venerdì 31 gennaio 2020

BECK

Beck (e la musica dei 90s) alla soglia dei 50.

Ho sempre pensato a Beck come ad un Todd Rundgren della seconda era del classic rock. Non più giovanissimo neanche lui (l’anno prossimo compirà 50 anni), Beck David Campbell (questo il suo vero nome) è stato una figura fondamentale negli anni 90, in quella era di sintesi tra i vari stili che fino a quel momento avevano animato il circo del rock su binari separati. Nelle sue canzoni, nate spesso in ore di prove e studi nel chiuso di una sala di registrazione, si trovava di tutto e tutto perfettamente (e spesso per la prima volta) amalgamato, esattamente come Todd Rundgren negli anni 70 produsse artisti stilisticamente agli antipodi, dimostrando come un perfetto lavoro di sala potesse portare chiunque ad un unico ottimo risultato, addirittura magari riuscendo a riprodurre perfettamente i classici come spesso si divertiva a fare in alcuni suoi dischi.
Recensione: Beck - Hyperspace
Capitol – 2019
E se Rundgren dagli anni 90 ad oggi si è chiuso in una produzione lontana dai riflettori e dalla scena musicale moderna, perseguendo la sua idea di rock come prodotto di un lungo processo in cui tecnica e creatività vanno a braccetto, Beck, dopo aver ricordato quanto bravo ancora sia a scrivere anche solo semplici canzoni con Morning Phase del 2014 (una sorta di capitolo secondo di Sea Change del 2002), da Colors del 2017 è entrato definitivamente in una fase di sperimentazione stilistica.

Beck – Hyperspace: un vuoto esercizio di stile?

Lunga premessa per dire che Hyperspace, come già il suo predecessore, suona fin dal primo ascolto come un mero esercizio di stile, in cui il nostro vuole dimostrare di maneggiare una materia (chiamiamolo pop elettronico, ma mai come per lui le definizioni stilistiche sono sempre imprecise) che non è esattamente quella di cui si occupa abitualmente. Teoricamente non un problema per uno che in album come lo scanzonato Midnite Vultures o Modern Guilt aveva dimostrato di poter vestire le proprie canzoni con abiti differenti senza perdere credibilità ed efficacia, se non fosse che stavolta però qualcosa non funziona bene, e purtroppo i difetti che già aveva Colors, album che abbiamo un po’ tutti dimenticato presto due anni dopo l’iniziale sorpresa, qui si ingigantiscono.

I collaboratori di Beck in Hyperspace

E il problema non è che sia stata sbagliata l’idea di collaborare con giganti della produzione pop come Pharrell Williams (il Todd Rundgren della terza era del pop? Qui apro un sondaggio perché lui di concorrenza ne ha tanta) o Paul Epworth (l’uomo nell’ombra di Adele), Cole M.G.N. (ingegnere del suono richiestissimo nel mondo alternativo, da Julia Holter a Charlotte Gainsbourg) e Greg Kurstin (produttore molto attivo, ma non so se qualcuno si ricorda dei suoi Geggy Tah negli anni 90, sorta di Talking Heads in salsa roots scoperti da David Byrne).

Per la prima volta Beck suona datato

Il problema è che il risultato non è buono né per il mondo del pop a cui guarda con ammirazione, né per il suo mondo, che davanti a certi suoni, arrangiamenti e canzonette, deve fare uno sforzo di benevolenza. In altre parole, Hyperspace fa lo stesso effetto di quando nelle discoteche per ventenni vedi i cinquantenni in jeans rossi e camicia aperta che cercano di stare al passo dei balli ma tradiscono inesorabilmente il loro essere di un’altra generazione.


Insomma, se Colors in fondo presentava un “pop alla Beck” forse non proprio memorabile, ma del tutto coerente con il suo stile, Hyperspace gioca su terreni dove Beck dimostra di non essere maestro, semmai allievo, e per uno che ad ogni disco ha sempre insegnato qualcosa a qualcuno, suona forse come il peggiore degli insulti. Poi fortunatamente è Beck e non un pivello, per cui dette le magagne, giusto ricordare che anche qui comunque c’è da divertirsi e che i dischi “brutti” sono ben altri. Ma è Beck, e da lui è giusto aspettarsi di più, e che sia lui ad insegnare a Pharrell Williams come fare grande musica, e non viceversa.

lunedì 27 gennaio 2020

SWANS

Michael Gira e la rinascita degli Swans.

Ci sono autori con i quali pare impossibile avere un rapporto da semplice ascoltatore occasionale, inevitabilmente si finisce col tempo a stringere con loro un patto emotivo. Una sorta di contratto in cui il loro impegno è quello di non abbandonare mai la loro dimensione stralunata e personalistica della vita e dell’arte, il nostro quello di non abbandonarli mai, qualunque cosa facciano.
Swans Leaving Meaning
Young God – 2019
L’idea di partenza di queste anime solitarie e tormentate, che da anni si muovono nel sottobosco della musica occidentale, è che quello che succede nel segreto di una camera può diventare arte anche senza passare attraverso i filtri di produttori e logiche di marketing, e questo crea con l’ascoltatore un rapporto quasi personale, se non proprio esclusivo. Era così il compianto Daniel Johnston, sono così nomi come Bill CallahanWill Oldham nelle sue mille incarnazioni, Jason Molina e tanti altri, spesso visti come i veri fondatori e precursori della musica indie dei 2000. E naturalmente è così anche Michael Gira, uno che dal 1985 ad oggi ha prodotto tantissimo a suo nome e soprattutto con gli Swans, sigla abbandonata nel 1996, ma ripresa a gran ritmo in questi anni Dieci. Leaving Meaning è il quinto album di questa seconda era.

Swans – Leaving Meaning

Leaving Meaning è un tour de force doppio in cui Gira, sciolta ufficialmente la line-up storica, coinvolge collaboratori vecchi e nuovi. Come i chitarristi Kristof Hahn e Norman Westberg o l’esperto batterista Larry Mullins. Con l’aggiunta di una lunga serie di ospiti che toccano gli stili più disparati, come l’esperto di elettronica Ben Frost, il trio jazz dei Necks o la regina dark Anna von Hausswolff.  Alla fine sono 93 minuti di musica. Una sfida per l’ascoltatore pari agli 89 minuti dei Sun Kil Moon di Mark Kozelek del recente I Also Want to Die in New Orleans.
Due dischi che però evidenziano una differenza sostanziale: laddove Kozelek comincia ad accusare una certa ripetitività (e autoindulgenza) nel presentarsi con regolarità ogni anno con maratone di lunghi talking depressi su basi musicali ipnotiche e ripetitive, sfruttando forse troppo la nostra fiducia a prescindere di cui sopra, Gira conferma di essere un musicista che, nonostante i tempi dilatati e i toni non certo rassicuranti della sua musica, non ha perso di vista come si scrive e costruisce una canzone. E così qui anche un brano di oltre dieci minuti come The Hanging Man, costruito senza ritornello e senza grandi stacchi strumentali che interrompano l’ipnotica monotonia, riesce a mantenere una tensione che neppure un più giovane adepto come il Kurt Vile verboso sentito nell’album Bottle It In riesce ancora a raggiungere.

Leaving Meaning: un disco per i fans degli Swans

Insomma, se volete entrare in Leaving Meaning dovete amare già Gira, ma lui vi ripagherà con la lodevole complessità delle trame sonore della title-track o di tanti altri brani che solo apparentemente sembrano quasi improvvisati. Il ritmo è direi cimiteriale (ascoltate i 12 minuti di The Nub), anche quando magari la tensione esplode come nella seconda parte di Sunfucker o nella cavalcata elettrica di Some New Things.
Non è neanche più il caso di cercare riferimenti per spiegare la sua musica. Scadremmo probabilmente nei soliti Leonard Cohen e Nick Cave, se non proprio nei Joy Division in alcuni momenti, quando invece Gira ha ormai un marchio di fabbrica consolidato da più di trent’anni di carriera in cui ha saputo comunque rinnovarsi e mettersi in discussione. Nonostante, appunto, il suo pubblico non glielo abbia mai richiesto, ormai fedele negli anni.

I testi di Michael Gira

E ci sarebbe anche molto da dire sui testi, dove Gira si lascia andare a ruota libera sulle sue visioni filosofiche e anche su temi alquanto terreni come l’invettiva palesemente anti-Trump di AmnesiaParlare bene di un nuovo album degli Swans pare quasi automatico ormai per chi lo segue, ma è sempre bello scoprire che c’è sempre un buon motivo per farlo.

giovedì 23 gennaio 2020

WILCO

Jeff Tweedy, i Wilco e il nuovo Ode To Joy.

Il senso dell’umorismo non è mai mancato a Jeff Tweedy. Per questo l’ironia di definire Ode To Joy il suo disco più cupo e oscuro non solo non sorprende, ma tutto sommato ci rassicura sul fatto che l’uomo non ha perso quel sorrisetto beffardo che da anni nasconde dietro la sua ostentata timidezza.
Recensione: Wilco – Ode To Joy
Dbpm Records-_ 2019
E se qualcuno di voi giustamente ha storto il naso quando ho definito questa nuova fatica dei Wilco come se fosse il disco di un solista, proverò a spiegare perché qualcosa è davvero cambiato nelle dinamiche del gruppo all’indomani di quel The Whole Love del 2011 che fin da subito aveva dato l’impressione di essere la fine di un viaggio. Perché Ode To Joy, come già era successo per il precedente Schmilco, continua il processo di chiusura intimista di Tweedy, che concede sempre meno spazio ai suoi compagni di viaggio in studio, pur continuando a farli sfogare nei concerti dal vivo.

Le tentazioni soliste

Anche recentemente abbiamo potuto appurare che sul palco i Wilco continuano ad essere una macchina perfettamente oliata, con il consueto duello tra tradizione e sperimentazione innescato da Pat Sansone e Nels Cline, e una sezione ritmica davvero in grado di funzionare su qualsiasi canzone. Ma in studio, dopo il fallimento di Star Wars del 2015 (l’unico album veramente sbagliato della sigla), in cui i sei avevano cercato una nuova linea espressiva di gruppo senza però trovarla, Tweedy ha iniziato un percorso quasi da indie-folker che coinvolge gli ultimi due Wilco, ma anche il disco fatto con il figlio a nome Tweedy (Sukierae del 2014) e il suo bellissimo disco solista del 2018 (Warm).

Ode To Joy: c’è voglia di cambiamenti per i Wilco

Ode To Joy però pare subito un capitolo differente. Perché, se le sue ultime sortite avevano dato la sensazione di un ritorno alla tradizione folk dei suoi esordi con gli Uncle Tupelo, qui Tweedy sfrutta i Wilco per cercare una nuova forma espressiva da band, pur presentando un pugno di canzoni da cantautore solitario. Chi ha sentito come me molti di questi brani eseguiti dal vivo ancor prima di poter ascoltare l’album, si è subito reso conto che, se immersi nel contesto di una scaletta live, si amalgamano benissimo con i loro classici, e questo è il grande merito di Ode To Joy. Ma è anche evidente che la nuova strada può essere ancora perfezionata, magari ridando giusta enfasi al fatto di avere a disposizione non solo dei grandi session-men, ma dei veri artisti in grado di metterci del proprio.

Jeff Tweedy tra live e studio

E magari così accontentare anche chi si è trovato un po’ perso in mezzo ad un pugno di canzoni che non concedono respiro e speranza, né tanto meno sfoghi strumentali che spezzino la tensione, curiosamente uscite in contemporanea al nuovo album di Nick Cave (Ghosteen) in una sorta di gara a distanza a chi è più depresso e più deprimente. Per questo Ode To Joy riporta a livelli alti una sigla che stava indiscutibilmente attraversando una fase difficile, ma non è secondo me ancora il disco che Tweedy sta cercando per innescare una nuova era.


E il fatto che dal vivo comunque si cominci anche a respirare una certa aria da “greatest hits per nostalgici”, inevitabile per una band comunque attiva da 25 anni, deve suonare come un pericolo. Saluto dunque questa prova d’autore con sollievo, ma anche con la sensazione che se davvero i Wilco vorranno essere protagonisti anche degli anni 20, questo dovrà essere solo il primo seme per far crescere una nuova pianta che non si rifugi sempre e solo nel rassicurante sussurro di una canzone sofferta.

domenica 19 gennaio 2020

PAULA COLE

Chi si ricorda di Paula Cole?

675 Records – 2019
Era il 1996, e, tra i tanti nuovi nomi che esordivano in quegli anni, quello di Paula Cole parve subito importante. In quell’anno il suo secondo album This Fire divenne uno dei besteller in USA grazie a singoli come Where Have All the Cowboys Gone? (“volevo fare una canzone ironica come quelle degli XTC ma dal punto di vista femminile” la descrisse lei) e soprattutto I Don’t Want to Wait, sigla del fortunato serial televisivo Dawson’s Creek. Riascoltato oggi This Fire conserva il suo fascino di opera che univa una produzione alla Peter Gabriel (non a caso ospite nel disco), la lezione di Kate Bush, e una certa grinta alla Alanis Morissette.

Una carriera a fasi alterne

Il momento di Paula Cole però durò poco. Il disco successivo, Amen,  ci mise troppo ad uscire per sfruttare il momento (era il 1999), e fu un mezzo flop che la fece uscire subito dalle luci della ribalta, con conseguente ritiro per maternità fino al 2007. In questi ultimi 12 anni la Cole ha ripreso la sua carriera pubblicando altri 5 album che non hanno però riacceso troppo l’interesse verso di lei. Complici anche le molte aperture al mondo del jazz non proprio in linea con le mode del momento. Per questo si accoglie con piacere questo Revolution. Album che, diciamolo subito, la rivede molto più convintamente riprendere il discorso interrotto anni fa dal punto di vista stilistico.

Paula Cole – Revolution

Dopo una suggestiva Intro: Revolution (Is A State Of Mind) in cui il pianista jazz Bob Thompson recita un discorso di Martin Luther King, la Cole offre un disco vario e molto ben prodotto, chiuso in crescendo dal lungo reggae di Universal Emphaty e dalla piano-song alla Tori Amos Dhammapada. Subito invece arriva il riuscito gospel-blues di Shake The Sky, che è anche l’occasione per assaporare la bravura di una band con grandi nomi in lista come Nona Hendryx e Meshell Ndegeocello. E che vede Ross Gallagher al basso, gli esperti Max Weinstein e Jay Bellerose alla batteria e il chitarrista Chris Bruce adoperarsi anche come produttore.

Il disco ha una parte iniziale con brani intensi e molto personali come Blues in Gray (dedicata alla storia della nonna dell’artista) e la lunga Silent (sorta di autobiografia in prosa), prima che Go On riporti nelle casse una suadente pop-song che ricorda molto la Sarah McLachlan degli anni 90, e di fatto scopriamo essere stata scritta nel 1993, ma con parole cambiate in seguito al suo divorzio. Si finisce con una più folk All Of Nothing che addirittura richiama un po’ la Joni Mitchell di inizio carriera, la parlata 7 Deadly Sins, fino ad arrivare alla cover di The Ecology (Mercy Mercy Me) di Marvin Gaye.

Revolution: bel ritorno per un’artista impegnata qual è Paula Cole

La versione in vinile del disco contiene anche un singolo uscito in primavera, Hope Is Everywhere, canzone remixata in chiave dance (lei stessa la definisce “prog-disco”) pubblicata per sostenere la comunità LGBT che col disco c’entra poco stilisticamente, ma chiude il cerchio per definire una artista magari non sempre originalissima, ma fieramente impegnata a portare avanti le sue lotte politiche (il suo silenzio negli anni zero fu interrotto solo per un singolo polemico contro l’intervento in Iraq di Bush Jr) e umane con rinnovata convinzione.

lunedì 13 gennaio 2020

ADDIO A RIC OCASEK

Nell’immaginario di chi ha cominciato ad ascoltare musica negli anni 80, Ric Ocasek era “quello brutto” che in qualche modo tormentava una bella ragazza nel video di You Might Think. Non sarà quella modella (che era Susan Gallagher, oggi affermata attrice di serie televisive), ma un’altra, conosciuta sul set del video di Drive (Paulina Porizkova), a divenire davvero sua moglie nella vita reale, e probabilmente se siamo una generazione nata con l’idea che anche l’ironia può renderci sexy (in mancanza di doti estetiche naturali), lo dobbiamo alla favola di quel matrimonio.

I Cars

Ocasek con la sua affascinante magrezza ci ha giocato fin da subito, già dai primi video del 1978 di Just What I Needed o Good Times Roll, dove appariva sempre con vari tipi di occhiali neri a coprirgli il volto scavato, con un look che era una improbabile via di mezzo tra un residuato dell’era rockabilly, quasi un Roy Orbison per la new generation di fine anni settanta, e un ipotetico membro aggiunto dei Ramones.

Cars, che venivano da Boston, furono inseriti dai giornali musicali nel calderone della New Wave americana più per comodità che per vera appartenenza, e fin dal fulminante (e vendutissimo) esordio omonimo proposero un pop che univa sì le chitarre nervose e sporche della nuova scena newyorkese dei Television, ma con un utilizzo dei synth decisamente pop-oriented, al massimo assimilabile a quello dei contemporanei B-52’s.  Anche la presenza di un produttore affermato come Roy Thomas Baker (l’uomo dietro i Queen) la diceva lunga sulle loro mire di conquista dell’airplay radiofonico.

Una band da singoli?

Fu proprio quel loro non prendersi sul serio che li portò ad esser in qualche modo sottovalutati, per quella strana sindrome che avevano i critici dell’epoca di bollare come “band da 45 giri” chiunque vendesse troppo per essere band di culto (si ripeteva insomma il destino amaro dei Creedence Clearwater Revival). E loro di dischi ne vendettero davvero tanti, anche con i successivi album (Candy-O, Panorama e Shake It Up), pieni di hit memorabili, ma anche troppo spensierate per piacere sia al pubblico americano innamorato del blue-collar spingsteeniano (di fatto il loro pubblico USA era lo stesso che seguiva l’AOR di Toto e Foreigner), sia al mondo dark/new wave inglese, che certo ai tempi non apprezzava troppo un personaggio così derisorio e dissacrante come Ocasek.

Ric Ocasek produttore

Lui però si guadagnò il rispetto di tutti grazie alla sua attività di produttore, visto che investì (e perse) molti dei propri guadagni per salvare la carriera dei Suicide (produsse gli album successivi al folgorante esordio del 1977), puntando su band oggi dimenticate come i Rome Void, o magari cercando di inventarsi una improbabile carriera discografica per la groupie per antonomasia Bebe Buell, spaziando anche in generi ben distanti dai Cars (sua la regia per l’album Rock of Light della punk-band Bad Brains nel 1983).

Indimenticabile Heartbeat City

Probabilmente anche un modo per restituire al mondo underground (ai tempi lo si chiamava così) quanto lui stava ricevendo con estrema facilità dal mainstream. Nel 1984 l’album Heartbeat City scrisse praticamente un manuale di tutto il rock radiofonico degli anni 80, video compresi, e praticamente grazie a quello che poteva già da solo essere un The Best (ben 6 singoli estratti su 10 canzoni), i Cars prenotarono un posto nell’olimpo del rock (e anche nella Rock & Roll Hall of Fame, dove sono stati ammessi solo nel 2018).

Un punto di arrivo, capitalizzato dal Greatest Hits del 1985, che resta il loro bestseller (anche grazie al singolo Tonight She Comes), e che rappresenterà anche l’inizio della fine. L’album Door To Door del 1987 infatti sarà un flop da cui non si riprenderanno mai più, decidendo per uno scioglimento interrotto solo nel 2011 con il dignitoso reunion-album Move Like This.

Addio Ric Ocasek (Baltimora, 23 marzo 1944 – New York, 15 settembre 2019)

Nel frattempo Ocasek aveva anche lanciato una sua carriera solista, prima nel 1982 con il coraggioso Beatitude, e poi con This Side of Paradise del 1986, forte del bel singolo Emotion In Motion. Quando però nel 1991 uscirà il puramente AOR-oriented Fireball Zone, era già chiaro che il suo mondo musicale era al tramonto. Eppure i nuovi eroi degli anni 90, che erano nati all’insegna del totale rifiuto della musica synth-oriented del decennio precedente, i Cars li guardavano con un certo rispetto.

È noto il fatto che Kurt Cobain suonò My Best Friend’s Girl nell’ultimo concerto dei Nirvana a Monaco di Baviera, ma soprattutto l’ironia pop di Ocasek tornò in auge quando riprese l’attività di produttore, scoprendo band come i Weezer (forse i veri eredi filosofici dei Cars), e producendo ancora i Bad Religion, i No Doubt, e tanti altri. In una intervista, a commento della sua nota imperturbabilità sul palco, disse: Non penso di essere un intrattenitore. Non penso mai “Wow!, non vedo l’ora di far muovere la folla!”. Alcune delle mie band preferite non hanno mai mosso un dito sul palcoOra che Ric ci ha lasciato, a noi dunque il compito di inforcare un paio di occhiali da sole e cantare le sue canzoni allo specchio con lo sguardo più fisso possibile. Se ci verrà da ridere, lui avrà vinto la sua battaglia.

mercoledì 8 gennaio 2020

NICK CAVE & THE BAD SEEDS

Nick Cave and The Bad Seeds
Ghosteen
[Awal/ Ghosteen 2019]
nickcave.com

 File Under: rock drama
di Nicola Gervasini (07/10/2019)
“De gustibus non est disputandum” è la chiosa che qualsiasi lettore di recensioni ha in mente quando legge un giudizio che non lo trova d’accordo. È anche la difesa divenuta ormai la morte di qualsiasi discussione nei social, con conseguente vetusta riflessione riguardo a cosa possa servire oggi fare critica musicale in un mondo in cui ogni singolo ha possibilità di dire la sua e pubblicarne il contenuto. Per questo ben vengano dischi come Ghosteen di Nick Cave and The Bad Seeds, perché gli appassionati sono arrivati quasi a litigare (anche senza il “quasi”) per difendere a spada tratta o stroncare il nuovo album dell’artista australiano. Ed è bellissimo vedere quanto ancora un’opera d’arte possa scaldare gli animi in questo modo.

Che ha fatto Cave per avere tanto potere? Nulla di trascendentale se vogliamo, ci ha “solo” presentato un lungo racconto di dolore, che viene facile attribuire alla morte del figlio avvenuta quattro anni fa, ma in verità capitolo finale di un percorso di revisione (e speriamo per lui di rinascita) personale e artistica cominciato già prima con Push The Sky Away nel 2013 (e Cave stesso dichiarò che anche il successivo Skeleton Tree era nato in gran parte prima del grave lutto, anche se pareva una naturale reazione ad esso). Ghosteen è bello o brutto? Non sto a dirvelo, perché è un disco che bisogna volere: dovete averne bisogno visceralmente per apprezzarlo, altrimenti obbligare qualcuno ad un “supplizio” del genere è pratica al limite della tortura. È interessante però sottolineare come nel 2019 solo dischi così estremi riescono ancora a scuotere gli animi di un mercato (e relativa fruizione) musicale, ormai ridotto a banale gesto quotidiano dalla disponibilità immediata e universale del tutto per tutti dello streaming.
Viviamo un momento in cui un artista come Cave può permettersi questo disco, perché sa di avere ormai un pubblico che lo ama e lo segue ovunque lui lo voglia portare, anche in più di un’ora di sonorità da colonna sonora dell’amico Warren Ellis che annullano completamente il concetto che ci sia una band (dei Bad Seeds come entità a sé stante in questo disco si trovano ben poche tracce), e anche l’idea che si stia suonando una canzone (anche se alcuni episodi come Waiting For You vivono di luce propria in questo senso) e non un lungo reading poetico. A Cave il gusto teatrale del tragico, per non dire del melodrammatico, non è mai mancato fin dagli esordi, ma qui va a ruota libera, volutamente esagera nel cercare una empatica pietà del suo pubblico, e se siete sintonizzati sulla sua lunghezza d’onda davvero certe interpretazioni sfiorano il sublime, altrimenti scatta una fastidiosa sensazione di patetico.

E fortunatamente non esiste più un discografico che possa stoppare un progetto che in altri tempi sarebbe stato non solo poco vendibile, ma anche mal ricevuto da un pubblico che un disco era costretto a comprarlo per sentirlo, e la reazione di un acquisto sbagliato era molto peggiore di un semplice post polemico in Facebook. Un manager sapeva bene che un flop voleva dire anche concerti vuoti e spesso la speranza vana che la casa discografica desse una seconda possibilità. Oggi invece Ghosteen esce consapevole che, piaccia o non piaccia, anche i suoi detrattori ai concerti di Cave ci andranno, perché poi nessuno si sente derubato se in streaming ascolti una volta sola un disco che non ti piace un granché. Questa considerazione oggi, nella maggior parte dei casi, porta gli artisti a sentirsi finalmente liberi da condizionamenti, con la controindicazione di lavori spesso piatti se non proprio sciatti, tanto servono solo a giustificare un tour.

Ed è questo il pregio secondo me indiscutibile di Ghosteen al di là del nostro e vostro apprezzamento personale, ovvero sia il suo essere un disco che Nick Cave avrebbe fatto così, e così bene, anche sapendo di vendere tre copie, perché esiste ancora un’arte personalmente urgente e necessaria come questa, ed è anche l’unica su cui valga ancora la pena discutere e scannarsi.

mercoledì 1 gennaio 2020

ERIC ANDERSEN

Eric Andersen
Literate songwriter: sulle tracce di Camus, Byron e Böll
 
   
Eric Andersen
Shadow And Light Of Albert Camus
Silent Angel: Fire & Ashes Of Heinrich Boll
Mingle with the Universe: The Worlds of Lord Byron
(2014-2019, Meyer Records)

[a cura di Nicola Gervasini]

Nemmeno il caldo di un locale nascosto nel centro di Como è riuscito a convincere Eric Andersen a togliersi il cappello durante una delle sofferte esibizioni del suo recente tour italiano, impreziosito dalla presenza della violinista Scarlet Rivera (“quella di Desire di Bob Dylan”, si, proprio lei.). Lo stile d’altronde non è mai venuto meno all’ormai quasi settantasettenne cantautore newyorkese, un mezzo norvegese che nella terra d’origine del nonno ha pure fatto ritorno, accolto da una Europa che negli anni 80 non rimase sorda di fronte ad una generazione di artisti americani rimasti orfani di un contratto discografico (pensiamo anche a Elliott Murphy, ovviamente). Se volete saperne di più sul suo girovagare artistico e sulla sua incredibile sfortuna nella scelta delle etichette discografiche con cui pubblicare, vi rimando al libro scritto recentemente dai giornalisti Paolo Vites e Roberto Jacksie Saetti (Ghost Upon The Road – Eric Andersen Disco Per Disco, venduto solo tramite mail order all'indirizzo: jacksie1956@gmail.com), dettagliato "album by album" che vi permetterà di scoprire quali dischi vanno cercati oltre al solito (ma innegabilmente imprescindibile) Blue River del 1972 che speriamo conosciate già. Ma le serate italiane sono state occasione anche per noi per riparare ad una distrazione sulle sue uscite più recenti. Succede infatti (e lasciatemelo dire, può davvero succedere solo in Europa), che un filantropo tedesco, padrone della Meyer Records, abbia scommesso su un trittico di dischi davvero difficile da vendere come quello prodotto da Eric tra il 2014 e il 2017, tre opere dedicate a tre grandi scrittori di tre nazionalità europee diverse (e chissà mai che la collezione non si completi con un autore nostrano, visto che Eric comunque ha abitato anche in Italia per un certo periodo), in cui Andersen ha rielaborato alcuni testi di Albert Camus e Heinrich Boll, o proprio semplicemente musicato direttamente i testi di Lord Byron.

Il primo volume uscito era Shadow And Light Of Albert Camus, ristampato in occasione di questo tour con due brani aggiunti, un bellissimo disco nato casualmente durante una esposizione artistica per festeggiare i cento anni dalla nascita dell’autore francese, e registrato in grande fretta con l’ausilio dell’ormai collaboratore di lunga data Michele Gazich al violino e della percussionista Cheryl Prashker, che lo ha seguito anche nel recente tour. Sei brani molto intensi, in cui Andersen mette in versi secondo le proprie metriche il senso delle maggiori opere del drammaturgo francese, partendo con il folk di The Plague (Song of Denial), ispirata a La Peste, proseguendo con il dialogo tra piano e violino di The Stranger (Song of Revenge), ovviamente derivata da Lo straniero, e con il lungo talking su base elettronica (creata dal produttore Reinhard Kobialka) di The Fall (Song of Gravity), pensata su La caduta. Concludeva la prima edizione The Rebel (Song of Revolt), mentre la nuova versione ha aggiunto due ulteriori brani, una Song Of Sysiphus (Song of Rock and Roll) dove proprio Scarlet Rivera sostituisce per una volta Gazich in un rifacimento del Mito di Sisifo (Saggio sull’Assurdo), mentre Confessions of a Judge Penitent (Song of Deception) è un lungo e suggestivo reading sempre ispirato dal protagonista de La Caduta.

Il secondo capitolo della serie è Silent Angel: Fire & Ashes Of Heinrich Böll, che nonostante la durata da EP, risulta molto vario e interessante anche musicalmente, con il tradizionale tedesco Wenn das Wasser im Rhein gold'ner Wein wär posto in apertura e chiusura del disco e affidato alla voce di Petra Mùnchrath, e quattro brani ispirati a Opinioni di Un Clown. Peccato che non abbia avuto il tempo di elaborare anche delle canzoni relative ad altre opere molto significative del premio Nobel tedesco come Foto di Gruppo con Signora o E Non disse nemmeno una parola, ma i testi hanno invece preso in considerazione i tanti racconti sulla Seconda guerra mondiale, uno dei temi principali dell’opera di Boll. Come anche il successivo dedicato a Byron, il disco è stato registrato a Colonia, con una band che oltre a Gazich e la Prashker vede anche Martell Beigang alla batteria e basso, Steve Postell alla chitarra acustica e Harald Ruter alla fisarmonica. La bellissima Silent Angel, la marziale Thank You, Dearest Leader che si fa beffe di Hitler alla maniera del Dittatore di Chaplin, l’arrabbiata Face of A Clown e la delicata Silence completano così un bozzetto in cui Andersen si supera anche come tessitore di parole, sebbene ispirate da opere d’altri.

Lavoro molto accurato e approfondito appare anche Mingle with the Universe: The Worlds of Lord Byron autore che viene ripreso testualmente senza elaborazione da parte di Andersen, se non la libera creazione di alcuni ritornelli (“Byron era un involontario perfetto songwriter” ha dichiarato presentando un brano nei recenti concerti.). Andersen nelle note di copertina tradisce una forte ammirazione per la sua opera (lo definisce il più grande dei Romantici), mentre la band si impreziosisce della presenza di Giorgio Curcetti alle chitarre e del piano Steinway di Paul Zoontjens. Dei tre album, questo è il più leggero e immediatamente fruibile, anche perché invece che brani lunghi e complessi, presenta 15 shortcuts che permettono ad Andersen di spaziare anche stilisticamente tra folk, blues e rock, anche qui con due brani aggiunti nella nuova edizione CD non presenti nel vinile.


Nel complesso i tre album restano un lavoro davvero straordinario dal punto di vista letterario e molto ben curati nella confezione (i libretti presentano lunghe note scritte dall’autore e ovviamente i testi, fondamentali per seguire il tutto), con una produzione musicale in ogni caso sufficientemente elaborata e variopinta per evitare all’operazione di slittare nella noia accademica di un corso di letteratura. Se poi avete amato le opere dei tre autori analizzati sarete ancora più coinvolti, ma la voce di Andersen, sempre più profonda con l’avanzare dell’età, vale comunque il costo dei tre CD. E ancora una volta spiace che una così grande eredità culturale resti appannaggio di un passaparola carbonaro tra pochi attempati adepti, ma dopo più di cinquant'anni di carriera da outsider penso che ormai Eric neanche ci faccia più caso.



BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...