martedì 27 settembre 2016

MICHAEL KIWANUKA

Michael Kiwanuka 
Love & Hate
[
Interscope/Polydor 
2016]
www.michaelkiwanuka.com File Under: new soul 2.0

di Nicola Gervasini (01/08/2016)
Si potrebbe dire che il capitolo secondo di Michael Kiwanuka potrebbe anche equivalere all'inizio dell'era "New Soul 2.0". Che è come dire che il recupero del vecchio soul avvenuto negli anni zero passa ad una nuova fase, che non è non sarà mai "nuovo", ma semplicemente riadattamento revivalistico di un altro tipo di vecchio. Il giovane artista londinese aveva già fatto parlare di sé con l'esordio Home Again del 2012, disco che ha anche venduto bene, ma che non ha avuto seguito per ben quattro anni, fino a questo Love & Hate. Anni spesi bene insieme al produttore Danger Mouse, forse uno dei pochi rimasti sulla piazza capace di coniugare modernità e vendibilità con la qualità.

E se al suo esordio Kiwanuka era sembrato solo uno dei tanti nuovi adepti del culto del soul classico con una insana passione per lo smooth-soul alla Smokey Robinson, qui si comincia già a sentire un autore e un artista un gradino sopra la media. Basterebbero anche soltanto i dieci minuti di apertura di Cold Little heart, emozionante crescendo in chiave soul barocca che riesce in un colpo solo a sintetizzare tutta la black music classica con l'indie-folk degli anni 2000. L'album ha una intensità e una qualità di scrittura davvero notevole, e forse il passo in più che manca è l'introduzione di un po' più di ritmo, una spruzzata funky che gioverebbe ancor maggiormente al suo cocktail, visto che il singolo orgogliosamente antirazzista Black Man in a White World rinverdisce i fasti polemici di Marvin Gaye e Curtis Mayfield, ma non basta a dare vigore all'insieme. In ogni caso dal punto di vista emotivo il disco non ha quasi mai punti morti, e gli omaggi al Philly Sound di Falling e della title-track si imprimono nella mente fin dal primo ascolto.

Da notare anche un deciso miglioramento nell'uso della voce, che dall'attenta e precisa maniera del primo album, sta assumendo un tono personale e riconoscibile. Tra i suoni volutamente retrò di One More Night(niente che non abbia già fatto Lenny Kravitz negli anni novanta in ogni caso), ballate pianistiche un po' furbe che cercano il sound di Bill Withers (I'll Never Love) si giunge al convincente wall of sound di Rule The World, dove cori, violini e un memorabile assolo finale del chitarrista Miles James regalano uno dei momenti più epici del disco. Finale con la lunga Father's Child (anche qui con sezione d'archi strabordante) e una The Final Frame che fa l'occhiolino a Easy dei Commodores di Lionel Richie, giusto per chiudere il cerchio delle influenze più evidenti.

Ottima conferma di un artista che sta dalla parte di quelli che riscrivono con intelligenza e vero talento.

martedì 13 settembre 2016

RED HOT CHILI PEPPERS

Il percorso dei Red Hot Chili Peppers somiglia sempre più a quello dei R.E.M.: anni ottanta fatti di solida gavetta undergound, anni novanta fatti di successi e grandi vendite, anni duemila caratterizzati da una lenta ma inesorabile perdita di creatività e mordente. Michael Stipe e soci hanno avuto il coraggio di fermarsi (per sempre?), Anthony Kiedis, Flea e compagni invece tengono duro, e dopo l’insuccesso dello spento I’m With You del 2011, con The Getaway (Warner Bros.) provano a dare un senso al loro futuro. Archiviato dopo 25 anni il produttore Rick Rubin, i quattro si sono affidati al modernista Danger Mouse per un disco che fin da subito sa di “adesso proviamo a fare qualcosa di diverso”. Missione riuscita a metà, perché se è vero che il disco è sicuramente il più interessante dai tempi di Californication, manca però l’obiettivo di definire una nuova direzione, finendo a riproporre schemi risaputi scontentando tutti. C’è il funky (la quasi disco Go Robot ad esempio), ma non è travolgente come un tempo, c’è il pop (The Longest Wave) ma non è più così vendibile, ci sono ancora rari sprazzi di rock (Detroit), e c’è anche altro (l’accoppiata inziale The Getaway/Dark Necessities mette insieme un po’ tutte le loro anime) che sa forse di esperimenti del momento. Il presente li vede ancora degni di attenzione, ma sul loro futuro restano ancora parecchie nubi nere.


Nicola Gervasini

giovedì 1 settembre 2016

ZUCCHERO

I quotidiani italiani continuano imperterriti a chiamarlo ”blues”, ma sappiamo bene che ciò che Zucchero propone ormai da più di 30 anni è Pop italiano, appena sporcato di un Soul certo non originalissimo. Non c’è una sua canzone che non sia, se non proprio plagiata, perlomeno “ispirata” da altro brano, sia esso un classico della Black Music o uno qualsiasi dei tanti brani presi in prestito da Joe Cocker; eppure il nuovo album Black Cat (Universal) merita una riflessione. Se perfino Bob Dylan o i Led Zeppelin rubavano a tutti per rendere oro quello che prima era argento, Zucchero finisce sempre per offrire un prodotto per certi versi superiore alla media italiana. Magari non nei testi, ancora legati a quell’infantile bisogno di liberazione sessuale e trasgressione anti-clericale che è tipico del mondo emiliano, o capaci di rime quantomeno discutibili (Ora fai come fanno i raga. E credi d'essere Lady Gaga), quanto nella produzione di suoni e melodie che sono ormai un vero e proprio marchio di fabbrica. Facile quando hai Mark Knopfler in session e tre produttori come Don Was, T-Bone Burnett e Brendan O’Brien, che per chi mastica musica americana sono come dire il massimo possibile, ma resta il fatto che la farina del suo sacco si riconosce sempre, e che i suoi album insegnano a tutti la nobile e ormai ovunque perduta arte di cercare la perfezione senza perdere feeling e groove.

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

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