giovedì 18 marzo 2021

PAOLO BONFANTI

 








Paolo Bonfanti
Elastic Blues
[Rust records 2020]

 Sulla rete: paolobonfanti.it

 File Under: Sixty Years On


di Nicola Gervasini (06/01/2021)


L’autocelebrazione è un’arma a doppio taglio, dove il confine tra il fare, giustamente, i conti e i bilanci con la propria carriera, e il poco senso della giusta statura della propria arte, che sfocia facilmente nel ridicolo, non è mai troppo evidente, ma Paolo Bonfanti non è certo artista che rischia di sbagliare lato della strada. Anzi, sappiamo tutti quanto l’essere etichettato semplicemente come un bluesman italiano gli ha forse impedito di avere un seguito più ampio, in Italia ma anche a livello internazionale, dove i tanti artisti che lo hanno incontrato gli hanno subito riconosciuto la statura dei grandi.

In ogni caso, per i suoi 60 anni, Bonfanti ha voluto fare tutto da solo per confezionarsi la torta, candeline comprese, e ha costruito in piena pandemia questo Elastic Blues, sorta di libro di memorie, sia scritto di suo pugno con l’ironia che da sempre lo contraddistingue, sia suonato con gli amici di una lunga carriera. Il disco dura circa settanta minuti, ed è quello che meglio ci si poteva aspettare, cioè una sorta di condensato di tutto ciò che ha proposto nella sua carriera, dove il blues spesso è più un modo di approcciarsi che non il vero e proprio stile proposto. “Il blues, come l’oro, è duttile e malleabile, come il cervello e la coscienza dovrebbero essere, è elastico” specifica egli stesso nel retro del libro. Lo chiarisce bene il lungo tiratissimo strumentale Alt posto in apertura, che presenta sia la sua più fedele backing band attuale (Nicola Bruno al basso, Alessandro Pelle alla batteria e il fisarmonicista Roberto Bongianino), sia già i primi ospiti (alcuni membri degli Yo Yo Mundi).

Ma altrove, se il blues resta la casa a cui tornare (sia esso acustico come In Love With The Girl o elettrico come We’re Still Around - in cui riunisce la vecchia line-up dei Big Fat Mama - o una classicissima I Can’t Find Myself con Fabio Treves), Bonfanti spazia tra brani in dialetto (Fin De Zugno), cover eseguite con spirito da garage band (Haze, un pezzo di Bob Weir dei Grateful Dead pubblicato nel 1981 con la sigla Bobby & The Midnites), strumentali funky come Unnecessary Activities o A O Canto, dove sono i fiati dei Fratelli Lambretta Ska Jazz o il violino del PFM Lucio Fabbri a dare spettacolo. Da altre parti Paolo si diverte anche con il country di Heartache By Heartache, lascia libera l’elettrica in Don’t Complain, si ferma a riflettere nella dolce ballata acustica Hypnosis, porta i Little Feat in Liguria con Sciorbì/Sciuscià, si lascia andare alle pigre improvvisazioni della title-track.

La bella chiusura di Where Do We Go dice tutto sul clima di incertezza in cui è nato il progetto, prima che la “slight return” di Unnecessary Activities (stavolta cantata) ponga fine ad un disco inevitabilmente vario e poco uniforme, in cui davvero potrete trovare tutto il Bonfanti di questi quasi quarant’anni di carriera, con una confezione lussuosa e piena dei racconti di una vita da musicista.

domenica 14 marzo 2021

EIGHT ROUNDS RAPID

 



Eight Rounds Rapid
Love Your Work
[Tapete records 2020]

 Sulla rete: eightroundsrapid.com

 File Under: Son(gs) of Your Father


di Nicola Gervasini (22/12/2020)


Cantine riadattate a locale, band che suonano al livello di pubblico per mancanza di un palco, fili elettrici ovunque, sedie bandite dalla sala, pubblico pronto a buttarsi nella mischia di un indiavolato pogo. Sono solo alcune delle immagini che mi sono subito venite in mente ascoltando i primi pezzi del disco Love Your Work degli Eight Rounds Rapid, band che viene dall’Essex e giunta al terzo album dopo Lossleader del 2014 e Object D'Art del 2017. Sì, perché il trittico You Wait, Passive Aggressive (e il titolo è già tutto un programma) e Love Don’t fornisce un campionario di chitarre sporche e volutamente mal suonate, ottime per una festa clandestina tra liceali con l’ormone in fiamme, magari da fare nello scantinato insonorizzato con le confezioni di uova mentre mamma al piano di sopra ricama al punto croce la casalinga e rassicurante copertina del disco.

Sono scene forse di un tempo che non torna più, quello di un mondo rock underground di fine anni 70 e alba degli anni 80, ma sicuramente il chitarrista Simon Johnson è cresciuto con quelle immagini nella testa grazie a papà, che altri non è che il mitico e a noi ben noto Wilco Johnson dei Dr. Feelgood, che se li è portati anche in tour come gruppo spalla. E da lì, infatti, parte il loro suono, soprattutto nei primi due dischi o in brani come Letter, mente questo Love Your Work sembra più volersi spostare in territori quasi da energico post-punk, con brani che echeggiano i Gang Of Four (Future Estates) o addirittura i Pere Ubu (Tricks), mentre altrove la loro cultura di pub-rock intrisa di blues li porta a produrre episodi come Eating, blues rauco e alcolico alla Birthday Party o anche alla Jon Spencer Blues Explosion. A rendere il tutto più straniato è decisamente la voce di David Alexander, figlio vocale di John Lydon dei Sex Pistols con il suo modo stridulo e allucinato di recitare, ancor più che cantare, i brani.

Ma se il clima è decisamente retrò, non mancano comunque episodi che conducono più avanti con i riferimenti storici, con una Retro Band che aggiungendo persino un battito elettronico porta subito il tutto nelle cantine degli anni 90, dove magari i Pixies avrebbero trovato modo di mettere nel loro repertorio un brano come Onesie. La sezione ritmica di Jules Cooper al basso e Lee Watkins alla batteria macina battiti e sudore per tutti i 30 minuti (per 12 canzoni) dell’album, che arriva, colpisce forte e finisce quando ancora non ci si è ripresi dal colpo. Come riusciva a fare il rock da combattimento di un tempo, che oggi fatto da questi giovani suona un po’ come fosse musica classica, da eseguire con rispetto e amore come hanno fatto in questo album gli Eight Rounds Rapid.

RYAN ADAMS

 

Ryan Adams
Wednesdays
[PaxAm 2021]

 Sulla rete: ryanadamsofficial.com

 File Under: everyday is like Wednesdays


di Nicola Gervasini (02/01/2021)





Esiste una discussione a livello globale intorno all’uscita di Wednesdays di Ryan Adams che va oltre la questione musicale, e che potrebbe anche non interessarci, se non fosse che questo disco è uscito con parecchi mesi di ritardo, e ciò pesa non poco nel collocarlo nella sua carriera. L‘album, infatti, doveva essere il secondo di un trittico di nuovi lavori che in qualche modo completava un viaggio di ricerca e autoanalisi riguardo il proprio rapporto con la vita e l’amore, che era iniziato con Ashes & Fire del 2011, e che aveva avuto col precedente Prisoners il suo capitolo più sofferto e travagliato (e forse anche il meno riuscito dei suoi anni Dieci). Se poi il 2021 sarà l’anno in cui potremo gustarci la mole di musica prodotta da Adams tra il 2018 e il 2019 forse lo sapremo a marzo, quando Wednesdays vedrà realmente la luce in formato fisco.

Ma se ne parliamo già oggi è perché lo stesso Adams ha probabilmente voluto sondare il terreno prima di tornare in scena, capire le reazioni del pubblico al nuovo disco di un artista coinvolto in vicende che interessano la giustizia e non una rivista musicale, e quindi ha reso disponibile il disco già da dicembre su una piattaforma di streaming. Per cui resteranno delusi quelli che vorrebbero sapere se l’esilio dal palco, forzato dallo “shitstorm” di cui è stato fatto oggetto un anno fa, ha generato una serie di risposte in musica rabbiose o pentite, perché in queste canzoni c’è ancora l’Adams di tre anni fa, quello che non trovava pace tra la sua indole vulcanica e difficile da gestire anche per sé stesso, e una potenza emotiva nell’esprimere il proprio amore non comune. Di certo, ascoltando Wednesdays non si può restare indifferenti all’inizio da K.O. di I'm Sorry and I Love You e Who Is Going to Love Me Now, If Not You, due titoli che già dicono molto della sua maniera tormentata di vivere le relazioni con l’altro sesso, ma che rappresentano anche una nuova conferma del fatto che non esiste nessuno bravo come lui a coniugare tradizione, fruibilità pop e genuina espressione del dolore.

Tre elementi che Adams sa dosare sempre alla perfezione, non arrivando a sembrare mai lamentoso senza essere anche cantabile e immediato, come una canzone di quegli Smiths di cui resta sempre un evidente e dichiarato debitore, e senza perdere di vista il fatto che ha una facilità a scrivere ottimi standard di folk/rock/country (chiamatelo come volete) americano, che pochi possono vantare oggigiorno. Questo sì che ci interessa, registrare come Adams abbia davvero raggiunto l’età della maturità, in cui ha smesso di dover dimostrare a tutti qualcosa, arrivando anche a sbagliare disco, come ha spesso fatto in passato, se è vero che negli ultimi dieci anni l’esperimento di 1989 del 2015 sembra essere stato l’unico colpo di testa, e tra l’altro pure riuscito più che discretamente.

Basterebbero le prime due canzoni per promuovere Wednesdays come il giusto sequel del bellissimo self-titled del 2014, ma anche nel prosieguo dell’album non mancano i momenti significativi come la title-track, BirminghamWalk in the Dark e il toccante finale di Dreaming You Backwards. I brani sono solo 11, mentre quando a inizio 2019 Adams annunciò la trilogia, Wednesdays ne prevedeva 17, il che ci fa pensare che nei prossimi anni, se la valanga di fango (giusta o sbagliata che sia) non lo soffocherà, saremo invasi da una mole di nuove canzoni difficilmente gestibile anche per chi lo segue. Una fatica che affronteremo volentieri, se le premesse sono queste.


venerdì 12 marzo 2021

STEFANO BAROTTI

 





Stefano Barotti

Il grande temporale

[La Stanza Nascosta Records 2020]


 File Under: telefonate da oltreoceano


stefanobarotti.net


di Nicola Gervasini


Ormai una vecchia conoscenza del nostro sito (la prima recensione risale al 2003 per Uomini in Costruzione), Stefano Barotti è un apprezzato cantautore che giunge al quarto album con ambizione di deciso salto di qualità dal già molto interessante Pensieri Verticali del 2015. Il Grande Temporale, infatti, è il frutto di una lunga gestazione che lo ha portato a registrare anche negli Stati Uniti, e il progresso pare evidente, perché in queste undici nuove canzoni spira aria di produzione di primo livello. Ma soprattutto cambia anche l’approccio musicale, che abbandona l’amore incondizionato per il rock americano tradizionale, pur non tradendolo mai, ma si allarga a nuove influenze che spaziano tra il reggae, il blues, qualche timida incursione nell’elettronica e in generale una costruzione delle canzoni più complessa, come dimostrano fin da subito i cambi di tempo della title-track. Il disco, come al solito, è un piccolo campionario di esperienze personali, come la riflessione sulla congenita vita povera del musicista che scopre comunque il piacere di fare l’imbianchino per sopravvivere (Painter Loser), la nostalgia per il calcio di un tempo di Spatola e Spugna (con Jono Manson tra gli ospiti), il pop disincantato di Tra il Cielo e il Prato, i racconti di guerre lontane di Aleppo. Non mancano i momenti di riflessione, come la dolce Stanotte Ho Fatto Un Sogno con i suoi archi o la intima Quando Racconterò, le dediche ai propri miti come Enzo (si parla di Jannacci) o la divertente Mi ha Telefonato Tom Waits. Il disco si chiude emotivamente tra luci (Tutto Nuovo dedicata al figlio) e ombre (Marta, riflessione sulla violenza sulle donne), mettendo in campo un lungo elenco di collaboratori (tra gli italiani si notano le chitarre di Max De Bernardi e Paolo Ercoli o la voce di Veronica Sbergia), ben gestiti dal tastierista e produttore Fabrizio Sisti e dagli altri addetti alla produzione Alessio Bertelli e Vladimiro Carboni. Un bel ritorno in campo di uno dei nostri autori più preziosi.


lunedì 1 marzo 2021

Deadburger

 


Deadburger – La Chiamata

Snowdonia, 2020

Sono passati tanti anni e soprattutto tante scene politiche dai tempi in cui i fiorentini Deadburger esordivano ad Arezzo Wave nel 1996 presentando un brano contro il berlusconismo imperante (Italiano Cyborg). Erano gli anni in cui molte band dell’underground italiano trovavano buoni contratti, passaggi in radio, e (qualcuna) pure un certo successo di vendite, grazie anche al positivo effetto scatenato dal successo dei loro concittadini Litfiba, e anche loro l’anno dopo ottennero un certo riscontro con l’uscita del primo album omonimo.

Ma da allora non è cambiata solo l’Italia, sono cambiati parecchio anche loro, sia nella formazione (oggi basata sul quartetto Vittorio Nistri, Simone Tilli, Alessandro Casini e Carlo Sciannameo), sia nella proposta musicale, che ha trovato nell’etichetta Snowdonia il luogo ideale dove realizzare progetti coraggiosi e innovativi. Già nel 2013 pubblicarono un triplo cd con libro annesso (La Fisica delle Nuvole), disco che portava a termine un lungo percorso creativo che aveva via via abbandonato l’elettronica industriale alla Nine Inch Nails degli esordi, per abbracciare un punk-rock d’avanguardia aperto alle più disparate sperimentazioni, e ci riprovano ora con un progetto ugualmente ambizioso intitolato La Chiamata, ancora una volta accompagnato da un progetto grafico di 68 pagine. Il libro stavolta è una sorta di rivista di moderna antropologia chiamata Poor Robot’s Almanack, pregna di trattati storico-politico-sociologici commentati da immagini e dai disegni di Paolo Bacilieri, già noto per il suo lavoro per la Bonelli (soprattutto per gli albi di Napoleone, ma anche Dampyr e Dylan Dog).

Il nuovo disco è comunque una ideale prosecuzione del precedente, un dittico denominato “MirrorBurger” in cui La Chiamata è l’altra faccia dello specchio di La Fisica delle Nuvole. I 7 lunghi brani presenti sono difficilmente catalogabili come genere, ma quello che rappresenta il fulcro del nuovo progetto è uno studio sui ritmi e le percussioni della storia della musica, che ha portato a coinvolgere nelle sessions ben otto batteristi diversi (che fanno nove con il tamburo a cornice suonato da Alfio Antico), e spesso sovrapposti. Il centro del disco, non a caso, è la cover di un brano del grande batterista jazz Max Roach, Tryptich. L’originale era una sorta di comizio ritmato, declamato dalla moglie Abbey Lincoln, ai tempi cantante e attivista per i diritti civili molto popolare, e pubblicato in un disco dai chiari intenti politici antirazziali come We Insist! del 1960, album che qualcuno considera il seme iniziale del free jazz, mentre la versione qui presente arricchisce il gioco voce-batteria con un tappeto più elaborato grazie ai campionamenti e all’elettronica.

L’album si apre invece tra suoni e tamburi di guerra con un veemente brano alla Pere Ubu come Onoda Hiroo, dedicato al famoso generale giapponese che rifiutò di arrendersi durante la Seconda Guerra Mondiale, combattendo una guerra solitaria nella giungla fino al 1974,e da allora divenuto simbolo di onore e tenacia a tutti i costi contro quelli che nel brano vengono definiti “gli indifferenti rinunciatari con gli sguardi in basso come animali”. Un Incendio Visto da Lontano gioca più su atmosfere dark, con un bel solo di piano di Nistri, mentre la title-track parte rauca come un vero punk-rock, ma si risolve in un avant-jazz definito dai dissonanti sax di Enrico Gabrielli e Edoardo Marraffa. Tamburo Sei Pazzo è una suite con un ‘orgia di percussioni e batterie divisa in 4 parti, mentre chiudono il disco la lunga Manifesto Cannibale, brano tipicamente da rock alternativo italiano che rappresenta una sorta di riassunto spirituale (più nichilista che programmatico) della band (“Deadburger è come i vostri eroi: niente di niente/ è come le vostre speranze, niente/ i vostri paradisi, niente di niente/ la vostra modernità, niente/ l’uomo solo al comando: niente”), un pessimismo piuttosto incattivito che anticipa il finale oscuro di Blu Quasi Trasparente, dove intervengono anche le voci di Lalli e di Cinzia la Fauci dei Maisie.

Il titolo La Chiamata sa di proclama rivoluzionario, un qualcosa che ricorda il “Venite intorno gente” con cui Bob Dylan iniziava l’inno generazionale di The Times They-re a-Changing, eppure se la musica dimostra di credere ancora nell’idea di un progresso e di una avanguardia garantita dalla sperimentazione e dall’apertura mentale, soffia nelle parole del disco e nel suo corposo booklet un’aria di forte disillusione, forse evidenziata da quella citazione posta proprio in apertura, presa dal brano The Age Of Self di Robert Wyatt (“Dicono che la working class è morta, che siamo tutti consumatori adesso. Dicono che siamo andati avanti, e adesso siamo tutti, semplicemente, persone. Ci sono persone che stanno spaventosamente bene ed altre parcheggiate sugli scaffali, ma chi se ne frega del secondo tipo! Questa è l’era del ciascuno-per-sé“). Come a dire che lo sapevamo già nel 1984 (quando uscì il brano) cosa stava succedendo, allora quando è stato che ce lo siamo dimenticati?

 

Nicola Gervasini

 

 

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