lunedì 28 giugno 2021

JULIEN BAKER

 


Julien Baker

Little Oblivions

(2021, Matador)

File Under: Relative Fiction

 

La prima volta che ho sentito Julien Baker era il 2016, era una delle artiste che omaggiava Elliott Smith nel disco tributo Say Yes!, e la sua versione di Ballad of Big Nothing colpiva subito per espressività, pur nella sua semplicità di arrangiamenti. L’anno prima era uscito il suo album di debutto, Sprained Ankle, disco che grazie ad un forte passaparola era diventato uno dei titoli più importanti dell’annata. Complimenti le erano arrivati da mondi di ascoltatori anche molto diversi tra loro, e bene o male il secondo capitolo Turn Out The Lights confermava il suo stile semplice ma intenso, senza troppi orpelli in sede di arrangiamento. Ma Little Oblivions, fin dall’iniziale Hardline, fa capire che è tempo di svolte. La Baker viene da una lunga pausa di riflessione, in cui ha comunque trovato tempo per qualche collaborazione, ma in cui si è anche dovuta riprendere dai guai della depressione, con conseguenti problemi di dipendenza da farmaci. Un elemento importante per capire come mai dallo scarno sound dei suoi primi album, si passa a questo vero e proprio muro di tastiere e chitarre che lascerebbero intendere l’apertura a svariate collaborazioni in studio, se non fosse che invece lei resta l’unica musicista presente, eccezion fatta per qualche intervento (anche strumentale) in post-produzione dell’ingegnere del suono Calvin Lauber. È probabile che la Baker abbia ritenuto queste dodici canzoni fin troppo dolorosamente personali anche solo per condividerle con altre sensibilità musicali, ma è innegabile che il risultato pare ancor più strabiliante se pensato come il risultato del lavoro di una one-woman-band. E forse anche involontariamente il disco ha la struttura di un concept album, che da riflessioni sulle proprie difficoltà a venire a patti con il mondo che la circonda e le proprie debolezze (Heatwave, Relative Fiction), si apre sempre più a riflessioni sul modo in cui la gente si relaziona con chi come lei mostra evidenti difficoltà (Favor, Song of E). Quasi che la Baker abbia voluto farci provare il suo percorso che dal fondo toccato e ben raccontato nella parte centrale dell’album (dalla pessimistica visione dell’amore come possibile ancora di salvezza di Bloodshot ai non troppo velati accenni all’autolesionismo della stessa canzone e di Ringside) abbia comunque voluto chiudere il disco con qualche spiraglio di ottimismo. Unica osservazione che mi permetto di fare è che da un punto di vista stilistico questa nuova veste da pop etereo che abbandona con decisione gli elementi folk (il piano sostituisce la chitarra acustica come elemento base) finisce un po’ per farla confondere con altre artiste contemporanee che si muovono sullo stesso terreno (Angel Olsen, ma anche l’ultima fatica di Laura Veirs è assimilabile per i suoni), ma sono forse sottigliezze che per ora che spariscono davanti ad un disco che mostra come ancora si possa usare la musica come terapia, con la triste constatazione che non siamo ma veramente gli unici a vivere nel dolore (gli ultimi versi del disco sono “Sono rimasta delusa nello scoprire quanto tutti mi assomiglino”).

 

Nicola Gervasini

lunedì 21 giugno 2021

LORETTA LYNN

 


Loretta Lynn – Still Woman Enough

2021, Legacy Records

Ci sarebbe da scrivere un capitolo a parte sulle copertine in stile di quasi tutte le ultime uscite di Loretta Lynn, perlomeno per la splendida di galleria di lunghi abiti che ne verrebbe fuori, ma credo sia giusto ricordare perché questa signora, che l’anno prossimo compirà 90 anni, è, e continua ad essere, uno dei cardini fondamentali della country-music americana. Un genere spesso considerato chiuso in sé stesso, poco conosciuto anche dagli amanti del rock tradizionale, tanto che di lei molti sentirono parlare per la prima volta solo nel 2004, quando l’ex White Stripes Jack White approfittò della sua raggiunta notorietà per riportarla in auge con il bellissimo Van Lear Rose, vero punto di incontro tra nonna e nipote di una tradizione musicale nobile e molto sottovalutata anche in terra nostrana. Stranamente la Lynn non diede seguito a quel riuscito esperimento, ma da qualche anno, nonostante l’età non sia ormai clemente con le sue possibilità di fare concerti (nel 2017 si è rotta l’anca durante una delle sue tradizionali apparizioni al Grand Ole Pry, spettacolo radiofonico live di Nashville che dura fin dal 1925, e ha chiuso l’attività sul palco), ha ripreso una costante attività discografica. Still Woman Enough mantiene lo stesso team produttivo dei precedenti Full Circle (2016) e Wouldn't It Be Great (2018), capitanato da John Carter Cash, il figlio di Johnny Cash e June Carter che porta avanti caparbiamente la tradizioni di famiglia di un country che concilia sempre perfettamente amore per la tradizione e per i “good old times”, come amano chiamarli a Nashville, e per un suono comunque moderno, che ha ancora qualcosa da insegnare a molti giovani, E’ questo il senso anche di questo nuovo album, che sebbene non abbia uno scolaro attento come lo fu Jack White a portare un tocco di contemporaneità, unisce riletture di suoi vecchi cavalli di battaglia come Coal Miner's Daughter, You Ain't Woman Enough (con Tanya Tucker) e One's On The Way (dove l’aiuta Margo Price), standard di genere ormai immortali come I Saw the Light di Hank Williams, e qualche canzone nuova come la title-track (dove intervengono alla voce altre regine della country-music come Reba McEntire e Carrie Underwood) o traditionals del 1800 che fanno parte delle basi di tutta la musica americana come Old Kentucky Home o Keep On the Sunny Side. Insomma, ancora una volta la vecchia maestra sale in cattedra con il suo stile inconfondibile, con i suoi testi che affrontavano con coraggio temi scomodi per il mondo conservatore americano come alcool, droga e violenza domestica, ribadendo quanto questa musica, che molti ancora si ostinano a considerare lontana e diametralmente opposta a quanto espresso dal mondo rock alternativo, sia invece uno degli elementi imprescindibili della formazione di tanti giovani artisti, anche quelli che certo non condividono stile e visioni di vita della Lynn (che è anche un personaggio politicamente molto esposto nelle campagne a favore dei candidati Repubblicani). Still Woman Enough non è forse un disco fondamentale nella sua carriera, ma è un valido riassunto per iniziare a conoscerla.

VOTO: 6,5

Nicola Gervasini

lunedì 14 giugno 2021

DAVID GRISSOM

 


David Grissom

Trio Live 2020

(Wide Lode Records, 2020)

File Under: Guitar Hero

Ammetto che 30 anni fa sognavo una ben differente carriera per David Grissom, chitarrista che mi folgorò nei dischi e sul palco a fianco di Joe Ely, e che nella prima parte degli anni 90 divenne uno dei session-man più richiesti dal mondo del rock americano. A sponsorizzarlo fu John Mellencamp, che sulla sua chitarra poggiò praticamente tutto il suono dell’album Whenever We Wanted del 1991 (e anche dei primi due album di James McMurtry prodotti da Mellencamp stesso), salvo poi pentirsene un poco, viste le vendite insoddisfacenti di un disco troppo grezzamente rock per essere radiofonico (in una intervista dirà senza mezzi termini di considerarlo un errore di percorso). Il progetto degli Storyville era nato proprio per capitalizzare tanta buona reputazione in una band che suonava un roots-soul-rock molto radio-friendly e mainstream, tanto che il secondo album A Piece Of Your Soul del 1996 entrò nella Billboard americana, ma il progetto finì poco dopo. Da allora Grissom vive soprattutto di una caparbia carriera solista, in cui la sua chitarra continua a risultare una vera gioia per le orecchie, ma la sua vocalità, non particolarmente significativa, l’ha via via spostata dal rock di marca texana alla Joe Ely abbracciato nei primi titoli, sempre più verso un blues elettrico potente ma senza troppa originalità. Ho avuto modo di ammirare dal vivo il trio in azione in questo nuovo album in una sfortunatamente troppo piovosa sera di due anni fa, e l’impressione fu che la spettacolarità di vedere quelle dita scivolare con una naturalezza davvero rara sulle corde, non potesse essere facilmente trasferita in un album live di vero interesse. In questo va detto che questo Trio Live 2020 sembra essere una operazione riuscita, vuoi per la sua durata non esagerata che impedisce di arrivare ad annoiarsi, vuoi perché comunque il disco conserva il calore di una serata sul palco del Saxon Pub di Austin, con un pubblico più che partecipe (va notata infatti nei credits la presenza di una “Enthusiasm Coordinator”, e credo che sia la prima volta che vedo ufficializzata la mansione, qui affidata ad Aliya Rosegreen). Resta però il rammarico di vedere un simile talento ridotto a numeri da ordinario chitarrista blues come Lucy G o Crosscut Saw, con Grissom che trova modo di stupire, ma certo senza portare nulla che non avevamo già nella nostra discografia blues. Il che potrebbe non costituire un guaio se siete fan del personaggio, ma resta che senza un frontman che aggiunga voce, canzoni e un minimo di pathos in più, la sua bravura finisce per non risaltare come dovrebbe. Insomma, non è Trio Live 2020 che convincerebbe qualcuno che non lo conoscesse che facciamo bene a conservare di lui un ricordo quasi mitico, ma ancora una volta lo indirizzeremmo all’ormai lontano nel tempo Live At Liberty Lunch di Joe Ely, credo la summa del Grissom-pensiero. In ogni caso anche qui se la cava bene con grande professionalità, come anche i compari Bryan Austin alla batteria e Chris Maresh al basso, sostituito in tre brani proprio da quel Glenn Fukunaga che lo segue dai tempi doro. C’è tanta tecnica e tanto amore per il blues qui dentro, per le emozioni aspetteremo che si trovi un nuovo compagno.

 

Nicola Gervasini

 

 

                                                    

lunedì 7 giugno 2021

GIULIO LAROVERE

 


Giulio Larovere

Road Sweet Home

(Giulio Larovere,2021)

File Under: On The Road Again

L’idea di libertà assoluta che porta un giovane ad alienarsi dal mondo civile non smetterà mai di avere il suo fascino, letterario o cinematografico che sia (pensate al successo di Into The Wild di Sean Penn), ed è proprio su una storia simile, quella dell’americano John Knewock che raccontò il suo viaggio in solitaria per la nazione, che si poggiano i testi di Road Sweet Home, nuovo album del milanese Giulio Larovere. Il titolo parla chiaro sullo spirito che aleggia sul disco, quasi che l’abbracciare poi una grammatica roots-rock americana di stampo decisamente classico sia quasi un naturale “di cui” della motivazione filosofica. Larovere ha scritto questi brani in due notti, registrando i demo sottovoce per non svegliare i vicini. Un amore verso storia di rotture radicali che in fondo trova riscontro anche nella sua vita, visto che a 38 anni ha deciso di abbandonare la vita lavorativa “normale” per perseguire la sua vocazione artistica.  Un’idea forse legata ad ideali letterari del secolo scorso, come anche non certo moderna è stata la scelta di registrare in analogico “come ai vecchi tempi” grazie anche all’aiuto degli esperti Giuliano Dottori e Larsen Premoli, che si è occupato di far suonare organo Hammond e il piano Fender Rhodes come in un vero disco degli anni 70. Retro-mania motivata comunque dallo stile di questi brani, come i singoli Rain e To See A Lonely Hart o la programmatica What’s The Use On Being Free e Rambling Boy, tutte legate da un concept ben preciso legato alle poesie scritte sulla strada da Knewock. A Milano nel 2021 tutto ciò potrebbe sembrare anacronistico e fuori contesto, ma in fondo Road Sweet Home vuole solo ricordarci che là fuori esiste un’alternativa, e che a volte anche solo sognarla può aiutarci a sopportare il nostro scomodo status di persone “civili”

 

BILL RYDER-JONES

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