venerdì 31 maggio 2019

WILLIAM THE CONQUEROR

William the Conqueror
Bleeding on the Soundtrack
[
Loose/ Goodfellas 2019]
williamtheconqueror.net
 File Under: new mainstream

di Nicola Gervasini (19/03/2019)
Sul finire del 2017 vi avevamo segnalato un album purtroppo passato abbastanza inosservato nelle classifiche di fine anno (ma chi arriva ultimo, tra l’altro non atteso, si sa che resta fuori). Era Proud Disturber Of The Peace dei William The Conqueror, nickname di rilevanza storica usato dallo scozzese Ruarri Joseph per chiamare il trio formato con Naomi Holmes e Harry Harding, un album di stralunati indie-folk alla Sixto Rodriguez (che veniva anche rivisitato), che dimostrava grande fantasia di scrittura e di arrangiamenti. Con veemenza dunque vi ricordiamo quel disco anche in occasione del suo atteso seguito, soprattutto perché se partiste da Bleeding on the Soundtrack (evidente storpiatura del Blood on the Tracks di dylaniana memoria) non sapreste mai cosa vi siete persi quasi due anni fa.

Questa volta Joseph, che non era certo un esordiente della scena, lavora di esperienza su un disco decisamente più elettrico, e se vogliamo più radiofonico e mainstream. E non poteva essere altrimenti con Ethan Johns in cabina di regia, l’uomo che tramite i dischi di Ryan Adams ha spesso reso la roots-music buona per tutti i palati, operazione che con ormai navigata esperienza ripete anche in questa occasione. L’album infatti evita i toni più cupi e straziati del predecessore cercando una più melodica espressione della propria sofferenza. L’incedere dell’iniziale Path Of The Crow è infatti quello di una rock-band americana degli anni 90, mentre Thank Me Later è uno scanzonato swing-folk alla Graham Parker, e con Madness On The Linesi vira improvvisamente verso un rock urbano alla Mink DeVille caratterizzato da un pulsante giro di basso. L’album trova il suo punto forte in The Burden una splendida lunga ballata alla Glen Hansard, mentre la title-track si risolve in un pigro blues abbastanza scontato, e con Looking For The Cure si prova addirittura un numero alla War on Drugs, a dimostrazione di una palese ricerca del disco che appaghi le tendenze di questi anni.

Più canonicamente roots-rock è Curse Of Friends con la sua slide-guitar in evidenza, mentre la ballata Be so Kind si colloca tra il Dylan di Day of The Locusts e Neil Young. C’è tempo per la cavalcata quasi southern-blues di Sensitive Side e per il finale di Within Your Spell per chiudere un disco che purtroppo spersonalizza molto quanto sentito nell’album precedente, a favore però di una immediatezza rock che non sentivamo da tempo in questo tipo di produzioni. Non so quanto questo bigino dell’Ethan Johns-pensiero possa trovare migliore fortuna, in qualche modo lo auguro ad una band che risulta valida, ma che ha fatto un passo indietro di almeno quindici anni per cercare di farsi notare, con una standardizzazione del proprio sound che suona un po’ come una resa.

giovedì 30 maggio 2019

JOE JACKSON - LIVE IN MILANO 2019


Joe Jackson

40 anni di carriera paiono tanti anche a Joe Jackson stesso, eppure il suo viso ormai scavato li racconta tutti. E ce li ha raccontati anche a Milano la sera del 22 marzo in un Teatro Dal Verme sold out (“e grazie anche per 40 anni di sold out” è appunto l’ultimo saluto che Joe rivolge al pubblico prima di andarsene), tempio milanese che si conferma come luogo ideale per i concerti sia per comodità che per l’acustica pressoché perfetta. Jackson non è certo uomo da lasciarsi andare a troppi sentimentalismi, ma per il tour che accompagna l’uscita di un disco complesso e per nulla consolatorio come Fool ha scelto di fare un excursus nel passato, con canzoni scelte in ogni decennio della sua carriera. Ovviamente con pesi diversi, se è vero che gli anni novanta, passati principalmente a cercare una sintesi tra pop e musica sinfonica (e non abbiamo mai capito se poi sia stato soddisfatto dei risultati ottenuti), finiscono relegati a due estratti dall’album Laughter and Lust del 1991 (la vivace Stranger Than Fiction e l’intensa piano-ballad Drowning), mentre i suoi primi anni finiscono a farla da padrone. Jackson si presenta con la band che ha suonato nell’ultimo album, con il fido Graham Maby al basso, il poliedrico chitarrista Teddy Kumpel e il funambolico Doug Yowell alla batteria (uno spettacolo nello spettacolo), e presenta uno show studiato al minimo dettaglio. I brani nuovi (Fool, Big Black Cloud, Fabulously Absolute e una Alchemy che apre e chiude lo show) reggono bene il confronto con i classici e questa è stata la sorpresa più gradita, ma la conferma che per lui il rock non è mai morto è sentire quanta forza ha ancora da spendere sui brani dell’era pub-rock come One More Time, Got The Time, Sunday Papers e l’immancabile Is She Really Going Out with Him? (tutte da Look Sharp del 1979) o I’M The Man. A parte una Real Men per la quale si inventa un inserto reggae/dub, le versioni sono tutto sommato fedeli agli originali, tanto che per il bis di Steppin’ Out è lo stesso Jackson a scherzarci su: "Sono famoso per stravolgere le mie canzoni dal vivo, perché è divertente, ma stavolta faremo un esperimento: rifaremo Steppin’Out esattamente come è sul disco, dove suonavo quasi tutto io.” E per farlo si è presentato con la drum machine originale usata allora, un Korg Rhythm 55 KR del 1979 che lui stesso ha definito un vero pezzo da museo. Peccato che nel revival generale si sia dimenticato di album importanti come Beat Crazy, Big World o Blaze Of Glory, toccando Body And Soul solo per la hit You Can’t Get What You Want (Till You Know What You Want), cercando di rappresentare anche la sua carriera recente ripescando Ode To Joy da Look Forward (2015) e Citizen Sane e Wasted Time da Rain (2006). Per quest’ultimo album Jackson dichiara che avrebbe voluto scrivere anche una title-track, ma non avendolo fatto, la ruba ai Beatles, eseguendo la loro Rain con grande fedeltà, così come decisamente rispettosa è la King Of The World degli Steely Dan offerta per ribadire quanto il duo Fagen-Becker siano i suoi autori preferiti. Sebbene fosse studiato in ogni suo arrangiamento e racconto, il concerto è parso caldo e sentito, a discapito della sua proverbiale ma immeritata fama di artista freddo e cervellotico. Non perdetelo se potete.

Nicola Gervasini

mercoledì 29 maggio 2019

ROBERT FORSTER

Robert Forster 
Inferno
[
Tapete Records/ Audioglobe 2019]
robertforster.net
 File Under: aussie icons

di Nicola Gervasini (06/03/2019)
Esiste un tocco tutto australiano nel maneggiare il rock e il pop tradizionale, magari impercettibile per il grande pubblico che pensa che i Bee Gees potevano tranquillamente essere scambiati per una pop-band britannica, gli Ac/Dc per una rock and roll band dei bassifondi di Londra, e magari Nick Cave come uno dei prodotti del punk newyorkese degli anni settanta. Ma l’Aussie Rock da sempre vive sull’idea che il rock è una cosa sporca, e non solo per la sciamannata rockstar-way-of-life spesso adottata dai suoi protagonisti, ma anche per il tipico dirty-sound che le chitarre hanno in quelle “land down under”. Un sudore intriso di sabbia cola da sempre nei solchi di tanti dischi di quella terra, evidente sia quando la musica è volutamente rauca e figlia della cultura del garage-rock come poteva essere quella degli Hoodoo Gurus, ma persino nelle sue espressioni più commerciabili come i Midnight Oil.

In questo scenario si muove da anni Robert Forster, uno che negli anni 80 con i Go-Betweens ha forse perso qualche treno importante per raggiungere il successo con una formazione in grado di scrivere indie-pop-songs dal mai sfruttato potenziale commerciale. Chiusa la storia della band proprio quando l’album 16 Lovers Lane li portava finalmente nelle classifiche inglesi (a causa anche della fine della relazione con la batterista Lindy Morrison), Forster ha faticato non poco a trovare la propria dimensione, prima con una carriera solista negli anni 90 che non riuscì farlo uscire dal mondo indipendente, poi con una reunion dei Go-Betweens interrotta proprio sul più bello dalla morte del compare Grant McLennan. Era il 2006, e da allora con soli due ottimi album (The Evangelist del 2008 e Songs to Play del 2015), Forster è riuscito nella grande impresa non solo di non farsi dimenticare, ma addirittura di farsi attendere con una certa trepidazione dal mondo di appassionati che lo stanno riscoprendo. 

Inferno
, terzo capitolo di questa rinascita, non mancherà di confermarlo come un personaggio di punta del rock indipendente, perché è il disco oscuro e caparbiamente sporco che ancora ci aspettiamo da un cult-artist della terra dei canguri. Forster ha registrato l’album a Brisbane durante giornate di caldo infernale, da qui il titolo sia del disco, sia della canzone Inferno (Brisbane In Summer) che funge anche da singolo, grazie al suo baldanzoso incedere alla Blur, ma ha fatto poi rimixare tutto nello studiato grigiore di Berlino da Victor Van Vugt. Nove canzoni in 35 minuti, caratterizzate da un sound elettro-acustico dove è il violino di Karin Bäumler a fare da elemento disturbatore. Robert trova il tempo per profonde riflessioni al pianoforte (One Bird In The Sky), parafrasi dei testi di W. B. Yeats (Crazy Jane On The Day Of Judgement), dichiarazioni di indipendenza artistica (I don’t Need No Fame canta nel secondo brano) o di beata solitudine (The Morning), fino a punti della situazione esistenziali (Life Has Turn The Page). Non mancano nemmeno quei suoi pop stralunati alla Robyn Hitchcock (Remain) o alla John Cale (I’ll Look After You).

Inferno è il piccolo gioiellino che facciamo bene ad aspettare con trepidazione, perché è un trattato di quella fine arte di scrivere canzoni all’australiana che non ci stancherà mai.

martedì 28 maggio 2019

THREELAKES AND THE FLATLAND EAGLES

Threelakes and the Flatland Eagles Golden Days [Irma Records/Upupa Produzioni 2018]
 File Under: Perfect American Skinupupaproduzioni.bandcamp.com
di Nicola Gervasini

Threelakes and the Flatland Eagles, nome che racchiude varie “keywords” del mondo musicale americano, sono una band fondata dal modenese Luca Righi nel 2012 con Giorgio Borgatti, Paolo Polacchini, Lorenza Cattalani e Riccardo Ross.Golden Days è il loro secondo album dopo War Tales del 2013, ma nel frattempo sono usciti anche altri progetti live e album collaborativi con alcune artiste americane come Antonette Goroch e Olivia Mancini o con l’italiano Phill Reynolds. Dopo la bella partenza riflessiva con The Storm, Golden Days si rivela subito come un disco di rock americano muscolare e chitarristico, anche se il singoloBrothers (con un video girato in fabbrica che più blue-collar di così non si può) ha un nonsoché di Smiths nel suono. Poi però arrivano il giro tipicamente Jersey-sound di Ambition, o il mid-tempo rock di Remedy a riportare ogni cosa oltreoceano. Il tutto completato da suoni da rock-band anni 80 alla Green On Red, anche nei brani più lenti come Ask Something New, che rinverdisce il ricordo delle connessioni tra Dan Stuart e le tastiere di Chris Cacavas, oppure riff springsteeniani (Carol), o brani che paiono usciti da un disco dei sottoboschi degli anni 80 (Heaven's Cell). Se avete nostalgia di sonorità a metà tra il Paisley Underground e gli Heartbreakers, se non proprio alla Lloyd Cole & The Commotions (Placesme li ricorda molto), Golden Days è il disco giusto, fatto di quel famoso “sudore” di cui tanto parlavamo in quegli anni, ma anche di canzoni scritte come si deve, come la bella title-track che chiude il disco.

domenica 26 maggio 2019

PAOLO PREITE

Paolo Preite An Eye on the World[Dreamers 2018] 
 
File Under: Don’t Stop Dreaming Rock
paolopreite.net
di Nicola Gervasini


Fa un po’ girare la testa leggere gli ospiti presenti nel disco di Paolo Preite, vuoi perché vi transitano due tra i migliori batteristi che io abbia mai visto suonare (Kenny Aronoff, che non ha bisogno di presentazioni su un sito innamorato di Mellencamp e Fogerty, e Michael Jerome, che ho apprezzato al fianco di Richard Thompson), il bassista dei miei sogni Fernando Saunders (a lungo con Lou Reed, e che già produsse il primo disco di Preite Don't Stop Dreaming nel 2015), e quel vecchio marpione della tastiera che è Bob Malone (Fogerty, Seger, e tanti altri big nel suo curriculum). Basterebbe questo per attirare l’attenzione, ma va dato atto a An Eye on the World di essere un disco che Preite si è autoprodotto con l’intento non di sciorinare collaborazioni note agli addetti ai lavori, ma offrire un pugno di brani intensamente intimi che chiedono anche più ascolti per palesare la loro natura. Saunders ritorna in produzione solo per Una piccola differenza, unico brano in italiano insieme alla title-track, che usa singolarmente sia inglese che italiano. Il disco conferma l’attitudine alla ballata di Preite, che dà il meglio negli episodi più riflessivi come Memories and Dust (con il ceco Ondre J Pivec, che lo aiuta anche in altri brani, e la violoncellista Jane Scarpantoni, anche lei già sentita al fianco di Lou Reed), I Will Meet You Again (con la voce di Chiara Marcon) e Wandering, mentre ovviamente Aronoff dona più polmoni e veemenza a brani come Can’t Find The Reason. Disco ben prodotto e con una manciata di canzoni ben strutturate, come ad esempio il gran finale orchestrale di In Your Eyes.

venerdì 24 maggio 2019

STERBUS

SterbusReal Estate/ Fake Inverno[Sterbus/ Zillion Watt Records 2018]
 File Under: Exile on Streets of Romesterbus.bandcamp.com
di Nicola Gervasini
“Ci scusiamo per aver fatto un doppio album, ma non avevamo tempo per farne uno singolo”. Scherzano così gli Sterbus, duo romano formato da Emanuele Sterbini e Dominique D'Avanzo, sulla loro imponente nuova opera Real Estate/ Fake Inverno, disco in due cd “stagionali” costruito sull’idea che i bravi artisti non sono quelli che seguono uno stile, ma che fanno propri tanti stili diversi. Diciassette canzoni in cui troverete davvero di tutto, dal Bowie che risuona nel sax dell’inizialeFall Awesome o nel finale di Shine a Light, al power-pop di Maybe Baby o Prosopopeye. Bello il gioco delle due voci tra i due artisti, con la D’Avanzo che ha una voce che può ricordare sia la Moe Tucker dei Velvet (In This Grace), così come la Exene Cervenka degli X (Lioness). Ma a loro piace mischiare parecchio, magari anche riff alla Husker Du con il prog (Razor Legs), echi dark (Adverse Advice MCCCXLVII) con il brit-pop chitarristico alla Johnny Marr (Little Miss Queen of Light Mate in 4/4), fino al sognante indie-folk della title-track o alle sventagliate garage-rock di Stoner Kebab. Anche un brano come Micro New Wave appare come una pop-song perfetta che in altri tempi sarebbe potuta anche divenire una probabile hit. Lunga la lista degli ospiti in studio, dove spiccano il terzo membro ad honorem Bob Leith dei Cardiacs, batterista fisso della band, e Tim Rogers, che interviene nella beatlesiana Emy’s Fears. Una delle migliori sorprese del 2018 dei nostri sotterranei.

mercoledì 22 maggio 2019

ELLI DE MON

Elli De MonSongs Of Mercy And Desire[Pitshark Records 2018] 
 
File Under: Nordest blues
pitshark.com
di Nicola Gervasini
Non è la prima volta che ci occupiamo di Elli De Mon, nickname virato in blues di Elisa De Munari, che ha pubblicato proprio allo scadere del 2018 questo Songs Of Mercy And Desire, suo terzo album, e ideale seguito del precedente EP Blues Tapes: The Indian Sessions. Lei ama definirsi “One Woman Band” per quella sua caratteristica di esibirsi e registrare in solitaria il suo blues volutamente grezzo e aggressivo, lontano discendente di quello di Son House, di cui la De Mon qui riprende e rielabora Grinnin’ in Your Face. Ma anche una musica parente più estrema del blues alternativo offerto da Jon Spencer (che non a caso la volle ad aprire i propri concerti italiani) o perfino degli White Stripes in alcune svisate più elettriche (Louise). Ma la forza di un disco davvero coinvolgente e maturo è la capacità di non usare la facile strada delle cover (quella di Son House è l’unica), quanto di cercare una nuova via al songwriting blues. Nascono così una gran bella ballata come Flow, un dark-gospel sulle violenze domestiche come Tony (dove intervengono la voce di Phill Reynolds, nome d’arte dell’italiano Silva Cantele, e il sax di Matt Bordin dei Mojomatics) e altri episodi come la dark Elegy, la ballata Riverside o una Chambal River inacidita dal sitar. Interessanti anche i testi, pieni di storie personali dove anche il Veneto diventa teatro delle stesse vicende di lotta e resistenza che hanno animato la musica del Mississippi. Un disco che piacerebbe molto allo scrittore Massimo Carlotto quando racconta i suoi blues per cuori fuorilegge in salsa veneta.

lunedì 20 maggio 2019

LOMB

LOMB 
Cuts
[Seahorse Recordings 2018] 

 File Under: Even the Losers

seahorserecordings.com

di Nicola Gervasini

Una cosa che si impara con l’esperienza è che spesso poi è vero che l’abito fa il monaco, per cui la presentazione che fa di sé Giuseppe Lombardo, in arte LOMB, potrebbe anche bastare a riempire una recensione. Per i dieci brani di Cuts si parla infatti di “alt.folk for losers” (ne esiste forse uno per “winners”?) con elenco influenze che cita Tom Waits, Morphine, Willard Grant Conspiracy e addirittura un nostro affezionato cliente come William Elliott Whitmore. Si parte quindi già rilassati mettendo nel lettore questo album, e a quel punto la strada potrebbe essere in discesa per farcelo piacere. Lombardo però è un veterano della scena alternative nostrana degli anni 90, con band come i Gothic Angels, Plank e Baffos, sigle che vantavano album prodotti da Don Zientara (Fugazi), Tony Carbone (Denovo), Agostino Tilotta (Uzeda) e Cesare Basile, e serate aperte per Sonic Youth e Wire, e questo background affiora prepotente nella produzione di questo Cuts. Brani come I Don’t Wanna Call You o Who Knows? seguono la strada di un gothic-country alla Handsome Family con aggiunte di rumori e soluzioni da new wave moderna, portate soprattutto dall’uso di alcune drum-machines. L’album infatti è interamente registrato da lui in veste di chitarrista con l’aiuto del bassista e arrangiatore/ programmatore Paolo Messere e del batterista Mr Red, con un unico intervento esterno portato dal sax sentito in Princess, suonato da Peculiaroso. Il sound acustico scarno di Whitmore si riconosce in What does it Matter? o in The Moon is Gone Behind the House, mentre la lezione del compianto Robert Fisher si mostra nella ballata Mario. Il meglio arriva forse alla fine con la non-dedica This is Not a Song Written for You (piacerebbe a Nick Cave), non prima di aver anche provato a rendere, se è possibile, ancora più oscura la Five Years di David Bowie con un’operazione che ricorda la Let’s Dance di M Ward. Consigliato ai cuori tormentati.

giovedì 9 maggio 2019

GRAND DRIFTER

Grand Drifter Lost Spring Songs[Sciopero/La Contorsionista 2018] 
 
File Under: Listen to the Soul
facebook.com/GrandDrifter
di Nicola Gervasini
Esordio davvero interessante quello di Andrea Calvo, in arte Grand Drifter, uscito sul finire del 2018. Adepto della tradizione indie-folk degli anni 2000 e già membro degli Yo Yo Mundi, Grand Drifter miscela tutti i tipici ingredienti di quel mondo, vale a dire strumentazioni acustiche, atmosfere malinconiche a autunnali, e una voce spesso sussurrata, ma con una leggerezza pop (che ormai sappiamo bene essere un complimento) che rende queste canzoni di piacevolissimo ascolto. Si inizia in puro stile Elliott Smith con The Ballons’ Boy, seguito dal brioso indie-pop di Circus Day, giustamente scelto come singolo (con un video animato da Ivano A. Antonazzo), e a seguire la più sperimentale Closer Doesn’t Mean Near e alcuni riusciti mid-tempo tipicamente roots-rock come Human NoiseFlesh and Bones e Listen To The SoulSilent Brother mette in evidenza la fisarmonica di Francesco Ghiazza, mentre Untitle Waltz cerca un ritmo più sperimentale alla Marc Ribot, fino al finale leggero con la fischiettata di The Way She KNows e la title-track. Prodotto dal leader degli Yo Yo Mundi Paolo Enrico Archetti Maestri (che ha coinvolto ovviamente tutta la band), l’album vede una folta schiera di collaboratori, tra cui Roberto Ghiazza e Fabrizio Racchi dei Knot Toulouse, il duo Cri + Sara Fou (Cristian Soldi e Sara Bronzoni), Michele Sarda (Neverwhere, New Adventures in Lo- fi) e tanti altri. Disco decisamente riuscito, forse proprio perché non pretende di cercare l’originalità a tutti i costi, ma semplicemente un pugno di buone canzoni.

lunedì 6 maggio 2019

CHRISTIAN DRAGHI

Christian Draghi Black Roses & Hats[Ultra Sound Record 2019] 
 
File Under: Heavy songwriters
ultrasoundrecords.eu
di Nicola Gervasini
Era una consuetudine soprattutto negli anni zero che il frontman di formazioni dedite al metal anche più pesante uscisse dal gruppo per provare progetti solisti immersi nel folk e nella musica americana. Un modo come un alto per ribadire le proprie radici, e la comunione di intenti che hanno generi spesso visti come lontani e con un diverso pubblico di riferimento. Christian Draghi ha cavalcato i palchi italiani ed esteri per dieci anni con la metal-band Doctor Cyclops, ma per l’esordio solista ha scelto una iconografia da strade blu, come appare evidente fin dalla copertina. Lui parla di un omaggio ai songwriters degli anni 60 e 70, da Dylan a Cat Stevens, davvero molto ricordato fin dalla title-track che apre il disco, e di un’anima “vintage” che sappiamo benissimo essere ormai modernissima. Nel disco si alternano episodi di pura roots-music come You Never know, ballate come Freaking Out, o classiche cavalcate di marca sudista come Shadow of a Rose. Oppure episodi di classico songwriting west-coast alla James Taylor come Rest Of The Day, opportuni inserti di fiati jazz in Cherry Top offerti da Andres Villani e Claudio Perelli o una Memoriesimpreziosita dal violino di Chiara Giacobbe. A chiudere la piano-song Here Comes The Rain, un lento anni 60 segnato dall’ hammond di Riccardo Maccabruni (When The Silcence Screams) e il riff hard rock di A Friend in A Bar. Oltre ai già citati, nel disco suonano alcuni nomi noti della scena roots/blues italiana, come Marco Rovino dei Mandolin Brothers, Paolo ‘Buddy Blues’ Leandri all’armonica o jazzisti come la sezione ritmica formata da Stefano Bertolotti e Roberto Re.

mercoledì 1 maggio 2019

HALF BLOOD

Half Blood
Run to Nowhere
[Heavy Road 2019]

 File Under: We Are Country

facebook.com/powercountry

di Nicola Gervasini

Quattro “brutti ceffi” travestiti da “Okies from Muskogee” posano davanti ad un “Van” da strade polverose dell’Arizona, ma il “mezzosangue” che ostentano nel nome della band è quello di italiani nati evidentemente dalla parte sbagliata dell’oceano. I milanesi Half Blood di Alexander De Cunto non temono di fatto di giocare con una iconografia pericolosa, evitando di farsi prendere troppo la mano con il mito della frontiera e scadere nel casereccio nostrano (la sindrome del “Cowboy da Gallarate” creata da Adriano Celentano nel film “Lui è Peggio di Me” è sempre in agguato), e professando apertamente il verbo del country con innegabile maestria, anche se a conti fatti oscillano più spesso verso il southern-rock. D’altronde nelle loro influenze citano Lynyrd Skynyrd e ZZTop prima di una sfilza di country-rocker da radio-Nashville come Garth Brooks o Brad Paisley, e si sente parecchio. A sentirlo comunque Run To Nowhere trova subito riferimenti precisi negli Eagles della title-track, nei Lynyrd Skynyrd degli anni 90 sentiti in What Turns Me On (cover presa in prestito dalla country-singer Erica “Sunshine” Lee, come anche Something To Dance To), e con una Me And The Gang a più voci che sembra uscita da un disco degli Highwaymen di Johnny Cash e amici. Un momento più autoriale arriva con Beautiful, ma con Beer! Cheers! One More Song! siamo di nuovo nel mondo delle bar-songs. Spazio alla band e agli assoli dell’ottimo chitarrista Alessio Brognoli in Poor Cody O'Brian Guitar Story (gli altri membri sono Christian Sciaresa, Simone Marini e, in aggiunta, il violino di Michela Dellino), mentre decisamente più radiofoniche appaiono We Are Country e With My Friends. Da notare anche la ballata Goodbye Tonight con la voce di Chiara Fratus, e il finale energico con una Love Mud che piacerebbe a Shooter Jennings, per una band che consigliamo sicuramente di testare anche dal vivo.

BILL RYDER-JONES

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