mercoledì 30 settembre 2020

MARY CHAPIN CARPENTER

 


  
 

Mary Chapin Carpenter
The Dirt and the Stars

[Lambent Light/ Goodfellas 2020]

 Sulla rete : marychapincarpenter.com

 File Under: it's ok to be sad


di Nicola Gervasini (07/09/2020)

Abbiamo sempre seguito con interesse la carriera di Mary Chapin Carpenter, ormai una vera veterana della canzone country d’autore americana, arrivata all’esordio nel 1987 con l’album Hometown Girl (dove tra l’altro rifece Dowtown Train di Tom Waits molto prima che Rod Stewart e Bob Seger se la litigassero) in quel periodo d’oro della New Nashville che ci portò anche nomi come Lyle Lovett, Dwight Yoakam e Steve Earle. Ai tempi il suo nome veniva spesso accostato a quello di Lucinda Williams come le più promettenti autrici della nuova scena, e non è un caso che la Carpenter vincerà un Grammy proprio grazie alla cover di Passionate Kisses di Lucinda.

Eppure, le analogie finivano lì, perché le due possono tranquillamente essere prese ad esempio di due modi completamente opposti di intendere l’arte del songwriting al femminile. Laddove Lucinda ama i toni rauchi, i testi diretti e sofferenti, e lascia spesso la polvere della strada depositarsi sui suoni dei suoi album, la Carpenter ama l’eleganza, gli angoli smussati, i suoni soffici, e testi personali sì, ma sempre concilianti anche quando traspare il dolore. Per questo forse la sua storia musicale è molto meno conosciuta da noi, dove il fenotipo della cantante country melodica non ha mai troppo attecchito (penso a quanto è stata poco celebrata nella nostra patria una come Emmylou Harris, anche dalla critica specializzata), eppure la sua discografia è ormai importante (partite dall’accoppiata Come on Come On del 1992 e Stones on The Road del 1994, nel caso). E, soprattutto, ultimamente il sopraggiungere di una certa età (ha passato i sessanta ormai) le sta donando una maggiore sicurezza nei propri mezzi, già presente nei precedenti The Things That We Are Made Of del 2016 e Sometimes Just the Sky del 2018, ma decisamente evidente in questo The Dirt and the Stars, che si candida fin da subito a suo miglior disco degli anni 2000.

E che dimostra quanto ancora conti molto il lato produttivo in un’era di home-made records, visto che se il disco suona davvero bene, sicuramente lo si deve alla produzione di primissimo livello di Ethan Johns, e al fatto che l’album sia stato registrato in Inghilterra negli attrezzatissimi studi della Real World di Peter Gabriel. Segno di un budget alto, che sta a significare che ancora il suo nome qualche cosa conta nelle alte sfere del mondo nashvilliano, uno dei pochi dove l’industria discografica ancora raggiunge ingenti fatturati. Vi consiglio di seguire i brani con i testi perché il viaggio emotivo è di primo livello, poi chi la conosce sa bene che il suo stile predilige le lente ballate intime e adotta raramente grammatiche country classiche, ma qui l’aggiunta è che si concede qualche brano più ruvido in zona Lucinda Williams (American Stooge), e qualche soluzione melodica più indie-like che piacerebbe a Ryan Adams, come All Broken Hearts Break Differently e Asking for a Friend.

domenica 27 settembre 2020

ENNIO MORRICONE

 

Ennio Morricone, morto a 91 anni il grande compositore - Corriere.itC’era una volta la Musica. Per Ennio Morricone

 

Penso che non esista traguardo più grande per un musicista di quello di veder scritto in una qualsiasi recensione di un disco altrui “un brano alla…” con il proprio nome accanto. Già, perché poi i “brani alla…” sono dei veri e propri generi musicali, legati ad un nome specifico, ma diventati punto di riferimento estetico e stilistico per chiunque. E così se vi dico “un pezzo alla Ennio Morricone” non ho bisogno di passarvi anche un link di una delle sue colonne sonore perché voi abbiate già bene in mente di cosa si parla. I fischiettamenti, gli urletti (“ah-ee-ah-ee-ah” secondo un coccodrillo del Washington Post che è già entrato nella storia, ma aprirei un dibattito sulla correttezza dell’onomatopea), le armoniche piangenti, le campane che suonano nei deserti, e quelle chitarre suonate sui toni bassi o riverberate. Insomma, il suono era questo a grandi linee, ma sappiamo benissimo che questo era solo il Morricone sentito nei film di Sergio Leone e in tanti altri spaghetti-western, perché chi ha studiato poi bene l’artista sa che quel sound, rielaborato dal mondo delle colonne sonore dei western classici americani, era solo una piccola fetta del suo immaginario sonoro. Che tornò buono per il grande cinema di azione o di sentimenti, così come per i tanti film “di cassetta” (per non dire di “serie B” o “popolari”, come li avrebbe definiti un critico cinematografico quarant’anni fa).

La grandezza di Morricone stava nella sua cultura musicale, immensa, nata nel mondo delle orchestre Rai e della casa discografica RCA, dove musica classica, leggera, jazz, e il nuovo rock che veniva dall’estero, venivano passati al setaccio per dare in pasto al pubblico “generalista” orchestrazioni per spettacoli televisivi, fiction RAI o film. Musiche che rappresentano una delle più grandi e mai troppo valutate eredità culturali del secolo scorso. Morricone è stato dunque la punta di diamante di una schiera di autori come (dimenticandone tanti) Nino Rota, Pino Donaggio, Fabio Frizzi, financo ad arrivare agli Oliver Onions dei fratelli De Angelis che oggi risuonano nella musica di tanta musica indie italiana, e non parlo solo dei Calibro 35.

Abbiamo fatto grande cinema, e l’abbiamo musicato ancora meglio a volte. E se Morricone è stato il migliore è stato proprio perché si è rivelato il più poliedrico, il più attento a tutto quello che succedeva nel mondo della musica. Ha, come tutti gli autori di colonne sonore, “rubato” e preso a prestito dalla musica del momento, restituendo però sempre il maltolto in una veste migliore, a volte più elegante, a volte semplicemente completamente rivisitata alla sua maniera. Riascoltatevi (anzi, rivedetevi) The Mission, il film di Roland Joffè con Robert De Niro del 1986, vi troverete tracce di tutto l’immaginario musicale del secolo scorso, impastate dalla sua inconfondibile mano. Molte delle musiche di Morricone vivono anche senza le immagini per cui sono nate, e sicuramente vale la pena anche farsi una sua discografia essenziale, ma alla fine il vero incontro che faremo con lui anche dopo la sua morte è sullo schermo, grande o piccolo che sia visti i tempi, perché la sua arte risplende al meglio in mezzo ai colori di quei registi che meglio hanno saputo apprezzarla e utilizzarla.

Per dirla come la canzone che gli U2 gli dedicarono apertamente nel 2009 (Magnificent), Addio Magnifico.

giovedì 24 settembre 2020

COURTNEY MARIE ANDREWS

 BY  · AGO 2, 2020

Dalla scena folk contemporanea: Courtney Marie Andrews – Old Flowers.

Ci sarebbe da ragionare molto sul perché le tantissime artiste che hanno popolato questi anni duemila abbiano spesso scelto la via del folk per esprimere al meglio i propri sentimenti, seguendo la lezione di Joni Mitchell prima, e Suzanne Vega poi, con le dovute personali variazioni sul tema. Tra le nuove leve di questi ultimi anni, Courtney Marie Andrews è sicuramente l’artista più legata a schemi interpretativi classici, e questo Old Flowers, suo ottavo album se contiamo le pubblicazioni indipendenti giovanili, pare ribadirlo fin dal titolo.

Recensione: Courtney Marie Andrews – Old Flowers

Loose/Fat Possum Records – 2020

Un ritorno all’essenzialità che pareva doverosa dopo che qualcuno aveva storto un po’ il naso per il tentativo di riempire la propria musica del precedente May Your Kindness Remain, in verità anche quello ottimo disco, nonostante una produzione più attenta a riempire gli spazi e a cercare soluzioni più lontane dal folk.

Old Flowers non è un ritorno al passato per Courtney Marie Andrews

Non è però una resa questo Old Flowers, semmai un voler ribadire la propria natura, e un sentirsi più a proprio agio con una semplice soluzione voce-chitarra o piano. Non che un brano come Burlap String suoni scarno, con il suo giro “neilyounghesco” e la sua cullante steel-guitar, ma è evidente fin dalla sequenza iniziale (Guilty, con un piano che sta anche qui dalle parti di After Gold Rush, e una intensa If I Told, con un discreto tappeto di spazzole e suoni a commentare un lungo racconto), che stavolta il focus è tutto sulla voce di Courtney e sulle sue parole.

Per cui non aspettatevi nessuna accelerazione, anzi, le piano-ballad Together Or Alone e Carnival Dream calcano la mano sul lato malinconico dell’album, andando a invadere il campo di certe country-singers come Iris DeMent o Tift Merritt per la prima, più in zona Natalie Merchant la seconda. La title-track arriva ad allentare la tensione con un mid-tempo alla Aimee Mann, ma ancora la devastante Break The Spell ti obbliga al silenzio totale per poterne gustare ogni minimo suono e sussurro (davvero buono comunque il lavoro del produttore Andrew Sarlo, già sentito al lavoro con i Big Thief, il cui batterista James Krivchenia è protagonista anche in queste sessions).

Un disco a suo modo incalzante

Il ritmo si alza solo con It Must Be Someone Else’s Fault, prima che la bellissima How You Get Hurt riporti tutto nell’atmosfera intima e sofferta dell’album. In chiusura Ships In The Night segue melodie da traditional folk per una metafora sulla propria vita, a dimostrazione di un’artista non serena, ma serenamente convinta della forza delle proprie canzoni, presentate qui nella maniera più semplice possibile, ma assolutamente non frettolosa e sciatta. Una conferma che fa il paio con Song For Our Daughter di Laura Marling come il miglior esempio di letteratura musicale femminile contemporanea.

domenica 20 settembre 2020

ELISA DE MUNARI - ELLI DE MON

 

Elisa De Munari, Countin’ The Blues. Donne indomite
[Arcana, 207 pp.]

di Nicola Gervasini

J.H Cone, padre della “teologia nera” (che propone di ripensare la fede cristiana a partire dall'esperienza dei neri d'America), una volta disse che “la Gente del Blues non leggeva Karl Marx”. Il paradosso che sottolineò, infatti, era che, nonostante la sua natura di musica popolare e di fulcro culturale identitario di un popolo oppresso, raramente il blues si era fatto portatore di istanze politiche o di vere e proprie rivendicazioni sociali. Anzi i brani dei bluesman più classici si risolvevano spesso in un sofferente canto individualista, e il razzismo lo davano quasi per scontato, non arrivano quasi mai a contestarlo apertamente. Ma se è vero che il popolo nero è arrivato ad una vera e propria coscienza di classe in senso marxista solo negli anni Sessanta, va anche ricordato che l’industria discografica che portò il blues nelle radio degli americani prima della Seconda Guerra Mondiale era bianca, e, quindi, certo non portata a soffiare sul fuoco della rivoluzione.

Questo porta quindi a pensare che il Reverendo Cone possa anche essersi sbagliato, e che forse negli anni Trenta qualcosa accadeva per le strade e nei tanti show itineranti dell’epoca. Magari quello che avvenne ad esempio durante la guerra del Vietnam, quando sembrò erroneamente che la comunità nera si disinteressasse della questione e delle lotte pacifiste dei bianchi californiani, almeno fino a quando, intorno al 1970, non uscirono i primi successi soul dedicati dall’argomento, come War di Edwin Starr o What’s Going On di Marvin Gaye. Anni dopo si scoprì che invece fin dal 1964 i bluesman denunciarono nelle loro canzoni, sia l’orrore di una guerra insensata, sia il fatto che poi a morire nella giungla ci andavano soprattutto i neri. Peccato però che quelle canzoni vennero scritte, alcune anche registrate, ma mai pubblicate per censura, alimentando quindi una falsa percezione di come la comunità nera viveva gli avvenimenti di quegli anni.

Ed è la stessa falsa percezione che vuole combattere Elisa De Munari, cantante di blues che già abbiamo più volte incontrato sulle nostre pagine con il suo nome d’arte Elli De Mon, che avanza con questo Countin’ The Blues una teoria molto provocatoria sull’impegno sociale del pre-war blues. La sua idea è che una rivoluzione invece c’è stata, ma è rimasta nascosta non solo per le ragioni di cui sopra, ma anche perché era tutta declinata al femminile. Insomma, il nemico era grande, ma anche doppio, e si chiamava non solo razzismo, ma anche maschilismo. Per questo la De Munari ci porta in un viaggio attraverso undici figure di donne del blues davvero poco celebrate (forse Bessie Smith a parte), che hanno definito non solo un modo di scrivere al femminile crudo, diretto e per nulla conciliatorio, ma anche una enorme carica innovativa musicale, spesso ingiustamente cannibalizzata dai colleghi maschi. E lo fa con un interessante parallelo tra la storia di queste blues-women, e quella delle esperienze dirette dell’autrice stessa, e di una schiera di colleghe dei giorni nostri, che tutt’ora devono lottare non solo contro i normali problemi degli artisti indipendenti, ma anche con lo svantaggio di essere donna.

Countin’ the Blues infatti non vuole essere un libro di storia della musica, e neppure un manuale. Verrete sì a sapere cosa succedeva negli anni Trenta negli Stati Uniti e come suonavano il blues queste donne, ma non troverete consigli discografici, ma semmai storie odierne (e tutte italiane) fatte di colleghi maschi sprezzanti, pregiudizi immotivati, battute e avanches inopportune e non richieste, e l’impossibilità di guadagnarsi l’autorevolezza normalmente riconosciuta ai maschi se non combattendo sul campo col doppio dello sforzo. Nulla che ogni donna non debba già affrontare ogni giorno in qualsiasi ambito lavorativo, ma va detto che il quadro che ne esce sull’apertura mentale del mondo musicale italiano non è dei più edificanti. E se il libro spesso si sbilancia molto a raccontare il presente più che il passato, è proprio perché la De Munari trova una grande sincronia tra quanto non sia mai stata riconosciuta e correttamente pesata l’importanza (sia artistica, sia di contributo alla lotta dei diritti umani) di Bessie Smith e compagne, con quanto la lotta quotidiana e nascosta sua e delle sue colleghe, sul palco, sui social, e ovunque, sia un qualcosa che tutti sottovalutiamo.

E l’aver lasciato tanto spazio anche ad altre voci impedisce al libro di sembrare un'invettiva personale, raggiungendo il risultato di trovare in questa nuova scena femminile nostrana segni dell’eredità artistica delle madri del blues. I contributi arrivano quindi da Folake Oladun, Sara Piolanti, Monique Mizhrai, Francesca Morello (R.Y.F.), Stefania Alos Pedretti, Helena Velena, Susanna La Polla De Giovanni (Suz), Francesca Bono, Astrid Dante, Francesca Pizzo, Elisa Abela, Maria Antonietta, Sara Ardizzoni, Anna Mancini, Claudia De Simone, Marta Franceschi, Caterina Palazzi, Vespertina e Francesca Amati, le cui carriere musicali da soliste o in gruppi vi lascio scoprire nel libro, se già non le conoscete. Nessuna di loro è una scrittrice, e poche suonano abitualmente blues, ma lo stile libero con cui raccontano la loro sintonia con il blues al femminile fa sì che il libro assuma, nelle parti a loro dedicate, un tono quasi colloquiale, da chiacchierata tra amiche, a cui fa da contraltare il rigore storiografico e i tanti racconti autobiografici dell’autrice e la prefazione dell’unico uomo ammesso al circolo, Gianluca Diana.

Nel mondo del blues si è discusso spesso sul fatto se fosse o no vero che solo i neri potevano suonare il “vero blues”, in una sorta di razzismo al contrario che per anni ha popolato l’immaginario musicale mondiale (alla Vorrei La Pelle Nera di Nino Ferrer insomma). Quello che Countin’ The Blues ci fa capire è che se invece mai si è discusso se il blues fosse roba da uomini o da donne, è solo perché si è sempre data per scontata la risposta, e si è sempre ignorato l’esistenza delle seconde come possibili punti di riferimento. Ci volle il successo della bianca Bonnie Raitt negli anni Settanta perché una donna riuscisse a farsi valere non solo come “cantante carina dalla voce dolce”, ma “anche” come chitarrista di grande tecnica, e ad oggi ancora la lotta non è affatto finita. Lo sa bene anche Elli De Mon, l’alter-ego da battaglia di Elisa De Munari, che continua a sognare di partire dal famoso crocicchio di Robert Johnson per realizzare il suo sogno di essere un grande musicista blues, trovando possibilmente sulla sua strada gli ostacoli del diavolo, non di tutti i poveri diavoli.


    

 

Le 11 artiste raccontate in Countin’ The Blues
(a cura di Nicola Gervasini)

Bertha "Chippie" Hill (1905 – 1950), è nota soprattutto per il brano Trouble in Mind, inciso nel 1926 con l’accompagnamento della tromba di Louis Armstrong, e divenuto più tardi uno standard nelle versioni di successo di Dinah Washington e Nina Simone. Il brano affronta la questione razziale vista però dal punto di vista di una donna, costretta a subire una doppia discriminazione. Morì a 45 anni per un incidente stradale, molto probabilmente perché abbandonata morente sulla strada in quanto di colore.

Da cercare: Complete Works, Vol. 1 1925–1929 (Document)
  

Ma Rainey, nome d'arte di  Gertrude Pridgett (1886 – 1939), fu una delle prime donne ad incidere brani blues. Nota per il suo stile aggressivo (“The Assassinator of Blues” la chiamarono) e le sue pose sconce e provocatorie sul palco, si esibiva spesso col marito, ma parlò d’amore per la prima volta non con il tono della brava moglie sottomessa, ma con l’orgoglio della donna libera di decidere del proprio corpo. Compreso anche l’amore saffico, provato anche con la sua pupilla Bessie Smith, tanto che la sua Prove It on Me Blues parla per la prima volta apertamente di un amore tra donne.

Da cercare: Mother Of The Blues (JSP/5Cd Box Set)
  

Lucille Bogan (1897 – 1948) incise anche come Bessie Jackson. La sua rivoluzione avvenne attraverso il tema della liberalizzazione sessuale e la scoperta del piacere femminile, e per questa ragione è ricordata soprattutto per i suoi testi al limite della censura, tra i pochissimi dischi di pre-war blues ad avere il bollino “Parental Advisory-Explicit Lyrics”. Shave Em Dry, brano del 1935 (poi riproposto anche da Dr John), inizia ad esempio così: “Ho i capezzoli sulle tette, Grandi come la fine del mio pollice, Ho qualcosa tra le gambe, Che farebbe venire un uomo morto”. Il verso “you make a dead man come” chiude anche Start Me Up dei Rolling Stones…

Da cercare: Shave 'Em Dry: The Best Of Lucille Bogan
  

Alberta Hunter (1895 – 1984). Nota soprattutto per il brano Downhearted Blues, divenuto poi anche uno standard per Ella Fitzgerald. Il brano rivendica con un linguaggio metaforico, noto nel blues come “double talk”, il proprio diritto ad essere amata da un uomo che non sia violento perché frustrato dallo sfruttamento, e traccia quindi un primo interessante parallelo tra la condizione della donna e quello degli schiavi neri.

Da cercare Downhearted Blues – Live at the Cookert (Rockbeat)
  

Lottie Kimbrough Beaman (nata probabilmente nel 1893, non si hanno notizie sulla morte). Soprannominata anche The Kansas City Butterball in considerazione della sua imponente stazza fisica, incise solo tra il 1925 e il 1929. La sua I’m Going Away era un blues che raccontava di una donna che si fa coraggio e lascia il marito violento che abusa di lei, salvo però poi perdonarlo nel finale. È fondamentale per come racconta, in maniera molto moderna, la difficoltà e la solitudine di una donna nel tentare di liberarsi dai soprusi che la circondano.

Da cercare The Best of Country Blues Woman (Wolf Records)

Bessie Smith (1894 – 1937) Anche la più celebre delle “donne blues” deve la sua morte al fatto che l’ambulanza che la soccorse dopo un incidente stradale non poté portarla al più vicino ospedale perché riservato solo ai bianchi. La sua tomba inoltre rimase senza nome per anni, finché Janis Joplin nel 1970 pagò di tasca sua per una lapide. Secondo la De Munari “Bessie aveva capito che tramite il blues, che era fatto tutto di tensione umana e sovraumana, di sacro e profano, poteva trasmettere il suo pensiero e renderlo universale” Il blues di Bessie Smith uscì insomma dalla dimensione individuale per farsi parole di lotta e coraggio per tutti. “Con lei nacque una nuova estetica: l’artista divenne la canzone stessa. Bessie non interpretava le parole, le viveva in prima persona.”

Da cercare: The Anthology (Not Now 2Cd)
  

Sippie Wallace (nata Beulah Belle Thomas, 1898 – 1986) Il blues di Wallace è intriso di senso religioso, e il suo brano Adam and Eve Had The Blues espresse con grande fervore tutta la contraddizione del fatto che il fallimento del suo matrimonio per il suo rivendicare il diritto alla sua identità e libertà di donna, cozzasse contro il suo credo religioso. Bonnie Raitt incise due suoi brani nel suo primo album del 1971, e la volle come set spalla per il suo primo tour, considerandola la sua vera madrina artistica.

Da cercare: Women Be Wise (Alligator Records)
  

Memphis Minnie, vero nome Lizzie Douglas (1897 – 1973), è generalmente considerata la prima donna a passare al blues elettrico, grazie alle sue frequentazioni con la scena blues di Chicago. Di lei si disse che “suonava come un uomo, ma in realtà molti uomini avrebbero voluto suonare come lei”. La sua When the Levee Breaks, metafora dell’oppressione espressa dal racconto di un’alluvione, è una dei pochi blues che i Led Zeppelin non hanno osato far passare come scritto da loro.

Da cercare: Essential Recordings (Primo Collection)
  

Elizabeth "Libba" Cotten (1893 –1987). La madre di tutti i chitarristi mancini, inventò uno stile particolare dettato dal fatto di tenere la chitarra fondamentalmente al contrario, con le note gravi in basso e quelle acute in alto. Eppure, così come Memphis Minnie, viene sempre dimenticata negli elenchi dei chitarristi più innovativi del secolo, nonostante a lei si debba anche la tecnica del fingerpicking rielaborata per il blues (il famoso “Cotten Picking”), reso celebre grazie al brano Freight Train. Sua nipote, Brenda Joyce Evans, è la cantante del gruppo funky The Undisputed Truth.

Da cercare: Shake Sugaree (Smithsonian)
  

Victoria Regina Spivey (1906 – 1976). È lei la donna seduta al piano sul retro della copertina di New Morning di Bob Dylan, una foto del 1962 presa quando il giovanissimo Dylan assistette alle sue session con Big Joe Williams. Anche lei considerata una delle più influenti blues-singer del secolo scorso, eppure pochissimo celebrata per via dei suoi pochi peli sulla lingua nel parlare di sesso, droga (la De Munari nel libro esamina Dope Head Blues sull’argomento), e crimini vari, che era poi quello che vedeva nel suo mondo, visto che per anni si esibì nei bordelli. Per questo suo anticonformismo estremo è considerata una sorta di punk-dark anti-litteram, non a caso spesso omaggiata da Diamanda Galás.

Da cercare: Collection (Acrobat)
  

Geeshie Wiley, nome d’arte di Lillie Mae Boone (1908 – 1950), ma prendete i dati con le pinze perché alcune leggende ipotizzano che addirittura non sia mai esistita. Personaggio misterioso, in grado di lasciare pochissimi brani registrati, ma immortali come Motherless Child Blues e Skinny Legs Blues (la rifanno David Johansen in Shaker e Rhiannon Giddens in Tomorrow Is My Turn), prima di sparire nel nulla nel 1931. Skinny Legs Blues, brano intriso di morte e dolore, è una delle prime testimonianze del dolore di una moglie alla partenza del marito per la guerra (in questo caso la Prima Guerra Mondiale), e sarà il modello per tantissimi brani sul tema usciti poi durante la Guerra del Vietnam. Per un trattato sul brano consiglio anche il libro Three Songs, Three Singers, Three Nations di Greil Marcus, in cui vengono messe a confronto Skinny Legs BluesBallad of Hollis Brown di Bob Dylan e I Wish I Was a Mole in the Ground di Bascom Lamar Lunsford.


Una playlist ispirata dalle artiste di Countin’ The Blues



martedì 15 settembre 2020

THE CLAUDETTES

 


  
 

The Claudettes
High Times in the Dark

[Forty Below Records 2020]

theclaudettes.com

 File Under: piano blues

di Nicola Gervasini (17/06/2020)


Un critico del Minneapolis Star-Tribune li ha definiti “una band di cabaret distorto che suona blues, jazz e rockabilly con una sensibilità che si divide in parti uguali tra James Dean e David Lynch”. Al di là delle boutade che piacciono tanto ai noi critici musicali per insaporire le recensioni, penso che la definizione sia effettivamente la più azzeccata per descrivere l’idea spericolata che sta dietro il progetto dei Claudettes, band che ha davvero molto da insegnare alle miriadi di blues-band (anche italiane) che troppo spesso si accontentano di seguire le dodici battute senza troppa originalità.

Loro infatti blues-band lo sono a tutti gli effetti, con una vocalist di stampo classico come Berit Ulseth, un pianista invasato di Allen Toussaint di nome Johnny Iguana (uno che ha nel curriculum sessions con Junior Wells e Buddy Guy a testimonianza della sua formazione tradizionale), e una sezione ritmica formata da Michael Caskey alla batteria e Zach Verdoorn (bassista, ma all’occorrenza anche unica chitarra della band). High Times in the Dark è il loro quinto album, ma rappresenta un deciso salto di qualità per il quale gran merito va anche dato al produttore Ted Hutt (nel suo curriculum figurano Violent Femmes, Old Crow Medicine Show, Flogging Molly e Lucero, e penso possano bastare), che li ha seguiti e assecondati nella loro originale idea di blues da strada. E se l’iniziale Bad Babe, Losin’ Touch resta ancora nel recinto della tradizione, il boogie-punk di 24/5 è davvero un episodio riuscito, in cui il canto jazzy e impostato della Ulseth si scontra con il piano selvaggio (alla Jim Jones Revue quasi) di Iguana. Un grande pezzo che però ancora viene contraddetto dalla successiva I Swear To GoId, I Will, dove piano e arrangiamento quasi orchestrale riportano il tutto su una suadente e romantica linea melodica.

La Ulseth dimostra la sua versatilità in Creeper Weed, dove canta con toni alti su una pulsante base di boogie da bar, che apre la strada ad una serie di brani dove ritmi indiavolati e pianoforti con Jerry Lee Lewis nel motore fanno a pugni con strutture melodiche swingate e carezzevoli. Un connubio che funziona, e anzi evita quella leziosità che ha spesso infettato lo swing-revival di questi anni, rendendo i Claudettes, pur in tutta la loro retro-mania, un gruppo che riesce ad ergersi dalla massa. Bello anche il gioco a due voci di I Don't Do That Stuff Anymore e le variazioni sul tema, come la ballata anni 50 di You Drummers Keep Breaking My Heart (anche qui è il piano che prova a scardinare gli schemi classici del genere). Spazio ad un tocco malinconico solo per il finale di The Sun Will Fool You, piano-ballad alla Laura Nyro che chiude un album old-style fresco e per nulla banale.

venerdì 11 settembre 2020

TIM BURGESS

 BY  · GIU 17, 2020

Madchester è lontana, ma ritroviamo in grande forma uno dei protagonisti: Tim Burgess – I Love the New Sky.

A vederlo sulla copertina di questo I Love the New SkyTim Burgess ha tutto fuorché la faccia di un cinquantatreenne con ormai una lunga carriera alle spalle, ma ha più lo sguardo sicuro e strafottente del ragazzino al disco di esordio.

Tim Burgess - I Love the New Sky

Invece lui è ormai un veterano della musica britannica, protagonista con i suoi Charlatans di quella stagione di grande fermento musicale che ruotò intorno alla scena di Manchester nei primi anni 90 (o, come si diceva ai tempi, “Madchester”), un’epoca dove non era affatto un sacrilegio unire la lezione strambo-folk di Syd Barrett con i ritmi della House che impazzavano nei club del Regno Unito. Nei 2000 ha affiancato alla mai interrotta storia della band (il loro tredicesimo album, Different Days, è datato 2017) una pigra e timida carriera solista, perlopiù improntata a provare generi e soluzioni diverse da quelle rese possibili dal processo creativo dei Charlatans.



Disco solista perfezionato durante il lockdown

I Love the New Sky è il quinto album a suo nome, ed esce dopo un periodo di quarantena che lo ha visto protagonista su Twitter come animatore di “Listening Party” che hanno coinvolto colleghi e pubblico in attesa della fine del lockdown. Un periodo in cui Burgess ha anche affinato la produzione per nulla banale di questi brani, nati su una chitarra acustica con l’intento di un disco da songwriter classico, ma poi finiti per diventare una variopinta e quasi sovraprodotta (senza dare un senso spregiativo al termine) esplosione di colori pop.


 

Alla fine ha vinto il suo background fatto del Paul McCartney meno prevedibile e delle sperimentazioni da studio di Brian Eno, come affiora nella costruzione non certo canonica di brani come The Mall, che tra soluzioni Prog e cori alla Beach Boys piacerebbe persino a uno come Steven Wilson, o la barocca Comme D’Habitude. Persino il pop alla Cure dell’iniziale Empathy ricorda con prepotenza la sua appartenenza musicale, così come l’indie-pop alla Blur di Sweetheart Mercury.

Tim Burgess eccelle in I Love the New Sky

Il disco è stato co-prodotto da Daniel O’Sullivan dei Grumbling Fur, che si sobbarca anche le parti di batteria e di pianoforte (alla chitarra invece resta il fido Mark Collins dei Charlatans), dimostrandosi fine e mai scontato cesellatore di soluzioni sicuramente retrò e citazioniste, ma che chissà come mai suonano davvero fresche anche in questo 2020.


 

Il disco prosegue con la più casalinga e volutamente sgangherata Sweet Old Sorry Me, brano che introduce alle distorsioni di Warhol Me, sorta di omaggio in salsa british ai Velvet Underground. La passione per il muro di suoni orchestrali ritorna in Lucky Creatures, bella pop-song in zona Verve, mentre l’intima Timothy e la leggera Only Took A Year portano a quel piccolo gioiello di arte dell’arrangiamento che è I Got This, che poteva anche chiudere l’album. La durata invece raggiunge i 53 minuti grazie ad una Undertow immersa negli archi e al dolciastro finale di Laurie. Piacevole sorpresa questo album, ottimamente suonato e prodotto, a dimostrazione che ancora esiste qualcuno che considera l’album in studio come punto di arrivo della vita d’artista, e non come scusa per un tour.

martedì 1 settembre 2020

BOB DYLAN

 


Bob Dylan

Rough anRowdy Ways

[Columbia 2020]

bobdylan.com
 File Under: My last pages

di Nicola Gervasini (29/06/2020)


Sapendo quanto le canzoni di Bob Dylan siano spesso dei "copia e incolla" da suoi progetti abortiti o abbandonati nel tempo, non è facile dire con sicurezza se questo Rough and Rowdy Ways sia davvero tutto il frutto lirico di un quasi ottantenne a fine carriera, ma per una volta facciamo finta che sia davvero così. E possiamo farlo perché dal punto di vista dei testi, mai così corposi e pieni di spunti da anni (nemmeno nei già parecchio verbosi Modern Times e Tempest), c’è un filo conduttore che lega questi dieci brani, ed è il resoconto crudo e lucido di un’epoca che si sta chiudendo. Anzi, a leggere queste liriche, si è proprio già chiusa direi. Viene quasi da ricordare il citazionismo del Woody Allen che redigeva l’elenco delle cose per le quali valeva la pena vivere nel suo film Manhattan, ma mentre Woody cercava ragioni per vivere il suo presente, Bob ci racconta cosa abbiamo appena vissuto, una sorta di inventario, senza troppe cerimonie, di cosa ci sta lasciando. Sarebbe dunque il commiato perfetto questo Rough And Rowdy Ways, e sicuramente lui vuole farci credere che lo sia, ma poi ci torna in mente che lo si disse anche per Tempest otto anni fa, e quindi stavolta preferiamo non farci fregare. In fondo Leonard Cohen di “ultimi album” ne ha fatti almeno quattro, no?


Se ci siamo presi qualche giorno in più prima di dire la nostra sul disco è quindi anche perché ci vuole tempo per svestirsi dall’emotività del momento, perché pubblicare un pezzo da diciassette minuti come Murder Most Foul in pieno lockdown da Covid-19 è stato un colpo ad effetto da vero showman, scoprire se poi davvero questi brani possano essere importanti nella sua storia, è un discorso da fare con un minimo di “senno di poi”. E in un certo senso le pecche di Rough and Rowdy Ways sono di base le stesse dei suoi dischi auto-prodotti degli anni 2000, a partire dalla confezione spartana e poco curata, che stride non poco con l’amore certosino che mette invece nel creare i libretti delle Bootleg Series, una produzione stavolta leggermente più rifinita nei particolari (e con addirittura un ospite nobile come Fiona Apple), ma sempre improntata ad un "less is better" e un “buona la prima”, e la ormai abituale (e un po’ fastidiosa) facile via del canonico giro blues, laddove non gli vengono in mente melodie migliori (qui ce ne sono ben tre che certo non possono dirsi originali nella scrittura, False ProphetGoodbye Jimmy Reed e Crossing the Rubicon).
Ma oltre queste annotazioni, che ci pare rimanga sempre doveroso fare, stavolta c’è effettivamente un pugno di brani decisamente belli e importanti, con un Dylan che torna a riaprire il cuore per una love-song come I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You (con quel “Non credo che nessun altro lo abbia mai saputo, Ho deciso di donarmi a te” che sembra quasi rivolto a tutti noi), a prodigarsi in due ballate decisamente melodiose come Black Rider o la splendida Mother of Muses, che suona essere la sua nuova My Back Pages (“Madre delle Muse scatena la tua ira, Le cose che non riesco a vedere, stanno bloccando il mio percorso, Mostrami la tua saggezza, dimmi il mio destino, Mettimi in posizione verticale, fammi camminare dritto.”).

E poi ci sono dei veri e propri romanzi, non solo la già citata Muder Most Foul, ma brani come I Contain Multitudes e Key West (Philosopher Pirate), per citare altri due episodi che metterei in una sua ideale antologia poetica per le scuole del futuro, che meriterebbero articoli a parte, e che giustificano da sole quel Nobel subito così controvoglia. Anche da un punto di vista dell’impatto musicale mostrano un Dylan ispirato come non lo si sentiva dai tempi in cui Daniel Lanois arrivava quasi a fargli violenza psicologica per farlo esprimere al meglio. E ben venga sapere che stavolta tale sforzo
 l’abbia fatto da solo, come se davvero sentisse che tutto non poteva finire tra una canzone di Frank Sinatra e un omaggio a Irving Berlin, ma che c’è ancora tantissimo da dire su tutto il secolo precedente che non è mai stato detto: e davvero solo lui può dirlo meglio di tutti.



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