora di sottrazione come nell’acustica Stay, mentre molta attenzione è stata messa nei testi, attente e sofferte riflessioni sulla natura dell’amore, a volte prigione più o meno volontaria (The Prisoner), a volte luogo dove l’istinto e la passione non possono rispondere alle normali regole etiche del giusto e dello sbagliato (Mermaid Song). Disco molto interessante, che conferma la crescita di un autore italiano tranquillamente esportabile nel mondo.

lunedì 11 gennaio 2021

TREES

 


Trees

Trees (50Th Anniversary edition)
[Earth Recordings 2020]

 Sulla rete: earthrecordlabel.com

 File Under: brit-folk cult records

di Nicola Gervasini (20/11/2020)

Esiste il successo di vendite, ed esiste il diventare un cosiddetto “cult-record”, e spesso le due cose non vanno di pari passo. Anzi, nella mente del fan accanito, sovente il primo aspetto esclude il secondo a priori. Ma è innegabile che a rivalutare la storia della musica a distanza di anni, ci si rende conto di come la tradizionale narrazione della stessa sia stata figlia di tanti elementi che con l’opera c’entrano poco, tra cui anche la reperibilità di un titolo. Se un disco come On The Shore degli inglesi Trees è diventato il classico titolo da citare nei social quando si parla di “dischi dimenticati da recuperare” solo negli anni 2000, è frutto non solo del fatto che molta della musica del nuovo millennio parte proprio da queste sonorità, ma anche dal fatto che molte etichette hanno trovato solo in questi anni finalmente conveniente ristampare e riscoprire artisti che per almeno trent’anni erano rimasti relegati ad un passaparola tra pochi (è il caso Vashti Bunyan, Bill Fay, Linda Perhacs e tanti altri).

On The Shore
, per esempio, album del 1971, è stato ristampato in cd nel 1993, ma a parte una edizione giapponese nel 2001, si è dovuto aspettare il 2007 per una nuova e più reperibile ristampa, voluta dalla Sony, che aveva evidentemente subodorato l’”hype” di cui il disco godeva. Il suo fratello, The Garden Of Jane Delawney, album licenziato dalla band nel 1970, ha dovuto attendere il 2008, ristampato solo per sfruttare le soddisfacenti vendite della riedizione dell’altro disco. Oggi è la Earth Recordings a decidere di pubblicare un bel cofanetto di 4 cd/lp per celebrare i 50 anni dal primo album, che intende dare la parola definitiva sulla storia di questo fugace e sfortunato gruppo dell’era del brit-folk.

Ma andiamo con ordine: i Trees nacquero nel 1969 in una Londra presa da piena Fairport Convention-mania, e alla loro formula si rifacevano la voce di Celia Humphris, le chitarre di Barry Clarke e David Costa, e la sezione ritmica di Bias Boshel (anche autore di tutti i brani originali) e Unwin Brown. Il primo disco, The Garden of Jane Delawney, arrivò nell’aprile del 1970 lasciando ben pochi ricordi di sé, se non una cover della title-track registrata dalla chanteuse Françoise Hardy nel suo album If You Listen del 1972, replicata poi nel 1988 dagli All About Eve (ma relegata al rango di b-side). Eppure, fin dal lungo e continuo assolo di elettrica che sostiene in maniera del tutto non tradizionale Nothing Special, c’era da capire che, se il cantato della Humphris rimaneva nei ranghi senza poter competere in personalità con Sandy Danny o Jacqui McShee dei Pentangle, la sei corde di Clarke rappresentava invece una novità molto significativa, in quanto non suonava come un chitarrista di classico folk acustico che si era inventato un modo di suonarlo anche elettrico (come fece, con immenso merito, Richard Thompson), ma di un vero e proprio chitarrista rock, con tanto di riff alla Chuck Berry piazzati a commento di nenie da puro folk britannico. Per il resto il disco indulgeva molto su una serie di traditional già parecchio rivistati (She Move Through The Fair su tutte), ma anche qui il trattamento fatto a The Great Silkie per esempio, (standard proposto anche da Joan Baez sul suo secondo album del 1961), partiva in maniera quasi scolastica, per esplodere in una jam di chitarre acide degna dei Quicksilver Messenger Service, con un gran lavoro in pura salsa psichedelica del basso di Boshel. Memorabili restano comunque la sognante title-track, e la lunga Lady Margaret, con la sua ennesima cavalcata di chitarre quasi da West Coast nel mezzo.



On The Shore uscì a gennaio del 1971, sempre prodotto dall’esperto Tony Cox, e caratterizzato da un’iconica copertina che ritraeva la figlia di Tony Meehan, batterista degli Shadows. Era in verità il classico colpo finale di una formazione già in odore di scioglimento, un disco registrato in fretta, e pure con una certa confusione. Teoricamente un disco molto meno curato del precedente, ma probabilmente fu proprio quell’atmosfera un po’ decadente che lo pervade a decretarne maggior fortuna postuma. La formula comunque non cambiava, con più brani tradizionali (Soldier Three, Little Sadie, Polly on The Shore, la notissima Geordie), rese con una semplicità che quasi invade il campo degli Steeleye Span, e solo due originali come la tesa Murdoch. L’epicentro del disco sono i dieci e minuti e passa di Sally Free And Easy, una cover della folker Cyril Tawney (ne esistono parecchie versioni, dai Pentangle a Marianne Faithfull, e pure Bob Dylan la registrò per The Times They’re A-Changing, escludendola però), con il piano suonato da Bias Boshell in grande evidenza, e la solita propensione alla jam con chitarre in libertà. Quello che cambia leggermente è il tipo di assoli, molto meno lunghi e leggermente più fedeli al genere brit-folk (quello lungo di Streets of Derry si avvicina di più alla lezione di Richard Thompson), anche se Clarke si concede una esibizione al limite dell’ hard rock in While the Iron is Hot.




L’edizione per i 50 anni aggiunge due dischi con un mix di versioni demo, originali remixati, qualche esibizione recuperata dai tour o prestata alla BBC. Tutto materiale filologicamente interessante, anche se non aggiunge poi molto a quanto espresso già dai due album ufficiali, ma che rende giustizia alla band con una registrazione pulita e precisa. La storia dei Trees finì subito dopo, con una breve edizione ricreata nel 1972 per un tour, e con Costa e Boshell che nel 2008, in seguito alle acclamate ristampe, fecero un tour col significativo nome di On The Shore Band. Boschell, vera mente del gruppo, continuò la carriera anche in band blasonate come i Barclay James Harvest e i Moody Blues, mentre Celia Humphris ha continuato la carriera come corista. E se Clarke e Browne hanno abbandonato le scene per fare rispettivamente il gioielliere e il maestro scolastico, David Costa sfruttò le sue capacità grafiche per curare l’artwork degli album Goodbye Yellow Brick Road di Elton John e A Night At The Opera dei Queen, divenendo uno di più ricercati art director del mondo rock (per Elton John ha curato più di una decina di artworks dei suoi album fino al 2006).

Box consigliatissimo, si tratta di dischi senza tempo che suonano ancora moderni, e credo che neanche i Trees stessi avrebbero mai scommesso su questo quando li registrarono
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sabato 9 gennaio 2021

MARY CHAPIN CARPENTER

 


 

 

Mary Chapin Carpenter
The Dirt and the Stars

[Lambent Light/ Goodfellas 2020]

 Sulla rete : marychapincarpenter.com

 File Under: it's ok to be sad


di Nicola Gervasini (07/09/2020)


Abbiamo sempre seguito con interesse la carriera di Mary Chapin Carpenter, ormai una vera veterana della canzone country d’autore americana, arrivata all’esordio nel 1987 con l’album Hometown Girl (dove tra l’altro rifece Dowtown Train di Tom Waits molto prima che Rod Stewart e Bob Seger se la litigassero) in quel periodo d’oro della New Nashville che ci portò anche nomi come Lyle Lovett, Dwight Yoakam e Steve Earle. Ai tempi il suo nome veniva spesso accostato a quello di Lucinda Williams come le più promettenti autrici della nuova scena, e non è un caso che la Carpenter vincerà un Grammy proprio grazie alla cover di Passionate Kisses di Lucinda.

Eppure, le analogie finivano lì, perché le due possono tranquillamente essere prese ad esempio di due modi completamente opposti di intendere l’arte del songwriting al femminile. Laddove Lucinda ama i toni rauchi, i testi diretti e sofferenti, e lascia spesso la polvere della strada depositarsi sui suoni dei suoi album, la Carpenter ama l’eleganza, gli angoli smussati, i suoni soffici, e testi personali sì, ma sempre concilianti anche quando traspare il dolore. Per questo forse la sua storia musicale è molto meno conosciuta da noi, dove il fenotipo della cantante country melodica non ha mai troppo attecchito (penso a quanto è stata poco celebrata nella nostra patria una come Emmylou Harris, anche dalla critica specializzata), eppure la sua discografia è ormai importante (partite dall’accoppiata Come on Come On del 1992 e Stones on The Road del 1994, nel caso). E, soprattutto, ultimamente il sopraggiungere di una certa età (ha passato i sessanta ormai) le sta donando una maggiore sicurezza nei propri mezzi, già presente nei precedenti The Things That We Are Made Of del 2016 e Sometimes Just the Sky del 2018, ma decisamente evidente in questo The Dirt and the Stars, che si candida fin da subito a suo miglior disco degli anni 2000.

E che dimostra quanto ancora conti molto il lato produttivo in un’era di home-made records, visto che se il disco suona davvero bene, sicuramente lo si deve alla produzione di primissimo livello di Ethan Johns, e al fatto che l’album sia stato registrato in Inghilterra negli attrezzatissimi studi della Real World di Peter Gabriel. Segno di un budget alto, che sta a significare che ancora il suo nome qualche cosa conta nelle alte sfere del mondo nashvilliano, uno dei pochi dove l’industria discografica ancora raggiunge ingenti fatturati. Vi consiglio di seguire i brani con i testi perché il viaggio emotivo è di primo livello, poi chi la conosce sa bene che il suo stile predilige le lente ballate intime e adotta raramente grammatiche country classiche, ma qui l’aggiunta è che si concede qualche brano più ruvido in zona Lucinda Williams (American Stooge), e qualche soluzione melodica più indie-like che piacerebbe a Ryan Adams, come All Broken Hearts Break Differently e Asking for a Friend.

In ogni caso il disco mantiene un'intensità fortissima in tutti i brani (particolare menzione per Old D-35), e sebbene sappiamo che sia musica per pochi qui da noi (negli USA lei resta una star), lo consigliamo a tutti.

lunedì 4 gennaio 2021

CHRIS STAPLETON

 



 

Chris Stapleton
Starting Over
[Mercury Nashville/ Universal 2020]

 Sulla rete: chrisstapleton.com

 File Under: Country singers love The Outlaws

di Nicola Gervasini (01/12/2020)


Ammetto che non è mica facile spiegare a qualche scettico o detrattore perché si considera Chris Stapleton un artista importante. Di fatto, nel giro di tre album (se si considerano i due From A Room del 2017 come opera unica), Stapleton si è accaparrato la palma di miglior artista in attività in quella nicchia di country figlio degli “outlaws” (artistici e non di fatto, anche se non sempre) degli anni Settanta, che ancora consideriamo degna di essere seguita. Non che la concorrenza sia stata tanta, considerando che le nostre speranze riposte in Jamey Johnson (autore tra il 2008 e il 2010 di due grandissimi album di genere) si sono perse nella sua inspiegabile assenza, e il seppure meritevole Shooter Jennings si è dimostrato troppo discontinuo. Eppure anche Starting Over continua come i suoi predecessori a non muovere un passo in là oltre la tradizione, nonostante nel frattempo Stapleton come personaggio abbia avuto anche molta visibilità nel mondo del pop (ha collaborato con Justin Timberlake ed Ed Sheeran), e forse è meglio così se ci torna in mente l’irricevibile Sound & Fury licenziato l’anno scorso da uno Sturgill Simpson in vena di spacconate (anche se lui resta comunque il più diretto “concorrente” tra le nuove leve della country-music).

Il punto non è sottolineare quanto nessuna di queste canzoni abbia sapore di originalità o modernità (forse solo la soul ballad Cold che invade addirittura il campo di Michael Kiwanuka o una You Should Probably Leave che fa il verso a Al Green escono dal seminato), o quanto (inutile girarci troppo intorno) Maggie’s Song sia The Weight della Band sotto mentite spoglie, o ancora quanto certe cavalcate southern rock come Hillbilly Blood siano in fondo le stesse che ci offrivano persino i Lynyrd Skynyrd riformati di Johnny Van Zant. Il punto è che in queste 14 canzoni (stavolta non ha diviso in due il disco, preferendo uscire in unica lunga soluzione) soffia qualcosa di sempre pienamente convincente, colpiscono subito il segno, e sarà la sua voce che buca le casse, o la produzione che non concede sbavature di Dave Cobb, nuovo Re Mida della Nashville che piace a noi (nel suo palmares a soli 46 anni ci sono Sturgill Simpson, John Prine, Brandi Carlile, Jason Isbell, ma anche la fortunata soundtrack di A Star IS Born per Lady Gaga), ma qui tutto funziona a dovere.

Stapleton poi ha l’intelligenza di chiamare le persone giuste a collaborare alla scrittura, e così scorrendo i credits rivediamo vecchi nomi cari agli amanti degli outsiders della roots music come lo scomparso Tim Krekel (di cui riadatta Whiskey Sunrise) o l’ex NRBQ Al Anderson (Devil Always Made Me Think Twice), o ancora più spesso il vero motore del disco, il chitarrista degli Heartbreakers Mike Campbell, che qui con il vecchio compare Benmont Tench che si sobbarca tutte le tastiere, dimostra ancora di saper dare vita alla migliore backing-band della musica americana. Bastano loro due, insomma, a tenere alta l’asticella qualitativa di un disco che azzecca anche le cover, ben due prese dal songbook di Guy Clark (Worry B GoneOld Friends) e la sorpresa di Joy of My Life, love-song senza troppe pretese del John Fogerty di Blue Moon Swamp, che Stapleton sa rendere anche migliore dell’originale.

Alla fine, direte voi, ancora non ho spiegato bene perché tutto ciò sia da considerarsi degno della nostra maggiore attenzione, ma vi avevo avvertito all’inizio che non sarebbe stato facile.

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