martedì 21 aprile 2020

G.LOVE & THE SPECIAL SAUCE

G. Love and Special Sauce
The Juice Love
[Philadelphonic/ Goodfellas 2020]
philadelphonic.com

 File Under: funky-rap-blues-jam
di Nicola Gervasini (27/02/2020)

Ammetto che sapere che sia uscito un nuovo disco dei G. Love and Special Sauce in pieno 2020 mi ha portato alla classica reazione “ah, ma sono ancora in giro?”, espressione che si riserva a quegli artisti che ad un certo punto si sono persi di vista, forse perché in qualche modo legati ad un’epoca musicale ben precisa. Invece loro, come tante altre sigle uscite negli USA negli anni 90, ai tempi categorizzate come “jam-bands” o (per chi se lo ricorda) appartenenti alla “scena H.O.R.D.E” in onore ad uno dei festival più noti dell’epoca, non hanno mai smesso di esserci e di suonare in perenne tour, con seguiti di pubblico che farebbero gola al 99% degli artisti usciti dal 2000 ad oggi, nonché di produrre dischi.

Il leader G Love (Garrett Dutton il suo vero nome) tra il 2004 e il 2011 ha prodotto anche tre dischi “da solista”, ma la sostanza in fondo non è mai cambiata, con o senza i Special Sauce. Che nel 2020 conservano la line-up a trio degli esordi, con il fedelissimo Houseman (Jeffrey Clemens) alla batteria e il rientrato da qualche anno Jimi Jazz (Jim Prescott) al basso. The Juice è il nono album, e se magari non crea più lo stesso clamore di un tempo oltreoceano (ricordiamo che ben tre album della band arrivarono nei primi posti della billboard americana), ritrova un combo ancora desideroso di suonare il proprio strambo mix di mille generi. Perché poi, rispetto a molte altre band del carrozzone jam-bands, loro sono sempre stati i più difficili da catalogare, grazie all’inserto di elementi funky e blues, da mischiare a reminiscenze di psichedelia sixties, elementi roots-rock, e si potrebbe anche andare avanti nell’elenco.

Oggi questo “crossover” (sto utilizzando termini che non usavo da anni e quasi un po’ mi emoziono) di generi è ormai all’ordine del giorno, persino démodé se vogliamo, ma si sa che la filosofia della scena era quella di produrre in studio le basi che sarebbero servite poi a lunghe improvvisazioni dal vivo. Registrato a Nashville, il nuovo disco guarda però più limitatamente al blues, fatto evidente fin dal nome degli ospiti, che sono Marcus King nella title-track, Keb’ Mo’ in Go Crazy e Birmingham, quest’ultima impreziosita anche dalla slide di Robert Randolph, oltre al funambolico Roosevelt Collier che segue il funky-rap di Soulbque con la sua pedal steel guitar. Il clima generale è festoso e danzereccio, G. Love non ha perso quella modalità un po’ rappata di cantare, anche quando il brano ruba riff ai classici (John Fogerty potrebbe riconoscersi in quello di Shake Your Hair), tanto che quando il ritmo incalza risulta sempre a suo agio, mentre qualche problema arriva quando il brano è leggermente più lento o melodico come She’s The Rock.

In ogni caso c’è da battere il piedino per 40 minuti, senza troppi pensieri e scavando a piene mani nelle radici della musica nera statunitense (non a caso qui Diggin’Roots è il titolo di un duetto con il soulman Ron Artis II). Consigliato per i momenti di malumore.


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