venerdì 31 luglio 2020

THE THIRD MIND

L’esordio omonimo dei Third Mind.

Recensione: The Third Mind
Yep Roc Records – 2020
Ci sono tanti modi per un artista in crisi d’ispirazione per tergiversare in attesa di tempi migliori, pubblicando magari una raccolta di successi, un disco di cover (soluzione purtroppo abusata), un disco di riletture aggiornate del proprio repertorio (e ricordo rarissimi casi in cui sia valsa davvero la pena una simile operazione), o il più classico dei live records. Ma il metodo più sano e auspicabile resta sempre quello di organizzare una jam con gli amici e vedere un po’ che succede. A volte ne esce materiale che resta in un cassetto, a volte un delizioso bootleg da regalare ai fans, a volte dischi che riescono ad avere un senso come questo esordio omonimo dei Third Mind.

Un insolito supergroup

Una sigla rubata a William S. Burroughs che non sembra nascere per portare avanti un progetto particolare se non dare il nome ad una serie di piacevoli incontri tra vecchi reduci del rock, organizzati dall’ex Blasters Dave Alvin, ispirato dai racconti letti sulle sessions di Bitches Brew di Miles Davis. Alvin ha coinvolto così l’ottimo chitarrista David Immergluck, session-man di lungo corso sentito anche con i Counting Crows, il bassista dei Cracker Victor Krummenacher, il funambolico batterista Michael Jerome, (per chi scrive uno dei batteristi migliori mai visto in azione dal vivo in occasione di un concerto di Richard Thompson), in alcuni casi affiancato da D.J.Bonebrake, sua vecchia conoscenza nei Flesh Easters e negli X. A loro poi si è aggiunta l’eterea voce di Jesse Sykes, artista straordinaria che rompe così il silenzio dopo che il suo album Marble Son del 2011 aveva incantato un po’ tutti. Un vero e proprio Dream Team che ha saputo creare una perfetta jam-session utilizzando alcuni brani altrui di antico splendore.

La musica di Third Mind

Journey In Satchidananda di Alice Coltrane ad esempio apre le danze proiettando subito l’ascoltatore in una dimensione quasi jazzistica, prima della bella versione di Dolphins di Fred Neil, forse non proprio adatta alla voce di Dave Alvin, ma ugualmente ben costruita.L’utilizzo di cover rende chiaro il fine del progetto, anche se poi il terzo brano intitolato Claudia Cardinale, in omaggio alla nostra diva del cinema, figura essere un originale, ma è uno strumentale utile a scaldare i motori prima che Jesse Sykes sbaragli il tavolo con una Morning Dew da brividi (brano di Bonnie Dobson reso celebre dai Grateful Dead o dal Jeff Beck Group tra i tanti). I classici poi non sono finiti, perché l’impronta acida del progetto trova il suo zenith nella versione di Reverberation dei 13th Floor Elevators, una cavalcata che anticipa la lunga jam finale di East-West, capolavoro del blues bianco degli anni 60 firmato dalla Paul Batterfield Blues Band, che nella versione in vinile viene anche riproposto in due versioni alternative su un 12 pollici. Disco che non fa la storia questo, ma prova almeno a raccontarla al meglio alle giovani generazioni, con un Dave Alvin finalmente a suo agio nelle vesti di musicista senza l’assillo di dimostrare di essere anche un grande autore.
The Third Mind – The Third Mind
7,5

venerdì 24 luglio 2020

RUSTIN MAN

Paul Webb dai Talk Talk a Rustin Man.

Rustin Man – Clockdust
Domino – 2020
Si potrebbe pensare che Paul Webb, in arte Rustin Man, ci abbia preso gusto a dare corpo alla propria carriera solista licenziando questo Clockdust a solo un anno di distanza dal precedente disco di esordio Drift Code. I due album infatti, seppur effettivamente molto diversi tra loro, sono nati contemporaneamente, figli di un progetto che inizialmente doveva portare ad un doppio album, ma che Webb ha poi deciso di diversificare in due uscite differenti. Scelta saggia effettivamente, perché sebben permanga di base il suo stile, ormai sempre più improntato a diventare il Robert Wyatt dei nostri giorni (in assenza dell’originale, che ha deciso di passare gli ultimi anni della propria vita a parlare di politica e non di musica), le canzoni che compongono le due opere seguono una ispirazione molto differente.

Rustin Man – Clockdust: un disco coraggioso

Così laddove Drift Code era introverso, intimista e in qualche modo figlio della vena malinconica e solitaria della musica indipendente di questi anni, Clockdust è un album coraggioso, aperto, persino romantico nelle liriche, e, in alcuni casi, decisamente più sperimentale e poliedrico del suo predecessore. La voglia di una sua versione più comunicativa e portata a raccontare storie, più che semplici sensazioni, è evidente anche nei due video che già accompagnano l’album, dove il regista sperimentale Edwin Burdis lo ha aiutato a imbastire una sorta di film (intitolato The Evening Rooms) in due capitoli (la jazzata Jackie’s Room e una Kinky Living che insegue Tom Waits) pregni di effetti, atmosfere decadenti e abiti da burlesque.
La varietà strumentale
L’album spende subito gli episodi più in linea con l’album precedente (Gold & Tinsel, o una Love Turn Her On con la sua bella esplosione elettrica nel finale), dopo una Carousel Days che insegue gli estetismi di Scott Walker, per poi prodigarsi in una variopinto mix di stili e influenze, compreso l’utilizzo di strumenti rari come l’Eufonio (che è una sorta di flicorno), l’Okonkolo (è una percussione di origine africana, utilizzata soprattutto nella musica cubana) e il Kokoriko (percussione di origine giapponese).

Non tutto funziona alla perfezione in Rustin Man – Clockdust

Il risultato è una tavolozza di suoni davvero piena, a volte fin troppo oserei dire. In un certo senso l’ascolto di questi due attesissimi album (in precedenza a suo nome era uscito solo l’ormai mitico album in coppia con Beth Gibbons dei Portishead, Out Of Season del 2002) confermano un talento che forse avrebbe potuto dire qualcosa di più molto prima (Webb ha comunque già 58 anni), ma ci parlano anche di una strada personale non ancora del tutto focalizzata.
È quasi come se in quei mesi di sessione che ne hanno dato origine, Rustin Man abbia cercato di metterci tutto quello che aveva in testa, dall’obliqua soundtrack orchestrale di Rubicon Song ad una Night In The Evening piena di effetti quasi da Dub music. L’essenzialità di fatto la ritrova solo alla fine, con la riflessione di Man With a Remedy, quasi a dire che dietro un quadro di suoni così barocchi e stordenti, c’è sempre lo stesso musicista che con i Talk Talk aveva insegnato il gusto dell’essenzialità al mondo.
Rustin Man – Clockdust

lunedì 20 luglio 2020

CAT POWER

Cat Power
The Greatest
[2006]

La scelta di: Nicola Gervasini

La vita del lavoratore itinerante è tutto fuorché avventurosa e interessante. Spesso se dico a qualcuno che devo andare in una città per lavoro, quello mi risponde subito “ah, che fortuna, allora vai a vedere questo o quel monumento.”. Come se fosse una vacanza. Io invece so che i viaggi di lavoro sono sempre calcolati al minuto per risparmiare sui costi, che spesso sono con colleghi, e quindi non posso liberarmi come vorrei. Ma quell’8 maggio del 2007 mi trovai a Roma, con tutto un pomeriggio e una serata da passare in solitaria, e così ebbi effettivamente la possibilità di fare un po’ il turista. E, per la serata, dato un veloce sguardo a internet (in hotel, gli smartphone ancora non esistevano, anche se pare incredibile a dirsi oggi), vidi che al Piper, luogo che immediatamente mi ispirava ricordi dei gloriosi anni 60 e delle minigonne di Patty Pravo, era di scena Cat Power.

The Greatest, il suo settimo album, era uscito più di un anno prima, ed era stato per me una piacevole scoperta di un'autrice che non avevo avuto la fortuna di incontrare prima. Ero andato a recuperare i suoi dischi precedenti, ed effettivamente quello era un disco che riusciva a farle compiere un deciso salto di qualità, rendendo la sua musica forse più inquadrata in schemi classici, e quindi più prevedibile (come lamenterà qualche fan della prima ora, innamorato dell’essenzialità acustica dei primi lavori), ma decisamente più matura. Quella sera però sul palco del Piper rimasi scioccato nel constatare come Chan “Cat Power” Marshall era ai tempi qualcosa di più di una semplice cantautrice, era un’anima fragile che sul palco liberava tutte le sue insicurezze in una performance solo apparentemente incerta, ma proprio per questo emotivamente fortissima, oltretutto splendidamente supportata da una ottima band classicamente battezzata Dirty Delta Blues Band. Era come se a scuola la ragazzina sempre taciturna e timida là nell’angolo si fosse fatta improvvisamente violenza da sola, per prodigarsi in una esibizione artistica impressionante per intensità e capacità di mettere a nudo ogni singolo sentimento della propria anima. Cat Power le canzoni non le cantava, neanche le interpretava, semplicemente le faceva esplodere con movimenti tremanti e l’incapacità di guardarci negli occhi, quasi avesse paura del nostro giudizio.

Quella sera presentò The Greatest, e anche qualche rilettura che sarebbe poi finita sul successivo cover-record Jukebox, e diede a qualche suo vecchio brano una nuova veste, che l’uso massiccio dell’organo Hammond rendeva forse la cosa più vicina all’idea di musica che aveva avuto Laura Nyro 35 anni prima di lei. Cat aveva voluto registrare The Greatest a Memphis, usando una serie di session-men locali che portarono in dote un sound decisamente demodè (dove altro si sentiva un assolo di sax come quello di Willie in un disco indipendente del 2006?), ma molto vicino a certo soul-rock degli anni 90. Ma lei ci mise anche una lista di brani in cui si stracciava le vesti per mostrare tutto quello che aveva sotto, e non è un caso che fosse anche il suo primo disco completamente autografo. La title-track raccontava di un crollo emotivo, rappresentato da un diluvio che faceva scendere dal piedistallo di “la migliore” di tutti la protagonista. E dopo arrivavano la timidezza con cui viveva le tenerezze dell’amore in Could We, la visione di sé stessa come un figliol prodigo che esce dall’alcolismo di Lived In Bars, e ancora una volta le certezze che crollano per la fragilità dei rapporti amorosi di Islands (“vorrei governare le isole e il mare, ma se tu non torni, dormirò in eterno”).

Laddove Joni Mitchell aveva insegnato al mondo femminile ad esprimere i propri sentimenti senza filtri e senza dover usare stereotipi maschili, Cat Power, seppur meno brava a giocare con le parole, andò oltre, e trasformò la confessione in una vera e propria dichiarazione di resa incondizionata, con il tema dell’orgoglio personale che crolla davanti alla paura di perdere l’amato che faceva da filo conduttore. E se la copertina, decisamente maschile, se non proprio “machista” con la simbolica collanina con i guantoni da pugile degna di un gangsta-rapper, è una dichiarazione di guerra e di voglia di combattere, le canzoni sono invece un'unica richiesta (anche disperata in Where is My Love?) di pace con l’altro sesso (in Empty Shell arriva a perdonare il tradimento dell’uomo che l’ha appena abbandonata). “La luna non è solo bella, è anche tanto lontana”, il verso che inizia The Moon, sembra dire tutto sul suo stato d’animo, stupefatto per la bellezza dell’amore, ma anche rassegnato a non saperne godere a fondo. Forse solo a causa dell’incapacità a comunicarlo correttamente (Love and Communication), o forse solo per quell’odio che si ha dentro, ben descritto dal brano Hate, dove la frase “non ci sono leggi o regole per liberare la tua vita dalle catene”, suona come una auto-condanna per la propria propensione all’auto-punizione.

The Greatest resta una splendida seduta di analisi, dalla quale la stessa Cat Power faticherà a riprendersi.

giovedì 16 luglio 2020

BLAKE MILLS

La quieta ascesa di Blake Mills verso il nuovo Mutable Set.

Blake Mills – Mutable Set
New Deal/Verve – 2020
Ho sentito per la prima volta Blake Mills nel 2012 in occasione del disco tributo a Bob Dylan Chimes of Freedom, realizzato per Amnesty International. Tra i tanti nomi altisonanti di quel lungo progetto discografico, il suo era sicuramente uno dei meno prestigiosi: un ragazzo di poco più di 25 anni con un solo disco all’attivo (Break Mirrors del 2010), tra l’altro realizzato in maniera indipendente. E anche la canzone scelta, la leggera e spesso vituperata Heart Of Mine cantata con Danielle Haim, certo non lo aiutava a farsi notare in mezzo ad una così nobile folla. Eppure chi lo aveva coinvolto ci aveva visto giusto in fondo, perché il suo secondo album (Heigh Ho, uscito nel 2014 per la Verve), è piaciuto a tutti, e lo ha lanciato come uno dei cantautori più interessanti delle nuove generazioni.

Tra collaborazioni e prove soliste

Collaboratore molto richiesto, sentito al fianco di grandi nomi come Fiona Apple, Neil Diamond, Beck, Billy Gibbons, Jenny Lewis o Jackson Browne, e produttore anche del bellissimo Semper Femina di Laura Marling e di Darkness and Light di John Legend, Mills ci ha messo ben sei anni per realizzare Mutable Set, il suo terzo album, una lunga attesa interrotta solo dall’EP strumentale Look del 2018, che tra l’altro non ha neanche pubblicizzato troppo. E il nuovo album lo conferma come un animale da studio di registrazione, dedito ad un “chamber-folk” che mette insieme la vena dimessa di un Damien Rice con gli estetismi sonori e orchestrali di un Rufus Wainwright.

Blake Mills – Mutable Set

E così intorno alle sue fini trame chitarristiche (lui resta un virtuoso dello strumento), si stagliano momenti molto intensi che trovano il proprio zenith negli inserti jazzistici di Money Is The One True God, quasi 7 minuti di grande pathos che costituiscono il fulcro dell’album. Che per il resto si staglia tra intimi dialoghi tra chitarra e piano (Summer All Over), o lunghe riflessioni come Vanishing Twin, che si avvale della collaborazione di Cass McCombs in sede di scrittura, e che si sviluppa in un gran bel duello tra chitarra elettrica e tastiere.

Prima di queste l’album aveva sparato subito alcune delle migliori cartucce con Never Forever e May Later, brani molto personali nello stile, mentre My Dear One mostra senza pudore tutta la sua devozione per il mito di 
Elliott Smith. Farsickness è invece una elegante piano-song che porta allo strumentale Mirror Box, lunga introduzione a Window Facing A Window, caratterizzata da un gioco tra chitarra acustica e fiati degno di una colonna sonora da noir francese, che avvicina il suo stile di arrangiatore a quanto fatto sentire da Joe Henry negli ultimi anni.  Nel complesso Mutable Set conferma Mills come una delle menti musicali più creative degli anni dieci, anche se lascia intuire che ci siano margini per arrivare ancora più in alto.

Blake Mills – Mutable Set

venerdì 10 luglio 2020

COUNTRY FEEDBACK

Country Feedback
Season Premiere
[MiaCameretta Records 2020]

 File Under: Things to do in Frosinone when
you’re alone

facebook.com/countryfeedback

di Nicola Gervasini

Una tipica foto di famiglia di fine anni Settanta introduce all’ascolto del disco di Country Feedback, nickname evidentemente rubato ai R.E.M. da Antonio Tortorello, musicista di Frosinone con alle spalle svariati progetti (era il bassista dei 7 Training Days), che esordisce da solista con questo Season Premiere. Disco suonato quasi in solitaria, sotto la direzione del produttore Filippo Strang, con l’ausilio di qualche intervento di amici (tra i quali anche Cristiano Pizzuti dei Black Tail, che vi abbiamo presentato nel numero scorso di Made In Italy, Ettore Pistolesi dei Flying Vaginas, Luciah Scaccia), l’album di Tortorello è un caleidoscopio di influenze, suoni, e citazioni che necessitano più ascolti per essere colti nella loro interezza. Più che a Stipe e soci infatti, la sua musica guarda semmai al David Byrne sperimentatore di suoni, ritmi e culture musicali, con una certa anarchia di strutture, quasi da free-jazz più che da rock. Il brano d’apertura, Stuck Dat Corn Before You Eat (frase rubata da una working-song di fine dell’Ottocento) getta subito l’ascoltatore in un mondo che da un giro di basso alla Pixies, esplode in loop di fiati e percussioni, per una sorta di indiavolato gospel urbano, ben commentato con le immagini di una Frosinone vuota e desolata del video. Altrove si affronta un rock più lineare (Love Usually Leads to Trouble sembra un brano di Bob Mould con i fiati), con i sapori da sixty-soul di Sparkles e una It Sounds Like The 90’s che rende chiaro come la sua ispirazione peschi da tutto il mondo indipendente di quegli anni. Altro brano molto bello, che ricorda quasi i Jesus and Mary Chain del periodo Stoned & Dethroned, è When We Were Young, col nostalgico video fatto con veri filmini dell’epoca. Da seguire.

lunedì 6 luglio 2020

UBBA BOND

Ubba Bond
Mangiasabbia
[Ubba Bond Records 2020]

 File Under: Stand-up rock

facebook.com/UbbaBond

di Nicola Gervasini

La recensione al suo disco Le urla degli ubriachi nel mezzo della notte è datata 2003, una delle prime apparse sulle nostre pagine, ma da allora Guglielmo Ubaldi (in arte ormai definitivamente Ubba) non è stato fermo, prediligendo l’attività di stand-up comedian, ma non dimenticando la musica, portata avanti ormai da anni con la sigla Ubba Bond creata in collaborazione con il polistrumentista Andrea Bondi. Mangiasabbia però sembra voler fare le cose “sul serio”, mantenendo intatta la loro vis comica (evidente anche nel video di Filo Interrotto, parodia dei workout casalinghi da quarantena di questi tristi tempi di coronavirus), ma con un pugno di canzoni attente nei testi e nella produzione. E’ un disco che scivola senza intoppi, con brani in cui convogliano i sapori di rock americano di Girasoli Olandesi (sembra di sentire gli Hold Steady in italiano) e Piove il Mondo, ballate pianistiche che cercano Rino Gaetano (Sale), soul-ballad ammodernate (Sushi, bel duetto con Patrizia Urbani "Miss Patty Miss"), a cui si aggiungono le dissonanze elettriche di Aprile, l’alternative-rock di Sake, e il fine arrangiamento di archi e fiati che sostiene la parlata Su Milioni di Auto, liberamente tratta da un racconto di Max Guidetti. Ubba svela nei testi il suo mondo fatto di nonsense, ma anche di riflessioni e un buon romanticismo d’immagini (“è sempre la direzione del vento a dirci cosa Bob? Dici che la paura ha imparato in fretta a consumarmi il cuore, Bob?” canta nell’iniziale Bob), e una malinconia comunque evidente anche nei versi più ironici, che si fa tristezza vera nella dedica al sassofonista dell’album Daniel Cau, scomparso a session ultimate.

venerdì 3 luglio 2020

ALESSANDRO ROCCA

Alessandro Rocca
Transiti
[Dimora Records 2020]

 File Under: spazi e riflessioni

facebook.com/alessandrorocca.qui

di Nicola Gervasini

Se li prendesse uno come Mark Kozelek dieci anni di tempo per scrivere nuovi brani, invece di pubblicare a raffica album di oltre un’ora in cui è evidente l’esigenza di esprimersi, ma molto meno la pazienza di costruire vere canzoni... Parlo di lui perché il varesino Alessandro Rocca mostra sicuramente molte affinità con il mondo riflessivo (e senza paura dei tempi lunghi) dell’ex Red House Painters, e questo Transiti, album che segue l’esordio indipendente ormai datato 2009, lo dimostra appieno. Quasi un’ora di musica, ritmi lenti e dilatati, una band elettro-acustica di primo livello capitanata dal factotum Luca Gambacorta, che suona e produce tutto tranne la chitarra acustica suonata dallo stesso Rocca, il violoncello di Cecilia Santo (che fa la differenza nel contesto), il contrabbasso di Marco Di Francesco e il clarinetto di Paolo Grassi. Un tessuto musicale ben congegnato che sorregge una lunga serie di riflessioni e immagini, quasi sussurrate da Rocca, uno che ama il particolare della parola e la ricerca di osservazioni non comuni. Un artista votato all’isolamento che invece che chiudersi nel suo mondo, osserva gli spazi che lo circondano (“Sono qui, usando stipiti da limiti, non li oltrepasserò” canta nell’iniziale Stipiti). Transiti è il racconto di un uomo che dal buio di una stanza, come quella della bellissima copertina quasi alla Edvard Munch creata Andrea Tsuna Tomassini, passa in rassegna dolori, delusioni, ma anche gioie. Non è un disco facile, richiede quello che oggi pare merce rara, e cioè l’attenzione, ma brani come Topi o Licaone meritano di essere vissuti. “Chi dorme nella stanza che ha incubato i pensieri miei, basati sulla distanza?” si chiede in Fossili, e questa musica serve proprio ad abbattere quella lontananza tra le tante anime che pulsano solitarie dal chiuso delle loro case.

mercoledì 1 luglio 2020

WHITE BUFFALO

The White Buffalo
On the Widow's Walk
[
Spinefarm Records 
2020]
thewhitebuffalo.com

 File Under: Songs of Love and Hate

di Nicola Gervasini (01/05/2020)
Scrivo questa recensione in una data che avrebbe dovuto essere “il giorno dopo” di un concerto di White Buffalo all’Alcatraz di Milano, e sappiamo quanto questa constatazione sia triste in tempi di lockdown, ma vorrei aggiungere una speranza, e credere davvero che la nuova data, fissata per l’11 dicembre 2020, possa davvero essere realistica. Per quel giorno avremo avuto tempo di spargere la voce su questo artista, che merita senza dubbio di uscire anche dai recinti della roots-music come notorietà. E sicuramente, in una lista delle dieci migliori realtà americane di questi anni Dieci, Jake Smith, in arte appunto The White Buffalo (spesso comunque considerati una band con i fidi Matt Lynott e Christopher Hoffee), si prende un posto di primo piano.

Se l’era già meritato con i dischi precedenti, fin dagli incredibili Once Upon a Time In The West e Shadows, Greys & Evil Ways che ce lo rivelarono tra il 2012 e il 2013, ma questo On The Widow's Walk - quinto album se non si contano due cassette autoprodotte nel primo decennio dei Duemila - ora fa le cose davvero sul serio. La grandezza del disco in questione è presto detta: nulla qui è rivoluzionario, ma tutto pareva mancarci, perché Smith riesce in un colpo solo a coniugare la lezione degli Outlaw Country di metà anni Settanta (d’altronde qui a produrre il tutto c’è Shooter Jennings, quindi la linfa che scorre è quella lì) in brani come The Drifter (“I santi, i peccatori, i perdenti, i vincitori, È tutta colpa loro, Diamoci ancora un po' all’alcol e laviamoli via” canta nel ritornello), con lo spirito dell’Americana degli anni 90 (No History). Il tutto condito dall’understatement tipico dei nostri anni, che lo porta ad aprire il disco con un umile canto di dolore come Problem Solution (“Oh, dimmi cosa c'è che non va nelle mie canzoni, Cosa succede quando non le cantano tutti insieme, Quando le parole e gli accordi risultano sbagliati?”).

Ma alla fine la forza dell’album è quella di avere un atteggiamento da cantautore classico (Sycamore è una ballata che potrebbe appartenere anche a Ryan Adams, Come on Shorty ha il tipico incedere “alla Neil Young”), ma con una attenzione ai particolari e alle sfumature davvero notevole (e buon merito va anche al lavoro alle tastiere dello stesso Shooter Jennings). Il disco è vario, si passa da una ballata per piano e (finti) archi come Cursive, che sarebbe piaciuta persino agli Eagles, ad un veemente heartland-rock come Faster Than Fire, fino a vere prove d’autore come Widow’s Walk River Of Love And Loss. La tensione esplode nel finale, nella meravigliosa The Rapture, rauco e distorto urlo disperato (“Quindi soffoco tutti i miei impulsi, Ma solo il veleno cresce, La fame ribolle dentro di me, Finché il male non trabocca”), stemperato solo dal finale romantico e ispirato (ancora una volta piano e archi) di I Don’t Know A Thing About Love.

Se non lo conoscete, partite pure da qui, e poi magari ne parliamo tutti assieme a dicembre, davanti ad una birra da bere, senza mascherina possibilmente.

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...