giovedì 30 aprile 2020

ISOBEL CAMPBELL

BY NICOLA GERVASINI · MAR 7, 2020

Isobel Campbell - There Is No Other
Cooking Vinyl – 2020

La carriera di Isobel Campbell fino al presente There Is No Other.
Quando lasci una band e i fans si riferiscono alle epoche del gruppo segnando un “prima” e un “dopo” di te, vuol dire che su quella formazione avevi un peso non indifferente. Ma nonostante si continui a considerare il periodo dal 1996 al 2002 come l’epoca d’oro dei Belle and Sebastian, Isobel Campbell ha in qualche modo faticato a costruirsi una autonoma carriera di egual clamore all’indomani del suo abbandono.



Se i primi due album usciti con la sigla The Gentle Waves tra il 1999 e il 2000 restano piccoli classici dell’indie-folk dell’epoca, i due successivi a proprio nome (Amorino e il disco di traditionals folk Milkwhite Sheets) non avevano avuto egual impatto, e dopo i tre comunque ben venduti dischi in collaborazione con Mark Lanegan, la Campbell è uscita di scena. There Is No Other rompe quindi 10 anni di silenzio, pare non del tutto volontario, se è vero che il disco sarebbe dovuto uscire già qualche anno fa per una etichetta che è fallita proprio nel momento clou, prima che la Cooking Vinyl venisse in suo aiuto.

Tira aria di California
L’album riflette anche le novità della sua vita sentimentale, visto che è prodotto con il nuovo marito Chris Szczech, conosciuto proprio durante le session dell’album Hawk con Mark Lanegan nel 2010, che l’ha convinta a trasferirsi da Glasgow a Los Angeles. E l’aria della California si sente eccome in queste tracce, che conservano la flemma da dream-folk da Highlands scozzesi che resta il suo marchio di fabbrica, ma che ingloba anche una serie di sonorità più soul da America profonda. Potremmo quasi definirlo il suo “American Album” insomma, e quella cover di un brano di Tom Petty arriva quasi a confermare questa idea, una Runnin’ Down A Dream che dall’energico heartland-rock tutto riff e sudore dell’originale, si trasforma in una lenta cavalcata onirica da techno-pop, dopo che l’iniziale City of Angels ci aveva subito immerso nel suo magico mondo notturno tra grilli e archi.

There Is No Other prova riuscita per la brava Isobel Campbell
Le tracce sono tredici, equamente divise tra episodi puramente folk come Vultures, Rainbow o See Your Face Again, a reminiscenze dei Belle and Sebastian che furono di Ant Life o Just For Today, con l’aggiunta di strutture gospel-soul come The Heart Of It All o Hey World o esperimenti orientali (The National Bird OF India). Nel finale, dopo le intense Boulevard e Counting Fireflies, a Below Zero basta anche solo un verso come “Tired of all the bullshit” per riportare addirittura l’avvertenza di un “Explicit Lyric” ad un testo che chiude con la macabra immagine di un uomo sepolto dalla neve nella sua macchina un disco poeticamente triste e ben definito, che sebbene non stravolga la sua abituale proposta musicale, la rinfresca e aggiorna in maniera convincente. Valeva la pena aspettare dieci anni insomma.

lunedì 27 aprile 2020

BLACK TAIL

Black Tail
You Can Dream It In Reverse
[MiaCameretta/Lady Sometimes 2020]

 File Under: Call me indie

ladysometimes.bandcamp.com

di Nicola Gervasini

Se oggi si discute molto se abbia senso parlare ancora di “indie-rock” come di un genere ben definito, Cristiano Pizzuti, voce e chitarra dei Black Tail (trio composto anche dalla sezione ritmica di Roberto Bonfanti e Luca Cardone), sembra invece rivendicare con fierezza l’appartenenza a un movimento che anni fa rappresentava un’idea precisa. Da una parte il citare modelli chiari come Sparklehorse, Wilco, Teenage Funclub, fino anche ai più recenti Big Thief e War On Drugs, dall’altra il raccontare che l’idea del gruppo è nata nell’isolamento di un bosco dalle parti di Boston, con rimandi alla “mitologia indie” del cottage isolato di Bon Iver e dell’artista autosufficiente. E in più aggiungiamoci che per il loro terzo album, You Can Dream It In Reverse, hanno chiesto al tecnico del suono Filippo Strang di ricreare in studio l’atmosfera di una registrazione fatta nella propria camera da letto, rumori, fruscii e imperfezioni compresi, idea da cui deriva il nome della loro etichetta (MiaCameretta Records). Risultato che suona persino antico nel 2020, eppure quantomai suggestivo, fin dai due lunghi, eterei brani che aprono l’album (China Blue e Sequoia), prima che le chitarre jingle-jangle di Stars Colliding riportino la lancetta indietro di 30 anni. Come da grammatica di genere, la band spazia tra brani acustici e introspettivi (The Great Coimet of 1996), ballate di stampo più classico (la corale Sun) a momenti più elettrici (Not Ok). Interessante il finale con la suadente Late Summer che sorprende con le sue chitarre anni 50 quasi in stile Shadows, e la notevole Firecracker. Da seguire.


venerdì 24 aprile 2020

TUM

TUM
Take-off And Landing
[Moquette Records 2020]

 File Under: Flying songs

tumplaysmusic.bandcamp.com

di Nicola Gervasini

TUM è il nickname artistico di Tommaso Vecchio, artista attivo già da anni come frontman dei milanesi Pocket Chestnut, ora lanciato in una nuova avventura solista. Take-off And Landing è il suo primo album, ed è nato durante una serie di viaggi che dall’India lo hanno portato in Thailandia, Marocco e altri paesi del mondo, durante i quali Vecchio ha combattuto la solitudine componendo brani con un ukulele, l’unico strumento trasportabile ovunque. Eppure, una volta tornato in studio, alle canzoni ha dato un taglio anche decisamente elettrico, per esempio quello della bella DarKer che apre il disco, così come le esplosioni elettriche di So Long o l’up-tempo di Take-Off. Molto particolare invece Bad Bad Thoughts, definibile come un arrabbiato indie-spoken, così come You+Me+Bubble Tea è un numero da perfetto folksinger che ricorda i primi passi di David Gray. Anche 23th april 2019 è fondamentalmente una country-song elettrica, mentre Little Escapes sembra quasi recuperare l’alt-country alla Uncle Tupelo, così come 10 Steps rende evidente l’eredità artistica di Conor Oberst alias Bright Eyes. Nonostante i testi da malinconica epopea solitaria, il disco è molto energico, e solo il finale Nothing Else To Do sembra una di quelle tristi cavalcate nell’anima di Mark Linkous/Sparklehorse. Registrato nell’arco di quattro anni tra viaggi e ripensamenti, Take-off And Landing si avvale di una serie di validi collaboratori come Galbusera e Simone Fratti al basso, il chitarrista Raffaele Bellan e i batteristi Pietro Gregori, Muddy Kotche Brambilla e Andrea Schiocchet. Un esordio più che promettente.

martedì 21 aprile 2020

G.LOVE & THE SPECIAL SAUCE

G. Love and Special Sauce
The Juice Love
[Philadelphonic/ Goodfellas 2020]
philadelphonic.com

 File Under: funky-rap-blues-jam
di Nicola Gervasini (27/02/2020)

Ammetto che sapere che sia uscito un nuovo disco dei G. Love and Special Sauce in pieno 2020 mi ha portato alla classica reazione “ah, ma sono ancora in giro?”, espressione che si riserva a quegli artisti che ad un certo punto si sono persi di vista, forse perché in qualche modo legati ad un’epoca musicale ben precisa. Invece loro, come tante altre sigle uscite negli USA negli anni 90, ai tempi categorizzate come “jam-bands” o (per chi se lo ricorda) appartenenti alla “scena H.O.R.D.E” in onore ad uno dei festival più noti dell’epoca, non hanno mai smesso di esserci e di suonare in perenne tour, con seguiti di pubblico che farebbero gola al 99% degli artisti usciti dal 2000 ad oggi, nonché di produrre dischi.

Il leader G Love (Garrett Dutton il suo vero nome) tra il 2004 e il 2011 ha prodotto anche tre dischi “da solista”, ma la sostanza in fondo non è mai cambiata, con o senza i Special Sauce. Che nel 2020 conservano la line-up a trio degli esordi, con il fedelissimo Houseman (Jeffrey Clemens) alla batteria e il rientrato da qualche anno Jimi Jazz (Jim Prescott) al basso. The Juice è il nono album, e se magari non crea più lo stesso clamore di un tempo oltreoceano (ricordiamo che ben tre album della band arrivarono nei primi posti della billboard americana), ritrova un combo ancora desideroso di suonare il proprio strambo mix di mille generi. Perché poi, rispetto a molte altre band del carrozzone jam-bands, loro sono sempre stati i più difficili da catalogare, grazie all’inserto di elementi funky e blues, da mischiare a reminiscenze di psichedelia sixties, elementi roots-rock, e si potrebbe anche andare avanti nell’elenco.

Oggi questo “crossover” (sto utilizzando termini che non usavo da anni e quasi un po’ mi emoziono) di generi è ormai all’ordine del giorno, persino démodé se vogliamo, ma si sa che la filosofia della scena era quella di produrre in studio le basi che sarebbero servite poi a lunghe improvvisazioni dal vivo. Registrato a Nashville, il nuovo disco guarda però più limitatamente al blues, fatto evidente fin dal nome degli ospiti, che sono Marcus King nella title-track, Keb’ Mo’ in Go Crazy e Birmingham, quest’ultima impreziosita anche dalla slide di Robert Randolph, oltre al funambolico Roosevelt Collier che segue il funky-rap di Soulbque con la sua pedal steel guitar. Il clima generale è festoso e danzereccio, G. Love non ha perso quella modalità un po’ rappata di cantare, anche quando il brano ruba riff ai classici (John Fogerty potrebbe riconoscersi in quello di Shake Your Hair), tanto che quando il ritmo incalza risulta sempre a suo agio, mentre qualche problema arriva quando il brano è leggermente più lento o melodico come She’s The Rock.

In ogni caso c’è da battere il piedino per 40 minuti, senza troppi pensieri e scavando a piene mani nelle radici della musica nera statunitense (non a caso qui Diggin’Roots è il titolo di un duetto con il soulman Ron Artis II). Consigliato per i momenti di malumore.


giovedì 16 aprile 2020

Sinistrato Erotico Stomp


Lucio Dalla - Disperato Erotico Stomp - Jonica RadioSinistrato Erotico Stomp
Io ci ho provato davvero ad immaginarmela la puttana ottimista e di sinistra. Nei momenti di più buia solitudine quasi mi era balenata l’idea di cercarne una e provare a parlarci. Tipo “Ciao bello, sono 100 euro per tutto” - “Si va bene, ma sei ottimista e di sinistra? Se no non mi eccito”. Poi ho desistito, primo perché non è cosa mia andare per prostitute (neanche andare a Berlino con Bonetti lo è a dire il vero, ma non ne faccio egual motivo di vanto), secondo perché poi realizzi che “ottimista” e “di sinistra” sono un ossimoro, e allora realizzi che forse il buon Lucio ci stava solo prendendo per il culo. D'altronde “aveva dei problemi anche seri” aveva avvertito prima, e poi a ben guardare io mi sono davvero perso nel centro di Bologna, con quelle cavolo di vie con i portici tutti uguali si perdono bambini, vecchi, donne, e uomini maturi come me, per cui è ovvio che stava scherzando. Però resta il dubbio di come se l’immaginasse Lucio una puttana ottimista e di sinistra, qualcosa del tipo “Ciao bello, sono 100 euro per tutto, ma se sei di destra fanno 150, ma io spero che tu sia di sinistra e pure bravo a letto, per cui sconto ad 80”. O forse era talmente ottimista che offriva amore in cambio di una offerta libera, ma le è andata male perché, si sa, che “quelli di sinistra” sono più squattrinati e credono nell’amore libero. E comunque anche un altro dubbio mi assale da sempre: ma era di sinistra anche la thailandese?

lunedì 13 aprile 2020

STEPHEN MALKMUS

Stephen Malkmus
Traditional Techniques
[Domino/ Matador 2020]
stephenmalkmus.com

 File Under: Oriental folksinger
di Nicola Gervasini (30/03/2020)

I segnali di venti di cambiamento c’erano già stati negli ultimi anni, prima con lo scioglimento (definitivo?) dei Jicks, che lo seguivano fedelmente ormai da più di quindici anni, poi con un disco solista in tutti i sensi come Groove Denied dello scorso anno, esercizio di studio da one-man-band alla Todd Rundgren che non lasciava certo presagire l’uscita di un album come Traditional Techniques. Che è di fatto figlio delle sessions del disco del 2018, Sparkle Hard, ma pensato fin da subito come un progetto di ricerca di nuove vie espressive. D’altronde è evidente che dopo anni in cui Stephen Malkmus è stato il primario promotore della canzone "indie" così come la si era definita negli anni Novanta, ora è arrivato per lui il momento di sperimentare altro. Giusta scelta, se è vero che la critica maggiore che veniva riferita ai suoi album solisti era quella di essersi un po’ impantanato in uno stile che non trovava modo di fare evolvere ulteriormente, se non con una svolta più mainstream che avrebbe di certo scontentato tutti.

Che qui spiri aria nuova lo si capisce fin dai sei minuti iniziali di ACC Kirtan, probabilmente quello che avrebbe voluto realizzare in vita Brian Jones se non fosse annegato in una piscina, una carrellata di musica lisergica tra sitar e bouzouki che ci porta fino alle slide desertiche e psichedeliche di Xian Man. Ma la soprese non finiscono qui, perché poi arriva una The Greatest Own In Legal History che, tra steel-guitars e acustiche che paiono scordate, insegue il Neil Young più sofferente dei tempi d’oro, così come indulge in sonorità da pura roots-music anche Cash Up. Ma con Shadowbanned e What Kind Of Person si ritorna subito in Oriente, continuando quel gioco di rimandi tra due tradizioni apparentemente agli antipodi che caratterizza tutto il lavoro, mentre Flowing Robes recupera l’incespicante ritmo di un bozzetto acustico di Syd Barrett, e Brainwashed è l’occasione per una jam acida tutto sommato riuscita. Chiude una Signal Western in cui il nostro sembra quasi fare il verso a Bonnie “Prince” Billy (d’altronde il chitarrista qui è Matt Sweeney, che con Will Oldham ha firmato anche un album) e una Amberjack che saluta in chiave dream-folk per un disco davvero bello soprattutto dal punto di vista della produzione.

Esiste comunque una bonus track nel finale intitolata Juliefuckingette (esclusa dalla tracklist in patria per evitare censure, visto il titolo, consiglio quindi di recuperare l’edizione giapponese della Beat Records che la prevede), che sembra invece rubata dalle outtakes dei Wilco, e che in qualche modo chiude il cerchio sui vari omaggi ad un certo mondo musicale che con tutta evidenza Malkmus voleva proporre con questo disco davvero atipico nella sua carriera, e forse proprio per questo necessario.

giovedì 9 aprile 2020

BILL FAY

Bill Fay
Countless Branches
[Dead Oceans/ Goodfellas 2020]
deadoceans.com

 File Under: solitary man
di Nicola Gervasini (20/01/2020)
La storia romantica dell’artista dimenticato e poi riscoperto dopo anni ce la siamo già raccontata, su chi sia Bill Fay e quale sia stata la sua vicenda discografica ne avevamo infatti già parlato in occasione del disco del grande ritorno Life Is People (2012). Un album fondamentale per questi "anni dieci", per come ha saputo, molto meglio di altri, tracciare un filo conduttore tra certo cantautorato dei primi anni Settanta e l’indie-folk dei 2000. Secondo il vecchio motivo che dice “squadra che vince non si cambia”, Fay ci ha preso gusto e ha confermato il produttore Joshua Henry sia per il seguito Who Is the Sender? del 2015, sia per questo terzo capitolo, intitolato Countless Branches.

Non cambia neanche la formula a dire il vero, basata su canzoni lente e strascicate, alle quali Bill si attorciglia con disperazione con la sua voce sofferta e incerta, alternandosi al piano o alla chitarra acustica. Se il secondo capitolo aveva forse dei momenti in cui il gioco pareva passare leggermente il limite dell’autoindulgenza, questo terzo episodio pare invece più centrato ed essenziale. Stavolta non ci sono grandi ospiti e nemmeno significative cover di riappacificazione con la modernità come fu la splendida Jesus Etc. dei Wilco presente nel citato Life Is People, ma dieci brani che Fay ha scritto nel corso della sua lunga assenza, e che non aveva mai avuto la motivazione giusta per finire e registrare. Il che fa capire subito che questo nuovo album ha una dimensione, se possibile, ancora più intima, quasi da demo casalingo (a parte la presenza della chitarra di Matt Deighton). I

l lavoro sui suoni non è comunque indifferente, e l’aria che si respira ricorda molto quella delle session acustiche che Rick Rubin fece fare ad autori come Johnny Cash o Neil Diamond. Brani brevi (solo due su dieci superano i 3 minuti), con una durata complessiva molto limitata, che la deluxe edition allunga a 47 minuti inserendo anche alcune versioni alternative, tra le quali vanno segnalate le registrazioni con band di Love Will Remain e How Long, How Long, le quali, insieme all’inedito Tiny, fanno capire che era stata presa in considerazione una versione elettrica del disco abbandonata a favore di sound più scarno. Fay, nonostante la ruggine accumulata negli anni passati lontano dagli studi di registrazione, sembra davvero aver ritrovato uno stato di grazia invidiabile, come ben evidenzia Salt of The Earth, forse l’highlight del disco, che evidenzia la struttura sostanzialmente gospel suoi dei brani.

Disco non per tutti, che semmai conferma in maniera ancora più estrema l’involuzione nella sfera personale della musica moderna. Là fuori d’altronde il mondo va a rotoli, ma Fay continua a far parte di chi assiste con l’addolorato stupore cantato in Filled With Wonder Once Again, chiedendosi “Come può questo mondo tenere un uomo incatenato?”, e non cercando neppure di darci la risposta.

lunedì 6 aprile 2020

DIESEL PARK WEST

Diesel Park WestLet It Melt
[Palo Santo Records 2019]
dieselparkwest.com

 File Under: Rock and Roll survivors
di Nicola Gervasini (25/01/2020)
Sono queste le storie che ci piace ancora raccontare, quelle di band come i Diesel Park West, un nome che io stesso ho scoperto solo grazie a questo Let It Melt, con conseguenti gravi sensi di colpa. Mi vengono in soccorso le note di copertina, che dicono che si tratta del loro nono album, e che “nove è un bel numero, decisamente più rock and roll di otto” (???), e che serve anche a ringraziare chi li ha seguiti da sempre, ma anche chi sale sulla barca soltanto ora. E allora saliamo volentieri a bordo anche noi, e navighiamo con questo quartetto di Leicester (la line-up odierna vede John Butler, Rich Barton, Geoff Beavan e Rob Morrische) che bazzica i pub del Regno Unito fin dal 1980, e il cui primo album (e anche l’uno è in fondo è un bel numero rock and roll, o no?) dal significativo titolo Shakespeare Alabama, ebbe anche l’onore di entrare in top100 UK, così come il secondo album Decency del 1992.

Let It Melt è un disco che consiglio a chi ancora cerca quel pub-rock di ispirazione americana, ma di marca tutta britannica, che vede nei Pretty Things i veri capostipiti, e i Dr Feelgood il vero motore trainante nel corso degli anni Settanta. Let It Melt, la title-track che apre questo frizzante lavoro, trasuda di quell’amore per le chitarre che furono dei primi Rolling Stones e una certa impronta vagamente blues, così come Pictures in The Hall sa davvero dei Pretty Things degli anni Settanta. Ma il loro essere britannici fin nel midollo esce allo scoperto con la bellissima No Return Fare, il brano che vorremmo sentire oggi in una ipotetica reunion dei Kinks (La fanno? Non la fanno?), mentre The Golden Mile batte di nuovo sull’acceleratore del garage-rock. Ci vuole Scared of Time a far tirare il fiato, un bellissimo up-tempo che sembra rubato dalla carriera più recente di Peter Wolf, mentre Everybody’s Nuts sembra una di quei brani apparentemente scazzati del Keith Richards solista. Da notare anche la programmatica Living In The Uk con il suo splendido piano boogie alla Ian Stewart, il rock and roll alla Faces di Bombs Away e il pop giocoso di Across the Land.

E la storia da raccontarvi dov’è in tutto questo? Era questa, e cioè che esistono ancora band che dopo quarant'anni di carriera non chiedono nulla se non suonare del rock and roll old-style che pare uscito da una svendita per sgombrare un garage che era rimasto chiuso dal 1964, e che lo fanno in maniera fresca e con canzoni che ci rassicurano sul fatto che sì, il rock sarà anche morto, ma i suoi zombi girano ancora liberi in questo mondo, e suonano ancora alla grande.

venerdì 3 aprile 2020

FRANK MIGLIORELLI

Frank Migliorelli & The Dirt Nappers
The Things You Left Behind
[Rave On records 2019]
frankmigliorelli.com

 File Under: power roots
di Nicola Gervasini (29/01/2020)
Nella ormai lunga tradizione di italo-americani dediti al blues o alla roots-music, Frank Migliorelli è solo uno degli ultimi arrivati, e come tanti viene dai dintorni di New York (lui abita a Croton-on-Hudson, piccolo paese sulle rive del fiume che attraversa la metropoli). The Things You Left Behind è il suo terzo album dopo City Eastern Serenade e Bass, Drums, Guitars & Organs del 2017 (mai titolo fu più programmatico), e lo vede in azione sempre con i fidi scudieri dei Dirt Nappers. E le cose che ci siamo lasciati indietro secondo lui sono quel bel jingle-jangle rock di marca “Elvis-Costelliana”, ma direi ancor più alla Marshall Crenshaw o Freedy Johnston (per citare i due migliori seguaci "costelliani"), che permea queste dieci canzoni, fin dall’iniziale title-track e dal singolo She Moves Like A Mistery, che in altre epoche qualche passaggio in radio se lo sarebbe magari anche guadagnato.

Un pub-rock antico forse, ma sempre fresco e attuale se suonato con convinzione, con anche alcune variazioni sul tema come le tinte blues regalate dal piano pulsante di Daniel Weiss a Take It Back, la cui fisarmonica rappresenta il valore aggiunto anche della ballata Vagabond Shoes. Ma il sound della band è caratterizzato anche dalla steel guitar di Ike “Booker” Heaphy che dona un tocco di Nashville-sound a I Wanna Know. E ancora si passa nelle romanticherie di She’s Not Coming Home, nel salsa-blues alla Santana di Key To Your Heart per arrivare al brano più importante, la tesa Only Here, contrappuntata dall’avvertimento “explicit” per il testo che si scaglia senza mezzi termini contro il mercato delle armi negli Stati Uniti. Il brano infatti è definito dallo stesso autore “una chiamata alle armi per distruggere la National Rifle Association”, tra le più accese sostenitrici della carriera politica di Donald Trump purtroppo, ed è una piacevole sorpresa trovare che ancora esiste qualcuno che scrive brani “di protesta”, sebbene difficilmente capaci di poter smuovere coscienze come riuscivano un tempo questo tipo di canzoni.

In ogni caso, al fine di far arrivare l’invettiva a più persone, nel finale del disco è presente una “Radio Safe Version” censurata nelle parole più forti per venire incontro alle limitate capacità di non scandalizzarsi per lo sproloquio del pubblico americano, con la censura del verso “Non abbiamo bisogno di armi per proteggere un posto dove ci si inginocchia e si prega, abbiamo solo bisogno di distruggere la fottuta NRA” ad esempio. Every Bartender in This Town Knows My Name è invece un divertente country che serve a far calare i toni e riportare il registro in modalità ironia, a chiusura di un disco frizzante e con quel sound da roots-music degli anni 80 che non ci stancheremo mai di amare.

BILL RYDER-JONES

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