lunedì 31 maggio 2021

ALESSANDRO TOMASELLI

 


Alessandro Tomaselli

Guarda Come Ti Guarda

(2021, XOLA Factory)

File Under: In Berlin

Viene dalla Puglia Alessandro Tomaselli, autore che giunge con Guarda Come Ti Guarda al secondo album dopo l’esordio registrato in solitaria nel 2015 (Dove Andiamo Noi Niente a Che Fare), ed è sicuramente un giovane autore da seguire. I dieci brani che compongo il disco infatti dimostrano la presenza di un preciso progetto artistico e una propria idea di suono da sviluppare, dove il punto di partenza è sempre quell’indie-folk intimo e mai troppo allegro che ha preso piede ormai da anni anche nel nostro paese, ma con qualche interessante variazione sul tema. Il disco infatti è stato registrato principalmente a Berlino, e dei sapori musicali di quella città si nutre, sia per la copertina che è un dettaglio di un’opera esposta nella città (Cut temporare lage egal di Birgit Hölme), sia  in certe aperture strumentali quasi “ambient” (l’iniziale title-track) o in certi tappeti di tastiere (Dadat – che è l’acronimo della frase in ritornello, "Dell’Astronauta, Dell’Acqua Trovata" - o il bel finale di La Plastica, brano a tema ecologico che ospita nel finale il famoso discorso sul tema tenuto nel 1992 da Severn Cullis Suzuki alla Conferenza dell’ONU). Altrove invece resta la sua vocazione alla scarna canzone acustica (Se Bastasse Restare A Galla), ma i brani migliori sono propri quelli dove l’abito da songwriter classico si risolve in arrangiamenti più elaborati (Fai Finta Che). I testi, sospesi tra storie intime e ironia, sono poi spesso giocati sull’alternanza tra italiano e inglese (Blue Jay o About Six Years No Smoking Wow), con l’eccezione della totalmente anglofona Paramount Pix.

lunedì 24 maggio 2021

CASSANDRA JENKINS

 


Cassandra Jenkins - An Overview on Phenomenal Nature
 

Ba Da Bing Records, 2021

La storia triste che si cela dietro questo secondo album della newyorkese Cassandra Jenkins è che la cantautrice sarebbe dovuta partire in tour con i Purple Mountains nel 2019, ma la morte del loro leader David Berman ha sconvolto i suoi piani, ma soprattutto lei stessa, che ha avuto bisogno di un periodo di inattività. E non è stato facile ripartire poi con una pandemia a peggiorare la situazione, e con l’imperativo di dare un seguito al suo esordio ormai datato 2017 (Play Till You Win), e così lei ha scelto la politica dei piccoli passi. Si fa a fatica oggi a capire se un album di 7 brani e poco più di 30 minuti debba essere considerato un album corto (ma in fondo negli anni 60 questa era la normalità in termini di durate) o un EP lungo, ma bando ai discorsi di formato, godetevi questo An Overview on Phenomenal Nature, timido ri-approccio alla vita dopo un periodo critico di una artista da seguire. Voce soffice ed eterea, strumentazioni minimali fatte di loops, tastiere, chitarre acustiche, e l’uso alquanto insolito del suadente sax di Stuart Bogie, questi sono gli elementi principali della sua musica, fin dall’iniziale Michelangelo. Pezzo forte dell’album è il singolo Hard Drive, che inizia con un talking e si sviluppa in un grande brano che sottolinea anche l’importanza dei testi, dove Cassandra ama raccontare tramite nutrite gallerie di personaggi i propri disagi. Solo in Crosshairs, infatti, sembra voler affrontare direttamente il proprio periodo di isolamento dal mondo e dalle amicizie. Non sono da meno comunque gli altri brani, in bilico tra folk (New Bikini) e melodie da colonna sonora cinematografica (Ambiguous Norway con le sue storie di fantasmi nordici, Hailey, e lo strumentale conclusivo The Ramble). Il disco è prodotto da Josh Kauffman, membro dei Muzz e della superband Bonny Light Horseman, ma producer ormai richiestissimo nel mondo dell’indie, che la Jenkins ha conosciuto suonando con Craig Finn nelle sue sortite soliste dagli Hold Steady, autore che con Kauffman ha instaurato un ormai duraturo rapporto artistico. Tra i musicisti coinvolti invece vanno segnalati Ben Seratan, cantautore che l’anno scorso ha ben impressionato con il suo album Youth Pastoral, le percussioni di JT Bates, anche lui autore con già molti titoli all’attivo, e la chitarra di Will Stratton, artista protetto di Sufjan Stevens. Un piccolo incontro tra tanti colleghi conosciuti sui palchi di tanti festival insomma, quasi un piccolo remake nello spirito di quello che fu If I Could Only Remember My Name di David Crosby per la scena West Coast dei primi anni 70, una piacevole e rilassata suonata tra amici del mondo indie newyorkese.

Voto: 7,5

Nicola Gervasini

lunedì 17 maggio 2021

ISRAEL NASH

 


Israel Nash

Topaz

(Israel Nash, 2021)

File Under: Wall of Nash

Dodici anni sono forse pochi per fare resoconti di una carriera, ma Topaz, il sesto album di Israel Nash, sembra già voler suggerire la fine di un percorso che abbiamo seguito fin dal suo esordio del 2009 (New York Town). Quello che ai tempi ci sembrò essere solo un buon clone di Ryan Adams, ci aveva poi ben impressionato con il passo successivo Barn Doors and Concrete Floors del 2011, in cui la produzione dell’ex Sonic Youth Steve Shelley aveva trovato un perfetto equilibrio tra la struttura classica delle sue canzoni e la necessità di dimostrare una personalità propria. Album tra i migliori del decennio scorso per quanto ci riguarda, al quale fece seguito un comunque convincete Israel Nash's Rain Plans nel 2013, in cui prendeva piede una certa voglia di ripercorrere le strade di Neil Young anche nella dilatazione dei tempi. Ma a quel punto Nash deve aver deciso di voler uscire dalla gabbia dell’immagine del cantautore post-classic rock, e così, tagliato anche il secondo cognome usato per firmare i suoi primi lavori (Gripka) quasi a voler ribadire una nuova identità, ha provato a far crescere la propria musica. Israel Nash's Silver Season del 2015 allargava gli orizzonti e i minutaggi strumentali nella direzione di uno rock lisergico che invadeva il campo di Jonathan Wilson o dei Chris Robinson Brotherhood, perdendo di vista però le canzoni, difetto che Lifted del 2018 ha provato a correggere, non trovando però la perfetta quadratura, nonostante gli abbia però portato i primi riconoscimenti anche al di fuori del mondo della roots-music.  Topaz, album che già era stato in parte anticipato da un ep, pare invece ritrovare la strada. Nash non è più il rauco cantautore degli esordi, e permane in  queste canzoni quello stile un po’ “dark” e levigato “alla War On Drugs” che ha fatto da padrone nelle produzioni indie più di successo di questi ultimi anni, ma la svolta arriva dall’inserimento di una sezione fiati nel grande magma strumentale ancora una volta proposto, che fin dalla iniziale Dividing Lines suona non tanto come elemento di continuità con la tradizione, quanto come un puro oggetto di disturbo, se non proprio di rottura. L’effetto all’inizio stordisce, perché le atmosfere da cantautore involuto di Closer o Howling Wind sembrerebbero richiedere essenzialità, e non certo l’effetto maestoso che una sezione fiati inevitabilmente porta ad un arrangiamento, ma questo è proprio quello che rende speciali questo pugno di canzoni. Nash ha prodotto tutto da solo in uno studio di registrazione in casa, in cui ha fatto stare a fatica i tanti musicisti coinvolti a registrare in diretta, con pochissime sovra-registrazioni in post-produzione, e ha fatto davvero le cose per bene, perché brani come Canyonheart, Stay o Southern Coasts non perdono di vista l’importanza della scrittura (i testi sono molto personali e pieni di dolore, anche se non si fa mancare qualche polemica di stampo politico come in Indiana) e della melodia, ma osano qualcosa in più in termini di arrangiamenti, con il risultato di una sorta di wall-of sound sospeso tra rock e gospel (non mancano anche i cori d’altronde…), che è in fondo solo l’estremizzazione di quello che già aveva accennato così brillantemente nel suo secondo album. È probabile che un giorno Nash sentirà nuovamente la necessità di quella semplicità del suo ancora oggi godibilissimo esordio, ma il suo percorso pare voler aggiungere un nuovo elemento ad ogni tappa senza mai voler rinunciare alle precedenti, e Topaz ci sembra essere il capitolo più riuscito di questa escalation verso una sua concezione di “rock totale” che potrebbe anche non essere finita qui.

Nicola Gervasini                              

lunedì 10 maggio 2021

RUBEN MINUTO

 


Ruben Minuto – The Larsen's Sessions - Live in Studio

2021, Delta Promotion

La domanda che ogni musicista si è posto in questo perpetuo lockdown artistico a cui siamo costretti da un anno ormai è stata “che fare intanto?”. C’è chi si è buttato online in una serie continua di streaming per non perdere il contatto anche visivo col proprio pubblico, chi ne ha approfittato per scrivere nuovo materiale, chi purtroppo si è lasciato andare ad una cupa depressione. Oppure chi, come il milanese Ruben Minuto, ha sentito l’urgenza di fare un punto sulla sua carriera, quasi un auto-regalo per i suoi 50 anni, chiudendosi comunque in uno studio di registrazione, quando è stato possibile, per suonare una sorta di Live in Studio alla Neil Young con qualche amico raccolto in tanti anni di musica sui palchi (spiccano le tastiere di Riccardo Maccabruni dei Mandolin Brothers e il gran lavoro del chitarrista Luca Andrea Crippa, oltre alle voci di Sophie Elle e Lucia Lombardo ). Nascono così queste The Larsen’s Session, così chiamate perché registrate nei RecLab di Larsen Premoli, sorta di The Best personale con qualche nuova cover a condire il tutto, che va a rendicontare una carriera arrivata a tre dischi solisti, ma anche tante partecipazioni a band e progetti (tra cui anche una cover-band dei Lynyrd Skynyrd, i Mr. Saturday Night Special). Un modo per conoscere uno dei musicisti di casa nostra più richiesti dagli artisti americani (ad esempio Ashleigh Flynn o Don DiLego) quando vengono dalle nostre parti, per il suo feeling decisamente adatto ad un genere, che bisogna saper maneggiare con cura, come la musica americana. Dieci brani, come al solito sospesi tra blues e ogni tipo di tradizione folk e rock USA, come dimostrano le riletture decisamente vintage-style di Molly & Tenbrooks, uno standard bluegrass reso celebre da Bill Monroe nel 1947 e dagli Stanley Brothers l’anno successivo, o il puro country di Why Should I Be So Lonely?, brano di Jimmie Rodgers che fu anche un cavallo di battaglia di Merle Haggard. Altrove invece si rileggono brani propri come una Be Alive che sa tantissimo di Radio americana FM anni 70, e altri episodi puramente roots-rock come Who Cares o In The Hands of Time, mentre le sue origini blues affiorano prepotenti nella veemente High Heel Shoes o in This Our of the Day e Jimmy Two Steps. Voce fuori dal coro stilistico è una terza cover, proprio quella You’re the One That I Want (scritta da John Farrar, personaggio noto agli amanti della musica garage anni 60 per aver militato in band come i Mustangs, gli Strangers, il trio Marvin, Welch & Farrar e infine nei più noti Shadows), che rappresentava il punto di incontro delle schermaglie amorose tra John Travolta e Olivia Newton-John nel  musical Grease, e che qui, cantata in coppia con la soul-singer americana Jane Jeresa, si trasforma in una curiosa e molto originale ballata suadente e rallentata, che rappresenta la chicca di un album consigliato agli amanti del genere.

 

VOTO: 7

lunedì 3 maggio 2021

LUCA ROVINI

 

         

Luca Rovini & Companeros

L’ora del Vero

[Luca Rovini 2021]

File Under: Aspettandoci a casa

Se l’antica filosofia del “No Surrender” di springsteeniana memoria ha ancora senso di esistere nel 2021, credo che oggi in Italia nessuno più di Luca Rovini la stia impersonificando nella vita come nella musica. Di autori della nostra terra che si sono ispirati ad un certo tipo di rock americano, sia nel suono che nell’etica/epica dell’uomo da strada che non rinuncia al proprio sogno di una Terra Promessa (nonostante le tante bastonate e delusioni date da un mondo che sembra fatto apposta solo per uccidere ogni sogno possibile), ne sono state piene le cronache fin dagli anni 80, e, non ultime, le pagine della nostra webzine, ma alla fine questo indomito pisano, che dal 2013 ad oggi continua imperterrito ad offrire un rock in lingua italiana completamente fuori moda, credo sia l’”eroe” più fresco e ancora combattivo. Otto anni fa, al termine della recensione di Avanzi e Guai, il suo disco di esordio, caldeggiavo una maggiore attenzione alla produzione, e oggi con questo L’Ora del Vero, già il suo sesto disco in poco tempo, direi che il processo di maturazione sia arrivato a velocità di crociera, per quanto ovviamente possibile per una produzione indipendente. Rovini ha suonato tanto e soprattutto ha avuto il merito/fortuna di allestire una band (i Companeros) che ruota intorno ad un pezzo da 90 come Peter Bonta, chitarrista e tuttofare con nobili trascorsi da session man in Usa fin dagli anni 70 (era nei Rosslyn Mountain Boys, e ha suonato tra gli altri con Mary Chapin Carpenter), per cui quella che suona anche in questa nuova fatica è una band rodata e che, come si suol dire, “suona a memoria”, compresa la rocciosa sezione ritmica formata da Emiliano Baldacci e Andrea Pavani. D’altronde il rock di Rovini non cerca di sorprendere nessuno, ama un suono e una filosofia e lo ripropone con fierezza attraverso una serie di canzoni al solito sanguigne e dirette. Al solito il menu prevede canzoni che si lasciano andare all’emotività di un momento (spiccano Dove Brillano le Barche e lo speranzoso finale di Aspettiamoci a Casa), e altre che invece danno voce alla sua vis polemica (Un Altro Inganno e L’Ora del Vero) o all’esibizione della propria etica (Coi Tacchi Sporchi). Non mancano anche questa volta le riletture del suo mondo musicale, guarda caso molto vicino al nostro, e quindi ecco una coraggiosa rilettura in italiano di The Rain Came Down, uno dei migliori brani dello Steve Earle della prima ora, che qui diventa La Pioggia Viene Giù, e una Billy del Bob Dylan di Pat Garrett & Billy The Kid resa con un evidente pensiero alla versione di Willy DeVille. Disco fieramente dedicato al rock americano quindi, con poche variazioni sul tema (il tocco “black” di Quasi Mezzanotte), e un disperato bisogno di riassaporare la polvere della strada, che è l’unico luogo dove queste canzoni andrebbero ascoltate.

 

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

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