sabato 30 dicembre 2017

LUKE SITAL-SIGH

Luke Sital-Singh
Time is a Riddle
[
Raygun Records/ Goodfellas 
2017]
lukesitalsingh.com
 File Under: God Is In The House

di Nicola Gervasini (10/11/2017)
Nome difficile da ricordare e anche un po' da pronunciare quello di Luke Sital-Singh, artista venuto alla ribalta nella scena inglese nel 2014 con il disco di esordio The Fire Inside (nulla a che vedere con Bob Seger). Fu una scoperta dei dj della BBC, che mandarono in onda parecchie canzoni del disco e di altri EP precedentemente pubblicati, facendolo diventare un piccolo fenomeno da fruizione online. Lui, un giovane brit-folker innamorato della musica indie anni 2000, ha mantenuto l'umiltà, facendosi le ossa come solitario opening-act per Villagers e Marta Wainwright, e non perdendo lucidità in vista di un secondo album che qualcuno nella terra di Albione definirà "atteso".

Noi lo scopriamo oggi e, sebbene non ci sia da credere che possa essere la "Next Big Thing" della musica britannica (ma poi è ancora possibile averne qualcuna in questo scenario?), segnaliamo l'album Time Is A Riddle come un buon prodotto per quelle giornate autunnali che quest'anno stavano tardando ad arrivare. La title-track ha avuto anche funzione di singolo apripista lo scorso maggio, con anche buoni riscontri. E' una buona gospel-song al piano (il video guarda caso lo riprende in una Cattedrale) che ricorda alquanto il Bill Fay riesumato degli ultimi dischi, ma con una voce che cerca l'estetica vocale di John Grant. L'elemento spirituale e religioso è preponderante nel brano, ma anche in tutti gli altri, a partire dall'iniziale Still, che ha un coretto che in qualche modo ricorda l'appeal radiofonico dei Lumineers di Ho Hey, fino alla bella Oh My God, mid-tempo che occhieggia al cantautorato americano alla Ryan Adams più depresso (o anche al Will Hoge più recente).

La produzione predilige i suoni di piano e tastiere, ma tiene alto anche il volume di una batteria alquanto effettata e rimbombante che dona al tutto quel vago sapore anni 80 che è di moda ora. Il disco infatti non sfugge ad un certo hype del momento (Rough Diamond Falls ricorda - ma in meglio, state tranquilli - una delle hit radiofoniche per ragazzini degli scorsi mesi, Human di Rag'n'Bone Man), ma trova anche momenti assai ispirati e intimi (Until The Night Is Done) da vero cantautore solitario. Il disco ha un passaggio di leggera stanca nella parte centrale con una Nowhere's Home che non lascia il segno e una Cynic per solo voce e tastiere che abbassa un po' la tensione, prima di una Innocence in cui il tasso di Ryan Adams nell'ispirazione va un po' oltre il livello di guardia, ma che si fa comunque apprezzare, se posto sotto la voce "bravi seguaci e allievi". Nel finale si fa notare la pianistica Killing Me in cui risaltano le sue ottime doti vocali, prima di una chiusura ancora in tono religioso con Slow Down.

lunedì 18 dicembre 2017

BRUCE COCKBURN

Bruce Cockburn 
Bone on Bone
[True North/ IRD 
2017]
brucecockburn.com
 File Under: San Francisco Nights 

di Nicola Gervasini (02/10/2017)
Unidici anni fa esatti esordivo sulle pagine di Rootshighway con una tiepida recensione all'album Life Short Call Now di Bruce Cockburn. Unidici anni nella vita di un uomo sono tanti, e se di cose me ne sono successe tante (e giustamente non ve ne frega saperle), non lo stesso potrei dire del vecchio Cockburn, la cui vita artistica da allora è stata caratterizzata da un solo album (Small Source Of Comfort del 2011) e da una pigra attività da vecchio padre della musica folk canadese. Il viaggiatore aveva smesso di viaggiare, e anche un po' di creare. Bone On Bone arriva dunque atteso, ma forse neanche troppo, perché di Cockburn stavamo cominciando ad abituarci a parlare al passato. Ma si sa, i vecchi leoni dormono tanto, poi quando ruggiscono un po' di paura la fanno sempre, soprattutto se, come nel caso di Bruce, la voce comincia ad arrochirsi, tradendo una età ormai over 70, con una mancanza di fiato che si fa sentire.

Ma il grande artista è colui che fa di necessità virtù, per cui Bone On Bone ripresenta una scaletta assolutamente prevedibile, ma riletta con un nuovo modo di cantare. In più, fortunati noi, rispetto ai due precedenti dischi, i brani tornano ad essere di gran spessore. Il menu quindi è il solito, ma di uno dei migliori ristoranti in circolazione. Tra i piatti migliori ci sono il micidiale giro di acustica di The State I'm In, la ballata ispirata di 40 Years In The Wilderness, il talking di 3 Al Purdy's (qui produce Julie Wolf), il cajun/gospel di Stab At Matter, l'immancabile strumentale in fingerpicking della title-track, fino alla consueta concessione alla madrelingua di Mon Chemin. E poi, vista la nuova voce, perché non buttarla un po' sul blues, anche se non è il suo genere. Non che non ne abbia mai fatti in carriera, ma brani come Mama Just Wants to Barrelhouse All Night Long Kit Carson, per citarne alcuni, erano blues-songs adattate alla sua vocalità non certo aggressiva, mentre qui in brani come Cafe Society o nel mezzo spiritual di Jesus Train, Cockburn si cala nel personaggio del vecchio blues-singer con più convinzione.

Produce come al solito Colin Linden, e stavolta al posto del violino che aveva colorato il sound del precedente capitolo, ritroviamo la cornetta di Ron Miles (un protégé di Bill Frisell) a fargli ritrovare quel vago gusto di jazz che insaporiva i suoi dischi degli anni Settanta. Da notare la presenza del nipote John Aaron Cockburn alla fisarmonica, protagonista negli intensi sette minuti di False River. Restano anche le sue caratteristiche note di copertina, con date e luoghi di scrittura dei singoli brani, ma il fatto che indichino per la maggior parte San Francisco, luogo dove ha registrato il disco, mostra quanto il viaggio sia ormai finito, e il disco sia frutto di una full-immersion compositiva di circa due mesi, fatto un tempo insolito per lui.

Sarà vecchio, ma che gli dei ce lo conservino anche così. Anche perché delle mie vicende non ve ne fregherà, ma, per la cronaca, il "vecchio Cockburn" si è risposato nel 2011 e ha avuto una figlia, e con la nuova famiglia ha abbandonato il Canada proprio per la "sunny" California. Che è un altro tipo di viaggio, certo non meno avventuroso.

giovedì 30 novembre 2017

WILLIAM THE CONQUEROR

William the Conqueror
Proud Disturber Of The Peace


[Loose Music / Goodfellas 2017]
williamtheconqueror.net


 File Under: The many faces of Americana

di Nicola Gervasini (26/10/2017)
Per la storia William The Conqueror era Guglielmo il Bastardo, ufficialmente poi Re Guglielmo I re D'Inghilterra nel 1066, primo capostipite di una dinastia, quella dei Normanni, che impera ancora oggi nel Regno Unito. Nome impegnativo quindi da dare ad una band, ma Ruarri Joseph, hipster di Edinburgo, non teme confusioni storiche dal momento che, dopo quattro album da solisti, ha deciso di fondare un trio. Quando esordì nel 2007 (l'album era Tales of Grime and Grit) a sorreggerlo c'era una major come l'Atlantic, dove evidentemente qualche buon marketing manager aveva deciso che i folksinger solitari e barbuti qualcosa ancora riuscivano a vendere tra le ceneri di un mercato discografico sempre più ingovernabile, ma già dal secondo capitolo Both Sides of The Coin per Joseph iniziò la vita delle etichette indipendenti e dell'auto-promozione.

Per capire da quale tradizione venga il suo stile, basta solo dire che nel terzo album (Shoulder to the Wheel del 2010) compariva una cover di Sixto Rodriguez. Proud Disturber of The Peace (bel titolo…) potrebbe essere considerato quindi il suo quinto album, visto che i due partner nell'avventura (Harry Harding e Naomi Holmes), si limitano dare corpo alle sue bizzarre canzoni. Il risultato sa comunque molto più da band che i suoi dischi precedenti, con uno stile che abbraccia tutto quanto di americano si possa rastrellare nella tradizione folk, con quel tocco di follia cantautorale british alla Robyn Hitchcock che non stona. Dopo la sventagliata di acustiche di In My Dreams, è il bel singolo Tend To The Thorns che trova una nuova via di riconciliazione tra l'indie-folk anni 2000 e certo cantautorato post-grunge alla Jeff Buckley e Elliott Smith. Did You Wrong è un numero più classicamente roots-rock, con chitarre elettriche in evidenza (sempre in tema anni 90 torna quasi in mente il purtroppo dimenticato Pete Droge), mentre nell'ottima Pedestals salta fuori il John Mellecamp più folk che è in lui.

Il livello compositivo è alto, anche nei testi, che hanno quel tono introspettivo classico del genere ma con una buona dose d'ironia ad evitare deragliamenti nell'epicità eccessiva di certo immaginario americano. Sunny Is The Style è la ballatona che Ray LaMontagne non riesce a (o non ha più voglia di…) scrivere, e chiude una ipotetica facciata A (la scaletta del cd divide lato a e lato B come un vecchio vinile) per riaprire le danze con la magnifica The Many Faces of A Gold Truth, sorta di funky metropolitano con chitarre e fiati in evidenza che ricorda certi momenti dediti al soul di Jesse Winchester, come anche il folk corale della title-track. Cold Ontario fa sfoggio di un bell'incrocio di cori e piano da barrelhouse, mentre Mind Keep Changing è addirittura un blues vecchia maniera con un gran tiro e crescendo finale. Si chiude con l'acustica e "neilyounghiana" Manawatu un disco davvero sorprendente, non certo per originalità, quanto per freschezza. Scopritelo.

lunedì 6 novembre 2017

NEIL YOUNG

Neil Young 
Hitchhiker
[Reprise records 2017]

neilyoung.com

 File Under: It was a dark and stormy night…

di Nicola Gervasini (21/09/2017)

Se dovessimo dare ascolto alle reazioni degli appassionati ad ogni pubblicazione di archivi perduti, i nostri beniamini rock parrebbero una schiera di folli e sadici autolesionisti, che ha fatto apposta per anni a sbagliare le scalette dei dischi ufficiali per lasciare nei cassetti i veri capolavori. Va bene, il Dylan che elimina Blind Willie McTell poco prima di mandare in stampa Infidels o lo Springsteen che lascia fuori da The River ogni ben di dio sono ancora oggi oggetto di stupore, ma in questo caso la questione è diversa. Per capire il valore storico di Hitchhiker senza lasciarsi andare ad esclamazioni inutili come "ma come ha fatto Neil Young a non pubblicare un simile capolavoro!" bisogna ricordarsi cosa stava succedendo nel 1976, anno in cui un Young tormentato e strafatto di birra e cocaina si chiude di notte in uno studio di registrazione di Malibu per registrare un intero album per chitarra e voce.

Disco che la Reprise scartò immediatamente, considerandolo niente di più che una serie di demo, ma che Neil stesso non spinse più di tanto perché già lanciato in nuovi progetti. Entrambi a ragione, dico provocatoriamente, perché se nel 2017 questo album ci pare un mezzo capolavoro, nel 1976 saremmo stati i primi a considerarlo deludente. Saremmo stati sordi? No, semplicemente in quegli anni ci si aspettava qualcosa di diverso dal rock, e soprattutto il concetto che una canzone possa vivere miglior vita in una versione da demo è qualcosa che anche come pubblico abbiamo maturato più tardi, e precisamente nel 1982 grazie a Nebraska di Springsteen. Tuttavia nel 1982 la situazione era diversa: Nebraska reagiva all'eccessiva muscolarizzazione del suono richiesto dalle radio, per cui quello era il miglior modo di fare un disco "contro" negli anni 80, ma nel 1976 il sound generale era quello giusto anche per Young, e non si sentiva affatto la necessità di tornare all'essenziale.

Insomma, Hitchhiker è un must-have, ed è bellissimo come qualsiasi cosa prodotta da Neil Young prima del 1979, ma meno male che esce oggi, perché allora avrebbe potuto anche affossare la sua carriera molto di più di quanto già rischiò di farlo Time Fades Away, perché probabilmente Neil stavolta non avrebbe avuto neanche i fans più stretti a difenderlo. Di fatto al posto di Hitchhiker pubblicherà tre dischi con buona fortuna commerciale e risultati artistici che raggiungono il suo personale apice con Rust Never Sleeps del 1979. Album che infatti nasce proprio dalle ceneri di questo progetto, con una Pocahontas recuperata in questa versione con qualche opportuna sovra-incisione, una Ride My Llama registrata ex novo e decisamente migliorata rispetto alla versione scarna qui presente, e una Powderfinger che ha poi assunto la fisionomia di quella cavalcata elettrica che Young aveva immaginato nelle mani dei Lynyrd Skynyrd, e che si fa comunque apprezzare anche in questa sofferta versione unplugged.

8/10 di questo materiale era comunque già noto, con la sola Captain Kennedy pubblicata esattamente in questa veste su Hawks And Doves, con una The Old Country Waltz fatta al piano che diventerà uno standard country su American Stars 'n Bars, e una Human Highway che nella versione ufficiale di Comes A Time perderà la giusta tensione di questa versione a favore di un country-sound da programmazione radiofonica di Nashville. Hitchhiker stessa poi è un bel brano che Neil ha saccheggiato e riproposto in varie forme (Like An Inca su Trans, Stringman su Unplugged e infine di nuovo come Hitchhiker su Le Noise), mentre Campaigner la conoscevamo già grazie a Decade (anche se tagliata di una strofa). Piuttosto spiace che si sia persa nei cassetti dell'epoca la bella Give Me Strenght, ma un po' meno si piange per Hawaii, che comunque avrei visto bene in stramba versione elettrica da destinare a Re-Ac-Tor.

In quegli anni Young era al top della creatività e lo dimostrano anche i progetti abortiti, che speriamo di poter continuare a recuperare, ma per una volta dimostriamo un po' di fiducia nella sua capacità di prendere decisioni: se ha tenuto questo album nascosto fino ad oggi, c'è un perché.

lunedì 30 ottobre 2017

NICOLE ATKINS

Nicole Atkins
Goodnight Rhonda Lee


[Single Lock/ Goodfellas 2017]
nicoleatkins.com
 File Under: Vintage lovers

di Nicola Gervasini (12/09/2017)
Esperimento: prendete dieci persone appassionate di musica rock, chiudetele in una stanza con i dischi di Nicole Atkins, e chiedete loro, alla fine di un attento ascolto di tutta la discografia, a quale genere si può far appartenere l'arte della ragazza. Non ne usciranno mai con un termine unico, ve lo anticipo subito, perché la Atkins fa parte di una schiera di cantautrici (il termine vale ancora poi?) di ultima generazione (come anche Wallis Bird o Anna Calvi, giusto per sparare le prime due che mi vengono in mente), che fanno della varietà una virtù. Il percorso della Atkins era già interessante grazie ad album ancora consigliati come Mondo Amore(2011) e il frizzante Slow Phaser del 2014, ma ora con Goodnight Rhonda Lee sembra che questa Jersey Girl voglia dimostrare maturità e piena padronanza di non una, ma tante materie.

Troppe forse dirà qualche detrattore, e soprattutto nessuna veramente originale, ma in pieno 2017, nell'era del post-rock o pre-ancora-non-si-sa-bene-cosa, questo aspetto ha ormai perso da tempo la propria forza di deterrente. La Atkins è una brava artigiana della canzone, le sa scrivere, cantare, arrangiare e suonare, e questo già non è poco. Poi decidete voi quale sia la Atkins che preferite, se quella che gioca a fare la female-crooner di A Little Crazy o la novella Dusty Springfield (o ennesima Joss Stone) del soul di Listen Up, se quella che si ricorda delle sue radici americane nel heartland-rock di Darkness Falls So Quiet o quella tutta gonne svolazzanti anni 50 della title-track, brano che farà invidia ai Mavericks odierni probabilmente. L'andazzo l'avrete capito, si cita parecchio, si rubacchia dal passato, e ci si traveste nel presente da Nancy Sinatra (If I Could sembra uscita dalla penna di Lee Hazlewood), Laura Nyro (Colors) Bonnie Raitt (Brokedown Luck) e così via, dimostrando sempre stile negli arrangiamenti dei fiati (SleepwalkingI Love Living Here), e ottime doti da interprete (A Night Of Serious Drinking).

Finale con una Dream Without Pain che pare un incontro tra la PJ Harvey innamorata di Nick Cave e i Mazzy Star che furono. Peccato che, per quanto lei si impegni, ovviamente non si vola ancora a certe altezze raggiunte da tutte le artiste citate, e qui sta il limite di un album accattivante, che di fatto sta piacendo un po' a tutti, ma che non so quanto reggerà al giudizio del tempo. Lei di suo ci mette dei testi che a dir la verità stridono alquanto col tema leggero e spensierato della musica, e qui forse sta il suo tocco autoriale più apprezzabile, perché se forse Slow Phaser era stato un viaggio decisamente più originale e, non dico proiettato nel futuro, ma perlomeno vagante nell'attuale, Goodnight Rhonda Lee fa parte di quei dischi che, riproducendo il passato, ammettono gioiosamente la sconfitta del presente.

lunedì 23 ottobre 2017

RICHARD THOMPSON

Richard Thompson 
Acoustic Classics II
[Beeswing/ Proper 2017
]
www.richardthompson-music.com
 File Under: Investment for retirement
di Nicola Gervasini (29/08/2017)
Possiamo perdonare al più grande artista espresso dal mondo del brit-folk di fine anni sessanta di monetizzare un po' la sua carriera, in vista di una (speriamo ancora lontanissima) dorata pensione? Sì, dai, perdoniamoglielo a Richard Thompson, uno dei pochi uomini del mondo musicale inglese ad eccellere in ogni campo nel quale si sia cimentato. Chitarrista tecnicamente perfetto, tanto da guadagnare forse più con i tutorial che con i dischi, autore di grandi testi, pieni di ironia, riferimenti storici e sentimenti espressi col cuore in mano e stile letterariamente ineccepibile, e anche produttore dall'orecchio fine per sé stesso e per altri (pensiamo alle splendide collaborazioni con Loudon Wainwright III ad esempio). E infine anche buon cantante, forse il campo dove meno eccelle, ma qui poi si va sul soggettivo se la sua voce, in ogni caso calda e ben usata, sia di vostro gusto o no.

Solo in un campo non è mai stato un big: quello delle vendite. Non ci sono dati precisi sui numeri, ma i suoi dischi appaiono nelle Billboard solo a partire dal 1985, e forse solo Rumor and Sigh del 1991 ha avuto buoni ritorni anche grazie a dei video pro-MTV ben confezionati. I suoi album anni 2000 appaiono sempre nelle classifiche UK, ma sappiamo tutti che questi posizionamenti non si traducono più in buone vendite ormai da anni. Ma un dato è certo: l'album pseudo-antologico Acoustic Classics del 2014 è stato uno dei meglio accolti. Magra consolazione per un artista che non ha mai sbagliato un album di inediti anche negli anni 2000, pur ormai rimanendo nome solo per appassionati e over 40. Per cui concediamogli pure il bis, se anche il suo pubblico si è stancato di aspettare sue nuove canzoni (gli album Electric del 2013 e Still del 2015 continuavano ad offrirne di ottime, sebbene cominciasse ad affiorare qualche primo sintomo di stanchezza) e alla fine si scalda più per una nuova scarna versione di Meet On The Ledge Crazy Man Michael piuttosto che sapere cosa ha ancora da raccontare un vecchio folker di 68 anni in vena di festeggiare cinquant'anni di carriera esatti (registrò il primo album con i Fairport Convention nel 1967 a soli 18 anni).

Lo show di questo secondo capitolo ha le stesse dinamiche del primo: solo voce e chitarra acustica, ma non una chitarra qualsiasi. Eppure ancora una volta più che ai virtuosismi, Thompson sembra interessato a ribadire di essere prima di tutto un autore, ricordandoci episodi appartenenti al mondo Fairport Convention (Genesis Hall), alla carriera con la ex moglie Linda (Jet Plane In A Rocking ChairA Heart Needs A Home) e recuperi da tutti i decenni: anni 80 (She Twists The Knife AgainPharaohDevonside), anni 90 (The Ghost Of You WalksKeep Your DistanceBathsheba SmilesWhy Must I Plead?) e anni 2000 (GethsemaneGuns Are The Tongues). Formalmente ineccepibile anche se si respira aria da adempimento contrattuale (nonostante esca per la sua stessa casa discografica), Acoustic Classics II è solo un modo per ricordare a qualcuno che lui esiste ancora, e che se gente come noi continua a sgolarsi per dire che resta sempre uno dei migliori, un perché ci sarà. E sono queste 14 canzoni, tutti veri classici pur non essendolo mai diventati nel senso economico del termine.

lunedì 16 ottobre 2017

J SINTONI

J. Sintoni Relief
[Good Luck Factory / IRD 2017] 

jsintoni.com
 
File Under: Swamp Blues with Grappa

di Nicola Gervasini (25/08/2017)
Che la storia del blues italiano debba rimanere un fenomeno culturale marginale nell'ambito di una visione ampia e internazionale pare ovvio. Siamo un popolo di fans, imitatori, bravi scolari e (fortunatamente) spesso anche splendidi professionisti, ma si sa che gli originali stanno in un altro mondo e suonano diversamente. Eppure non è difficile tracciare un percorso di storia del blues italiano, che se magari non offre capolavori per le immancabili liste di settore, ma qualche soddisfazione la toglie, e lo sappiamo bene su queste pagine dove non abbiamo mai mancato di seguire la scena. Fin dagli anni settanta di Guido Toffoletti e Tolo Marton, agli ottanta di Paolo Bonfanti, fino ad arrivare alle realtà dei giorni nostri con Francesco Piu e tanti altri.

In questo scenario J Sintoni era ancora un "giovane" in crescendo, e lo avevamo già evidenziato in occasione del suo album A Better Man nel 2012. Allora c'era un bluesman elettrico che seguiva lezioni consolidate, ma in questo Relief troviamo un artista pronto al salto di qualità. La lunga frequentazione con Grayson Capps si sente parecchio, perché qui si naviga nelle paludi torbide dello swamp-blues acustico, fatto di dobro e giri blues immersi nelle muddy waters del Mississippi, con le medesime contaminazioni della roots-music di Austin sentite spesso anche nei dischi di Capps. E liberato dall'obbligo di dover dimostrare la propria bravura in assoli hendrixiani, Sintoni si rilassa e offre il meglio in queste quattrodici ballate acustiche autoprodotte con l'autorevole aiuto di Trina Shoemaker (vinse il Grammy per il lavoro in fase di missaggio delle Globe Sessions di Sheryl Crow, e ha lavorato con Blues Traveler, Emmylou Harris, Nanci Griffith, Queens of The Stone Age e tanti altri). Unici aiuti in studio sono il banjo di Thomas Guiducci, l'armonica di Marco Pandolfi, la voce di Francesca Biondi e le percussioni di Christian Canducci.

Coraggiosa anche la scelta di non affrontare cover ma solo brani originali, con anche buoni risultati in termini di scrittura come la title-track, (brano che davvero fa tornare in mente gli ottimi risultati che Paolo Bonfanti ottenne quando nel 1994, in trasferta ad Austin, registrò il bellissimo The Cardinal Points and Other Short Tales, disco cardine del matrimonio tra blues e roots music in terra nostrana), o quando affronta filastrocche acustiche alla John Prine come Time On Your Side. Parte strumentale perfetta, cantato ancora un po' troppo attento alla forma e non sempre sciolto come quello dell'amico Grayson, ma sono sottigliezze: Relief è un disco che andrebbe acquistato in contemporanea con l'ultimissimo lavoro di George Thorogood (Party Of One), dove il vecchio bluesman americano rilegge vari classici in versione acustica. Serve a capire che, se ridotto all'osso, questo blues suona ancora bene nel Delaware come in Romagna.

giovedì 5 ottobre 2017

MAVIS STAPLES

Mavis Staples I'll Take You There:
An All-Star Concert Celebration 
[Ims-Caroline 2017]
 

livinonahighnote.com

 File Under: Celebration Day

di Nicola Gervasini (30/06/2017)
Probabilmente il rock è diventato "classic" (per non dire vecchio) quando ha cominciato a sentire il bisogno di tributarsi omaggi e celebrazioni. Difficile dire quale sia stato il primo tribute-album della storia, certamente Hal Willner tra gli anni ottanta e novanta tentò di farne una sorta di nobile arte alternativa (e pensare che tutto nacque nel 1981 con un tributo al nostro Nino Rota), ma poi la necessità per ogni artista che si rispetti di riunire esimi colleghi per esaltare la propria arte e storia discografica ha preso il sopravvento, e, in certi casi, anche un po' la mano. Meglio poi se il tributo non esce postumo, ma con l'artista in questione ancora in vita, pronto a fare da padrone di casa in tutti i brani.

E quello dell' All-Star Concert è la forma di tribute-record che ha preso piede negli ultimi anni (vedi anche il recente caso di Dr. John), e non se ne sottrae neanche Mavis Staples. La quale, complice le ottime frequentazioni (da Ry Cooder a Jeff Tweedy), vanta una recente carriera discografica di tutto rispetto, certamente non da pensionamento anticipato, con titoli di gran valore come We'll never Turn Back o One True Vine. Lo schema di I'll Take You There è invece quello del live-show per celebrare i suoi 75 anni, con una serie di ospiti che testimoniano l'avvicinamento tra il suo New Orleans sound e la musica roots americana. Peccato la scelta discografica di fare uscire una edizione cd singola (15 brani) e una deluxe con Dvd e doppio Cd che comprende anche brani in più (tra cui gli interventi di Ryan Bingham, Widespread Panic, Keb Mo' e tanti altri). Nel cd comunque spazio a nomi a noi ben noti come Buddy Miller, una Patty Griffin che addolcisce tutto con Waiting For My Child To Come e Emmylou Harris che coniuga gospel e country-music come solo lei sa fare.

La partenza pare più da domenica mattina in una chiesa di Nashville dunque, ma il proseguo comincia a variare tema con gli interventi della star Michael McDonald e dell'outsider per intenditori Glen Hansard, del prezzemolone Aaron Neville, fino ad una delle ultime performance ufficiali di Gregg Allman (e qui non può non scendere una lacrima). Generalmente si respira una buona aria da grande occasione, e nessuno osa strafare, neanche nella parte finale, quando i sopraggiungono i classici (ma anche una sorprendente versione di Slippery People dei Talking Heads) e Bonnie Raitt o Joan Osborne ne approfittano per una nuova lezione di canto da parte della gran Maestra. Spazio anche per l'intervento di Jeff Tweedy in una sentita You're Not Alonee finale con quella The Weight con cui Mavis e i suoi Staples Singers quarant'anni fa sancirono sul palco del Last Waltz della Band il grande matrimonio tra musica di New Orleans e rock rurale.

Vista la non esagerata differenza di prezzo, si consiglia la versione completa, ma la raccomandazione è di accaparrarsi questo album solo se si possiedono almeno gli ultimi quattro titoli in studio della Staples, dove oltre l'anima che qui viene espressa in gran quantità, troverete anche quel gran cervello che ha saputo aggiornare la gospel-music agli anni 2000.
Tracklist, Deluxe edition:
CD 1
Joan Osborne - You're Driving Me 
Keb' Mo' - Heavy Makes You Happy 
Otis Clay - I Ain't Raisin' No Sand 
Buddy Miller - Woke Up This Morning 
Patty Griffin - Waiting For My Child To Come Home 
Emmylou Harris - Far Celestial Shore 
Michael McDonald - Freedom Highway 
Glen Hansard - People Get Ready 
Mavis & Aaron Neville - Respect Yourself 
Widespread Panic - Hope In A Hopeless World 
Ryan Bingham - If You're Ready (Come Go With Me) 
Grace Potter - Grandma's Hands 
Eric Church - Eyes On The Prize
CD 2
Taj Mahal - Wade In The Water 
Gregg Allman - Have A Little Faith 
Mavis & Bonnie Raitt - Turn Me Around
Gregg Allman, Taj Mahal, Aaron Neville, Bonnie Raitt, & Mavis Staples - Will The Circle Be Unbroken
Mavis, Win Butler & Régine Chassagne - Slippery People 
Mavis & Jeff Tweedy - You Are Not Alone 
Mavis Staples - I'll Take You There 
Mavis & everybody: Encore: The Weight 

lunedì 2 ottobre 2017

KEVIN MORBY

Kevin Morby
City Music
[
Dead Oceans/ Goodfellas 
2017]
kevinmorby.com
 File Under: Walk on the wild side

di Nicola Gervasini (14/06/2017)
Dunque, vediamo: si parte con lugubri tastiere quasi dark/new wave (Come To Me Now), subito poste lì, all'inizio, quasi a far capire con chi abbiamo a che fare, ma curiosamente non più ripetute in tutto l'album. Poi arriva di seguito il brano più facile, una Crybaby che sa tanto del Joseph Arthur che fu, e a questo punto la si butta in ridere con 1234, sorta di folk and roll alla Violent Femmes, con il pensiero ai Ramones e omaggi a People Who Died di Jim Carroll. A questo punto ci si accorge di aver alzato troppo i ritmi e giustamente si rallenta, ma si mantiene il tono ironico con la ballata Aboard My Train che quasi fa tornare alla mente i bei tempi in cui non capivi se Ben Vaughn faceva sul serio o ti stava pigliando in giro.

Ma non è finita: Dry Your Eyes non è il classico di Neil Diamond ma suona quasi come una sua parodia, con parlato suadente e coretti a far da tappeto. Il punto centrale dell'album sono i sei minuti di City Music, rock-song urbana alla Lou Reed /periodo Coney Island Baby, con le chitarre di Meg Duffy in grande evidenza, mentre Tin Can appartiene alla famiglia delle folk-song stralunate alla Robyn Hitchcock. Caught in My Eye ha invece un incedere pigro e una suadente slide per sonnacchiosi pomeriggi a Nashville, Night Time è una indolente ballata notturna che sfrutta un bel recitato nella strofa, Pearly Gates un potente mid-tempo e anche uno dei brani che più strappano applausi, per finire il tutto una triste country-ballad (Downtown Lights). Insomma, come vedete c'è tutto l'ABC, e forse anche l'XYZ, del cantautore moderno nel nuovo album diKevin Morby, nome particolarmente in auge da quando l'anno scorso ha sorpreso tutti (noi compresi) con il suo terzo album Singing Saw.

Ora con questo City Music tenta l'album adulto, retrò-lover e citazionista, e ancorato ad una idea di canzone urbana che continua a guardare agli anni settanta, con in più gli elementi più tipici dell' indie-folk di questi anni 2000, sempre in bilico tra avanguardia a tradizione. Lui stesso dichiara che se Singing Saw era stato registrato con Bob Dylan e Joni Mitchell che stavano a guardarlo fumando una sigaretta, in City Music ci sono invece Lou Reed e Patti Smith che fissano intensamente gli ascoltatori. Sempre con la sigaretta in mano in ogni caso. Il risultato è sicuramente interessante, e pare anche più focalizzato di quello di altri suoi colleghi come Kurt Vile o Sean Rowe, ma forse proprio per questo più convenzionale e inquadrato, privo di quella naivetè che aveva fatto apprezzare il suo precedente sforzo.

Ora sembra solo uno che sa fare "le buone canzoni di una volta", chiudendosi in uno studio con i più fedeli collaboratori (Meg Duffy, Cyrus Gengras e Nick Kinsey), e partorendo idee in puro regime democratico, che è la ragione per cui pare più il prodotto di una band che di un singolo. Promuoviamolo dunque al professionismo, con tutti i pro e i contro di questo fatidico passaggio.

mercoledì 27 settembre 2017

THURSTON MOORE

Thurston Moore
Rock n Roll Consciousness
[
Caroline 
2017]
thurstonmoore.com
 File Under: classic rock

di Nicola Gervasini (14/06/2017)
Yuri Susanna nel 2013 su queste pagine definiva i Sonic Youth come i "Rolling Stones del rock alternativo". Giusta definizione per una intoccabile istituzione del rock sotterraneo che ha scritto tutta la grammatica del genere, comprensiva di melodie eteree alternate ad esplosioni post-punk, o lunghe e ipnotiche improvvisazioni chitarristiche accompagnate da momenti di tradizionale scrittura mainstream. Nel sottobosco di band che dal 1981 ad oggi a loro si sono ispirate, nessuno è mai riuscito a ricreare lo stesso suono, semplicemente perché nel gruppo coabitavano due chitarristi inimitabili come Thurston Moore e Lee Ranaldo, la cui importanza anche in termini di innovazione nella tecnica delle sei corde non sarà mai abbastanza lodata.

A differenza delle pietre rotolanti però i Sonic Youth hanno scelto di saltare tutta la parte finale di revival e di interminabili tour nostalgici a cui erano destinati. Oggi probabilmente riuscirebbero a riempire un palazzetto grazie alle credenziali acquisite nel tempo, mentre ai tempi d'oro giravano per insicuri locali ricavati in scantinati, ma all'indomani del poco considerato The Eternal (2009), loro hanno fatto la stessa scelta dei REM: se i nuovi album non interessano più, meglio lasciar stare. Resta però la domanda fatidica: che fare dopo? Kim Gordon si barcamena tra libri e il nuovo progetto delle Body/Head, Lee Ranaldo ha trovato una sua nuova dimensione nei dischi con i Dust, mentre Thurston Moore sembrava quello più indeciso sul da farsi. E tra l'idea di rilanciarsi come cantautore moderno con l'aiuto di Beck (Demolished Thoughts del 2011) e quella di riciclarsi in una nuova sigla (quella dei Chelsea Light Moving, ingiustamente ignorati nel 2013, e dunque già abbandonati), Moore con Rock n Roll Consciousness segue definitivamente la strada più ovvia: rifare i Sonic Youth.

Cinque brani, durate tra i sei e gli undici minuti, lunghe stordenti improvvisazioni, un sound che è quello di sempre, con veementi sventagliate rock (Turn On) e quel suo solito vezzo di fare brani anche di otto minuti basati sulla strofa e su un unico giro di chitarra ripetuti, senza mai un bridge e o un ritornello (Aphrodite). Un po' come i riff di Keith Richards quindi, marchi di fabbrica iper-collaudati e iper-registrati, solo che forse qui siamo ad un bivio: Moore prima dei suoi compagni sembra voler prender coscienza fin dal titolo che l'avanguardia è stata ormai raggiunta dalle retrovie, che non esiste più nulla a cui essere "alternativi", che persino i suoi lancinanti assoli fatti di rumori, pugni sulla chitarra e distorsioni, oggi suonano come puro classic-rock non di meno di un disco dei Fleetwod Mac.

Resta però il tocco da Maestro, e non è poco, perché alla fine Rock n Roll Consciusness potrebbe anche rischiare di diventare il suo titolo solista più rappresentativo. Perché suona come un Daydream Nation tutto suo, e perché in fondo questo rock è giusto che lo faccia lui che lo sa fare meglio di tutti, e non nuovi artisti senza un vero futuro.

domenica 24 settembre 2017

JEFF TWEEDY

Jeff Tweedy 
Together at Last
[dBpm 2017
]
wilcoworld.net

 File Under: I've Got My Own Album to Do
di Nicola Gervasini (18/07/2017)

Together at Last, insieme finalmente. Sa di liberazione, se non proprio di sassolino da togliere da una scarpa, il titolo di questo album solista di Jeff Tweedy, teoricamente il suo primo se si dà credito al fatto che i Tweedy fossero un duo (con il figlio), e quindi l'album Sukierae del 2014 non fosse un progetto solista. Ma questo disco, fatto di vecchi pezzi sparsi nella carriera dei Wilco (anche se Laminated Cat viene dal side-project dei Loose Fur e Lost Love dal super-gruppo Golden Smog) risuonati solo per voce e chitarra acustica come un folker qualsiasi, lo vede riappropriarsi di qualcosa che evidentemente sente essere suo e di nessun altro. E la cosa non sorprende, perché poi in cuor nostro sappiamo che trattasi solo dell'epilogo di un processo già da tempo in atto.

Come dire che questo è già il suo terzo album solista, perché al citato Sukierae potremmo aggiungerci anche l'ultima creatura a nome Wilco (Schmilco), che aveva tutto meno l'aria di essere un disco di una band. E dire che la forza dei Wilco è sempre stata quello di unire tante personalità di rilievo (Pat Sansone, Nels Cline o John Stirratt non sono certo dei semplici session-men), ma evidentemente Jeff si deve essere stancato. Sarà che l'ultimo prodotto "democratico" (Star Wars del 2015) non aveva esaltato nessuno, tantomeno il padrone di casa, che evidentemente ha sentito il bisogno di ribadire che lui, prima di tutto, è un autore, e non solo il frontman di una band. Il senso di Together At Last è questo, e se da una parte riascoltare veri capolavori di songwriting americano come Via ChicagoMuzzle of Bees o I'm Trying to Break Your Heart non è mai tempo perso, dall'altra spiace però che nella sua foga di dover dimostrare qualcosa a tutti i costi, Jeff abbia sacrificato completamente l'aspetto produttivo dell'operazione.

In altre parole l'album gli sarà pure utile per dare il via ad una fase senile della sua carriera costruita con dischi fatti in casa pensando alle glorie passate (perché questo è il pericolo che si cela dietro una evidente fase calante di ispirazione evidenziata in questi anni dieci), ma ci consegna un prodotto fin troppo scarno, per non dire alquanto piatto. Tweedy è stato in passato capace di essere anche grande interprete, e se proprio voleva riprendersi il maltolto e riportarlo in casa, buona cosa sarebbe stata ridare a questi brani nuova veste. Invece lui li spoglia, gli gratta via la muffa del tempo (che in verità non avevano ancora fatto a tempo ad accumulare), senza accorgersi di scorticare così anche la bellezza degli arrangiamenti delle versioni originali, dimenticandosi oltretutto di ripassarli con una nuova lacca più lucida.

Non si arriva neanche quindi a chiedersi se poi l'operazione abbia senso: prima o poi il disco alla "scusate, ma ora le rifaccio come le avrei volute fare io" lo hanno fatto quasi tutti i grandi del rock, ma qui il rammarico è che Together At Last ci riporta nello stereo delle bellissime canzoni che riascoltiamo però sempre con il pensiero di "bella, ma l'originale era un'altra cosa…"

BILL RYDER-JONES

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