sabato 28 dicembre 2019

BEST 2019


L'immagine può contenere: 6 persone, persone che sorridono
2019: tanto da riascoltare a rivalutare, ma alla fine il 2019 è stata forse l’annata migliore di questo decennio, guardo la lista e vedo che anche fino alla 50esima posizione ci sono dischi comunque validi, e anche fino a 100 meritano tutti comunque un minimo di attenzione

TOP 100: E’ il momento di Kiwanuka, che metto in testa davanti a vari BIG dell’indie-folk come Callahan e Oldham (ma anche i Mercury Rev in versione country e i Purple Mountains di David Berman a cui dedicherei l’annata) che a distanza di 30 anni ormai continuano ad insegnare stile e scrittura. Baro mettendo i Big Thief come se fosse un doppio, decido per il si a Cave ma solo se accompagnato dal vecchio amico Hugo Race, a Steve Gunn la palma di conferma dell’anno e a Native Harrow quello della sorpresa che rivitalizza la canzone femminile roots. Ma poi è stata anche l’annata dei vecchi che stavolta un po’ ce la fanno (tanto che quest’anno rinuncio alla mia consueta top10 “Vecchi che non ce la fanno” per mancanza di seri candidati), con Springsteen e Morrison che finalmente almeno se la giocano, Cohen che dice la sua anche da morto, Iggy Pop e Neil Young che tengono botta dignitosamente e persino gli Who che sul filo di lana entrano con un disco che, concediamolo, ha finalmente senso.

PODIO
1 Michael Kiwanuka Kiwanuka 
2 Bill Callahan Shepherd in a Sheepskin Vest 
3 Bonnie Prince Billy I Made A Place

TOP 10
4 Steve Gunn The Unseen In Between 
5 Nick Cave & The Bad Seeds Ghosteen 
6 Purple Mountains Purple Mountains 
7 Hugo Race Taken By The Dream (& Fatalists) 
8 Mercury Rev Bobbie Gentry's the Delta Sweete Revisited 
9 Native Harrow Happier Now 
10 Big Thief Two Hands/ UFOF

DISCHI CALDISSIMI
11 Van Morrison Three Chords And The Truth 12 Aldous Harding Designer 13 Black Pumas Black Pumas 14 Josh Ritter Fever Breaks 15 Bruce Springsteen Western Stars 16 Allison Moorer Blood 17 Delines The Imperial 18 Dream Syndicate These Times 19 Leonard Cohen Thanks For The Dance 20 Bonnie Bishop The Walk

DISCHI CALDI
21 Ian Noe Between The Country 22 Joe Jackson Fool 23 Billy Corgan Cotillions 24 Orville Peck Pony 25 Peter Perrett Humanworld 26 PP Arnold The New Adventures Of...P.P. Arnold 27 Raconteurs Help Us Stranger 28 Robert Forster Inferno 29 Weyes Blood Titanic Rising 30 Felice Brothers Undress

TOP 100 IN ORDINE ALFABETICO
31 Alan Parsons The Secret 32 Angel Olsen All Mirrors 33 Apparat LP5 34 Bangles 3 x 4 (with Three o'clock, Dream Syndicate & Rain Parade) 35 Beth Bombara Evergreen 36 Better Oblivion Community Center Better Oblivion Community Center 37 Bruce Cockburn Crowing Ignites 38 Buford Pope The Waiting Game 39 Cass McCombs Tip Of The Sphere 40 Chelsea Wolfe Birth Of Violence 41 Chris Knight Almost Daylight 42 Craig Finn I Need A New War 43 Daniel Norgren Wooh Dang 44 Drivin N Cryin Live The Love Beautiful 45 Flesh Eaters I Used to Be Pretty 46 Giant Sand Recounting The Ballads Of Thin Line Men 47 Glen Hansard This Wild Willing 48 GospelbeacH Let It Burn 49 Hold Steady Thrashing Thru the Passion 50 Ida Mae Chasing Lights 51 Iggy Pop Free 52 Jack Ingram Ridin' High...Again 53 Jade Jackson Wilderness 54 James Yorkston The Route To The Harmonium 55 Jamestown Revival San Isabel 56 Jason Ringenberg Stand Tall 57 Jeff Lynne's ELO From Out of Nowhere 58 Jenny Lewis On The Line 59 Jesse Malin Sunset Kids 60 Jim Cuddy Countrywide Soul 61 Joan Shelley Like The River Loves The Sea 62 Joe Henry The Gospel According To Water 63 John Kilzer Scars 64 Kacy & Clayton Carrying On 65 Keb' Mo' Oklahoma 66 Kevin Morby Oh My God 67 Kim Gordon No Home Record 68 Kristin Hersh Crooked 69 Lee Harvey Osmond Mohawk 70 Leyla McCalla The Capitalist Blues 71 Long Ryders Psychedelic Country Soul 72 Mark Lanegan Somebody's Knocking 73 Mavis Staples We Get By 74 Meat Puppets Dusty Notes 75 Mega Bog Dolphine 76 Mekons Deserted 77 Michael Chapman True North 78 National I Am Easy To Find 79 Neil Young Colorado 80 Nils Lofgren Blue With LOu 81 North Mississippi Allstars Up and Rolling 82 Patty Griffin Patty Griffin 83 Redd Kross Beyond The Door 84 Rhiannon Giddens There Is No Other 85 Rickie Lee Jones Kicks 86 Robbie Robertson Sinematic 87 Rustin Man Drift Code 88 Ryan Bingham American Love Song 89 Samantha Fish Kill or Be Kind 90 Son Volt Union 91 Steel Woods Old News 92 Swans Leaving Meaning 93 Tedeschi Trucks Band Signs 94 The Orphan Brigade To The Edge Of The World 95 Tinariwen Amadjar 96 Tindersticks No Treasure But Hope 97 Tom Russell October in the Railroad Earth 98 Violent Femmes Hotel Last Resort 99 Who WHO 100 Wilco Ode To Joy

DELUSIONI
I Wilco hanno rischiato di finirci ma alla fine il disco mi piace abbastanza da tenerli in top, direi a Beck e Sturgill Simpson premio boiata del 2019 senza dubbi, gli altri 8 si ascoltano ma mi aspettavo di più, anche da Jurado che non stava sbagliando un colpo da un po’
1 Beck Hyperspace 2 Sturgill Simpson Sound & Fury 3 Sun Kil Moon I Also Want to Die in New Orleans 4 Sharon Van Etten Remind Me Tomorrow 5 Chris Robinson Brotherhood Servants of the Sun 6 Hiss Golden Messenger Terms Of Surrender 7 Waterboys Where the Action Is 8 Bob Mould Sunshine Rock 9 Bon Iver I, i 10 Damien Jurado In the Shape of a Storm

ITALIANS (ORDINE ALFABETICO) Non faccio classifiche, tra i vari che ho sentito quest’anno solo tre dischi in inglese che potrebbero stare anche in top 100 (Gold Mass , Gospel Book Revisited e Edward Abbiati) , per il resto conferme dei due nomi che più seguo in Italia da anni a questa parte (Nada e Cesare Basile), il bel disco di Larocca con Hugo Race, e mi è paiciuto e ho ascoltato molto anche il duetto Di Marco-Donà. Qui però devo ancora sentire Francesco Piu, Cheap Wine e Mandolin Brothers in ambito roots che ancora non ho preso ma ne parliamo nel 2020 :-).
Cesare Basile Cummeddia Edward Abbiati Beat The Night Gianmaria Testa Prezioso Ginevra Di Marco & Cristina Donà Ginevra Di Marco & Cristina Donà Gold Mass Transitions Gospel Book Revisited - Morning Songs & Midnight Lullabies Humpty Dumpty La Vita Odia La Vita Massimiliano Larocca EXIT ENFER Massimo Volume Il Nuotatore Nada E' un Momento Difficile, Tesoro

martedì 10 dicembre 2019

ANDREA CANIATO

Andrea Caniato
Cos' è la vita amico mio
[2A Records 2018]

 
File Under: Storie da sotto la Mole


facebook.com/andreacaniato.onemanband

di Nicola Gervasini

Così è la vita amico mio è il titolo rassegnato e fatalista dell’esordio del cantautore torinese Andrea Caniato, fino ad oggi leader della band locale dei Node (un album all’attivo, In the end Everything Is a Gag del 2009), che sceglie la formula del one-man-band da strada per proporre un pugno di canzoni in italiano scritte in collaborazione col paroliere Elia Rossi. Il risultato è un disco cantautorale di stampo molto classico, al di là delle sonorità da busker di piazza dotato della loop station di ordinanza e di qualche effetto su chitarra e voce, con taglio spesso volto al blues (come il primo singolo Lo Sai, sorta di sfogo nato durante un tragitto in macchina particolarmente trafficato), ma con liriche anche molto personali che esorcizzano alcuni lutti di famiglia o temi sociali, vedi la scalcagnata banda di malviventi che anima le liriche di Il più bello dei sette. Ovviamente non sfuggirà ai suoi concittadini un titolo come Il Rigore di Zaza, in verità ironico sproloquio che comprende varie disgrazie quotidiane di cui l’attaccante del Torino è solo un casuale rappresentante. In brani come Canti Amari si rende evidente una sua doppia vocazione che unisce strutture di blues acustico con melodie da pop italiano, con un risultato che a volte non può non ricordare Alex Britti, anche nell’uso della voce. In ogni caso tra ironia e momenti seri (il talking de Il Mare e la finale 10 Agosto, lamento nostalgico per un vecchio amore estivo), il disco potrà piacere a chi ama le storie di casa nostra, e magari anche a chi può apprezzare le sue indubbie doti di chitarrista tuttofare, che lo ha portato in passato anche ad insegnare e comporre colonne son

sabato 7 dicembre 2019

MARLON

Marlon
Sunken Worlds
[RecLab Studios 2019]


 
File Under: Milan Roots


facebook.com/MarlonMusicIT

di Nicola Gervasini

La presentazione come “new folk milanese” già appare curiosa, ma nei locali della città meneghina i Marlon sono effettivamente una realtà di cui si sente ormai parlare spesso. Già usciti su disco con l’esordio Musings from The Rearview dell’anno scorso, la band che fa capo al leader Marlon Bergamini, si è chiusa durante l’estate nei RecLab Studios con il produttore Larsen Premoli (presente anche come membro aggiunto alle tastiere). Sunken Worlds è un disco che parte forte, con il sostenuto rock di Back Home, per rallentare subito con la minacciosa God Knows, con le chitarre di Bergamini e Emanuele Nanti in evidenza (Nanti ha poi abbandonato il gruppo al termine delle registrazioni, e oggi stanno suonando in trio con la sezione ritmica gestita da Andrea Dominoni e Jody Brioschi). Seguono la cavalcata sudista di Rovers, una Easy che potrebbe essere uscita da un disco di Chris Isaak, così come anche l’epica Separated e la bella ballata in up-tempo Behind. Con Have a Great Flight i toni si fanno più romantici, ma subito Half-Blood Son ha un incedere alla Tito & Tarantula che la renderebbe buona per una soundtrack di un film di Tarantino mentre The Journey chiude in chiave puramente Southern-Rock un disco che li pone nell’area di band storiche come i Cheap Wine, come via italiana alla roots music americana di stampo classico. E questi nove brani, che riassumono molti degli umori della roots-music odierna, costituiscono sicuramente l’ossatura giusta per validi live-set da scafata rock band d’oltreoceano.

mercoledì 4 dicembre 2019

PLAINN

Plainn
Plainn
[Pipapop recordsi 2018]

 File Under: self-made indie

facebook.com/plainnmusic

di Nicola Gervasini

Paolo Brusò è un personaggio che si muove da tanti anni nel sottobosco alternativo italiano, con una serie di progetti pubblicati sotto varie sigle come Margareth, Focus on the Breath e tante collaborazioni. Plainn è il nickname che si è scelto per un progetto solista all’insegna dell’”indie-folk”, con piano e chitarra acustica in piena evidenza che si rincorrono fin dall’iniziale Open Sea. Brusò fa tutto da solo, compreso qualche tocco di synth per creare atmosfera e le parti di batteria che rendo il suono di brani come Take Care pieno ed elaborato, ma alla fine è evidente la ricerca di piccoli bozzetti folk improntati alla riflessione intimista, un po’ alla Drake/Pink Moon o più recentemente alla Belle & Sebastien. Certamente non una soluzione nuova, ma che Plainn sembra comunque maneggiare con gran maestria, e lo dimostrano canzoni indubbiamente riuscite come A Part Of You con le sue suggestioni notturne fatte di effetti e riverberi, la breve ma ben costruita Sins, o una Child immersa in suoni e rumori della natura. Da notare anche una My Star che trova una leggerezza melodica alla Turin Brakes a cui fa da contraltare il minaccioso incedere di Inside Out, prima che lo strumentale Plains e l’intensa Again chiudano i 35 minuti del disco. Plainn è un album che, pur senza sconvolgere grammatiche già scritte da altri, dimostra la ormai totale padronanza di certi stilemi folk moderni da parte della nostra scena, capace ormai di un respiro internazionale che solo vent’anni anni fa pareva una chimera.

domenica 1 dicembre 2019

DIRAQ

Diraq
Outset
[JAP records 2019]


 
File Under: Dark indie-blues
facebook.com/diraqband

di Nicola Gervasini

Paul Adrien Maurice Dirac è stato un premio Nobel per la fisica inglese, considerato anche un po’ l’emblema dello scienziato pazzo del secolo scorso. Al suo affascinante mito e al suo nome si sono ispirati i Diraq, band umbra attiva fin dal 2009, che giungono al secondo album dopo l’esordio di Fake Machine del 2013. Outset è stato registrato in soli tre giorni di registrazioni in presa diretta negli studi di Antonio Gramentieri (Don Antonio, Sacri Cuori), chitarrista sempre più richiesto ormai come produttore, che ha portato nella musica dei Diraq un tocco di derivazione americana in più che ha permesso il salto di qualità, sebbene la sua produzione lasci possibilità alla band di non perdere la propria identità, caratterizzata dalla voce profonda del frontman Daniel Abeysekera. Si parte col basso pulsante di Francesco Mengoni nel giro blues di With Me, per passare ad un sound più tipicamente alla Sacri Cuori di Pray, e nel percorso si incontra il dark-blues contrappuntato dai fiati di Inglorious Blues, fino al giro latino alla Los Lobos di Make Up, portato poi a latitudini più estreme da Show Your Blood. Oltre alla più sinuosa Sunday Bending e alla lenta Desert, da segnalare anche Turning Days, brano dal vago sapore anni 80 in cui canta anche JM, altro artista della Jap Records. Le più combattive Naked e Mauer Mäuler, con la chitarra di Edoardo Commodi e la batteria di Federico Sereni più in evidenza, sono invece eredità di un passato più legato a certo stoner-rock. In ogni caso l’atmosfera dark-blues creata per Outset è affascinante, anche quando non originalissima, segno di un prodotto ben confezionato e di una band da seguire anche dal vivo.

lunedì 25 novembre 2019

DANIELE FARAOTTI

Daniele Faraotti
English Aphasia

[Creamcheese Records 2019]

 
File Under: Post-tutto


danielefaraotti.com

di Nicola Gervasini

Le nostre pagine non trattano di musica elettronica, eppure ci capita spesso di averci a che fare, perché gli anni 2000 hanno visto spesso matrimoni (a volte anche ben riusciti) tra “macchine” e “tradizione”. Per questo non abbiamo problemi a presentarvi questo English Aphasia del bolognese Daniele Faraotti, non un esordiente, visto che ha alle spalle già due album e due LP, ma che qui si spinge in una sperimentazione di suoni decisamente originale. Potremmo definirlo un post-rock che unisce elementi di ogni tipo, anche tradizionali e persino soul. La lunga title-track iniziale ad esempio è un tripudio di campionamenti e suoni elettronici con una parte cantata che potrebbe anche appartenere ai Wilco, che apre però la strada al coraggioso singolo I Got The Blues, che non è il pezzo dei Rolling Stones, ma è comunque una similare ballata soul con tanto di fiati e assolo di chitarra da acid-pop anni 60, resa però in maniera del tutto personale e distorta da un Faraotti sempre più sulle tracce di Beck e delle sue trovate in bilico tra i generi. E si prosegue con un tira e molla tra momenti elettronici come Connection, che quasi ricorda certi momenti pop di Steven Wilson, o brit-pop chitarristici come Between For A Day Trust (con un uso della voce quasi alla Bon Iver). E addirittura la parte centrale (Zawie III e Leonore Sprache) entra in una serie di rimandi al kraut-rock e al Bowie berlinese, prima di avere una Sea Elephant che capovolge di nuovo tutto entrando nel campo della indie italiana (è l’unico brano nella nostra lingua presente nel disco), prima di chiudere di nuovo più classicamente con una percussiva Telephone Line, e una Joni George Igor and Me che cerca invece influenze di musica orientale e sonorità vintage quasi alla Roy Harper. Tante strade, ma un risultato molto personale e da sviscerare con calma, per capire quanto ormai gli steccati tra generi non esistano quasi più.

lunedì 18 novembre 2019

MR WOB & THE CANES

Mr. Wob And The Canes
Not Your Negro


[Voodoo Roots Stew 2019]
 
File Under: Voodoo Roots Stew


facebook.com/thewobpage

di Nicola Gervasini

Oggi se scrivete la parola “negro” in un social siete a rischio di censura, se non proprio di blocco, e l’algoritmo spesso non bada al senso della frase ma al semplice uso di un termine considerato (giustamente) non politically correct. Ma in musica “fare musica da negri” si sa da sempre che è un complimento, dato da ragioni storiche che fanno della black-music una delle componenti fondamentali dell’arte del mondo occidentale. Lo sanno bene i veneziani Mr. Wob And The Canes che con puro spirito antirazzista intitolano Not Your Negro (si veda l'omonimo documentario su James Baldwin, ndr) il loro terzo album, vero melting-pot di influenze che chiamano “Voodoo Roots Stew” (spezzatino di radici Voodoo), che vanno dal blues classico con il quale hanno esordito nel 2014 grazie all’album Invitation To The Gathering, fino a elementi latinoamericani o afro, come dimostrano negli omaggi al Voodoo Papa Legba (Elegba Too) o addirittura ad uno dei personaggi di Mai Dire Goal di Fabio De Luigi (Baraldi’s Blues). La title-track è un esempio lampante: un arpeggio psichedelico che ricorda quasi The End dei Doors della chitarra di Alessandro “Kowalski” Di Vacri, una base di percussioni ipnotica offerta da Alejandro Garcìa Hernandez che gioca con la batteria di Giovanni “Sugo” Natoli, e la voce decisamente profonda e bluesy di Andrea “Wob” Facchin a commentare il tutto. Non c’è un bassista, il che aumenta il tono sperimentale del disco, evidente anche negli altri brani, spesso molto lunghi (si arriva agli undici e minuti e passa di Down In This Hole), dove il blues, anche quando è di struttura classica (Blues #1Old Ford Car Blues, la cover di Big Road Blues di Tommy Johnson), trova comunque uno sviluppo strumentale molto variopinto e originale, con intermezzi di brani più lenti (Canadian Girl, No Man’s Land) o indiavolate danze di percussioni e acustiche (Dance of the Happy Liar Skull). Un disco che sorprende per maturità e originalità, e che serve a contraddire chi considera l’italian-blues un sottogenere di semplici seguaci, se non proprio meri fans, e non di artisti pensanti.

sabato 26 ottobre 2019

FLAVIO OREGLIO

Flavio Oreglio & Staffora BluzerAnima popolare[Long Digital Playing 2019]
 
File Under: quatter amis, quatter malnatt
facebook.com/longdigitalplaying
di Nicola Gervasini
Il cabaret non è argomento usuale su queste pagine, ma non sorprendetevi troppo di trovare il nome di Flavio Oreglio. “Attore, umorista e scrittore” dice la sua biografia, ma lui ci tiene a ricordare che in verità i suoi inizi erano quelli da “cantautore” nato alla scuola milanese di Jannacci e Gaber. Ed è lì che torna a guardare questo album, intitolato Anima Popolare proprio perché è nelle radici della canzone “che vien dal basso”, le nostre “roots” mi verrebbe da dire, che si ciba il folk di casa nostra. Folk music garantita dalla collaborazione con gli Staffora Bluzer, che sono Stefano Faravelli (piffero, flauti, cornamuse, voci) Matteo Burrone (fisarmonica, voce) Daniele Bicego (cornamuse, sax soprano, cornetta, bouzouki, voce), una unione di intenti che riprende il discorso del suo album precedente Giù (non è stato facile cadere così in basso) del 2008 che vedeva invece il supporto dei Luf. Dopo l’introduttiva Benvenuti, si passa infatti ad una title-track che ricrea lo stile delle tipiche ballate popolari fatte di feroce critica sociale e quel pizzico di amara disillusione che anima la visione del potere dal basso, mentre Bluzer Revoliscion si tiene a metà tra cabaret alla Cochi e Renato e un curioso connubio tra liscio e blues italiano. Dopo lo scherzo di La Vita è Una Brugola, le cose si fanno serie con l’intensa e stranota cover Ma Mi, testo in dialetto scritto dal regista teatrale Giorgio Strehler con fisarmoniche e cornamuse in grande evidenza (fu uno dei primissimi successi di Ornella Vanoni). Blues dei Deliri Quotidiani si sviluppa su un aspro Chicago-blues, mentre il cabaret torna preminente in La Mezza Minerale, con ironia sulla tendenza ad ingigantire le proprie imprese da parte dell’uomo comune. Consigliato a chi si sente orfano inconsolabile di un mondo milanese un po’ antico.

venerdì 25 ottobre 2019

IGGY POP

Iggy Pop
Free
[
Caroline Int./ Loma Vista 2019]
iggypop.com
File Under: I wanna be your sage

di Nicola Gervasini (27/09/2019)
Iggy Pop sarebbe colui che con gli Stooges ha inventato l’attitudine (se non proprio il suono) del punk, prima ancora che qualcuno lo chiamasse così. Ed è quello che sta sempre sul palco a petto nudo, e si contorce moltissimo, lo chiamavano Iguana per quello già da giovanissimo pare. E, secondo molti, se David Bowie non l’avesse salvato, oggi sarebbe morto di overdose, in totale stato di indigenza già da anni. Fin qui non vi ho detto nulla di nuovo che non abbiate già letto alla nausea sul personaggio, ma d’altronde cosa si può dire di diverso su un artista attivo da più di cinquant’anni, che si è sempre prestato ad essere visto più come un’icona che come artista. Forse però, di tanto in tanto, potremmo anche parlar di musica quando lo nominiamo, magari ricordando che in fondo la sua discografia è una delle stilisticamente più varie e imprevedibili della generazione classic-rock, dove davvero ogni album fa storia a sé, e non riparte quasi mai dal precedente.

Con i pro e i contro della questione, visto che di passi falsi se ne contano più di uno. Ma a Pop il coraggio di osare non è mai mancato, eppure ascoltando Free realizziamo che qualche riconoscimento ancora gli si potrebbe tributare. Perché se come autore ancora fa fatica a farsi riconoscere (ricordate quanto poco fu apprezzata la svolta autoriale del sottovalutato Avenue B nel 1999?), da qualche anno Pop cerca applausi come interprete, e lo fa ancora una volta cercando lo spirito autunnale e jazzy che già fu di Après. Anche in questo caso Iggy ci ha messo poco di suo, giusto il testo di Loves Missing, che guarda caso è il brano più “alla Iggy Pop” del disco, ma per il resto ha affidato scrittura e atmosfere al jazzista Leron Thomas, autore dei brani, e vero mattatore dell’album con la sua tromba. Il risultato è curioso, e quasi a tratti ricorda uno dei dischi recenti di Leonard Cohen, lento, sussurrato, e con la sua voce (ormai palesemente di un anziano) in primo piano.

Non che manchino i momenti provocatori (il turpiloquio di Dirty Sanchez), ma paiono quasi un marchio di fabbrica doveroso, neanche più troppo necessario, perché anche senza Free è un bel disco notturno e molto vario, in cui Iggy si concede momenti di pop elettronico come Sonali, pop-song moderne come James Bond, dark-spoken-song come Glow In The Dark, o suggestivi intrecci di parole e suoni come Page. Con in più anche un certo piglio da vecchio intellettuale, soprattutto quando si concede letture di poesia di Dylan Thomas (Do Not Go Gentle into That Good Night) o recupera un testo inedito dell’amico Lou Reed (We Are the People), o nel finale, questo sì davvero alla Cohen, di The Dawn.

L’aiuta anche la chitarra di Sarah Lipstate, in arte Noveller, per un album che supera a fatica la mezz’ora offrendo un breve ma intenso momento di riflessione che, se non aggiunge nulla al suo mito, ne impreziosisce perlomeno lo spessore. E sicuramente oggi è più apprezzabile un disco così, da vecchio saggio, che una improbabile nuova edizione degli Stooges. E forse è giunta anche l’ora di mettersi una maglietta, che ad una certa età gli spifferi fanno male.

giovedì 24 ottobre 2019

JACK ADAMANT

Jack Adamant
Unkind
[AR Recordings 2019]

 File Under: What else is new

jackadamant.com

di Nicola Gervasini

Italiano trapiantato in Svezia ormai da tempo, Gerardo Monteverde in arte Jack Adamant è stato (e lo è comunque tuttora) il cantante e bassista dei Valerihana, trio attivo ormai da più di dieci anni nell’ambito alternativa rock nostrano. Unkind è il suo secondo album solista dopo Lunch at 12 since ’82, e prosegue la sua linea stilistica decisamente impostata sulla lezione di J Mascis e dei suoi Dinosaur Jr. Voce un po’ strozzata, melodie malinconiche sorrette da esplosioni elettriche e una sezione ritmica martellante sono gli ingredienti del disco, dove Adamant ha raccolto otto canzoni unite da un senso di viaggio personale nel raccontare umori e sensazioni di una vita da musicista ramingo. L’iniziale A Gap in the Sun occhieggia un po’ a certo power-pop elettrico degli anni 90, così come Just Telling Ya sta dalle parti degli Smashing Pumpkins degli esordi, ma And I è puro Mascis-pensiero. Ed è così fino alla fine, quando la notevole All the Way Through chiude l’album dopo che Secretly Looking for a Way to Escape aveva provato ad alzare toni e volumi quasi fino allo stile-Nirvana, e la breve Into e Before You Hold Me avevano continuato a tenere caldo l’ambiente. Non è la prima volta che ci troviamo a parlare di artisti italiani che pescano a piene mani dagli anni 90, e da quel sound elettrico che ai tempi si fece mainstream (per tornare fuori moda nei 2000 quando il sound acustico tornò padrone), e Adamant dice la sua con un disco che, se fosse uscito nel 1990, oggi sarebbe pure oggetto di culto, ma che nel 2019 serve a ricordarci quanto questo rock alla fine resti ancora necessario.

martedì 22 ottobre 2019

ANDREA ZANZA ZINGONI

Andrea Zanza Zingoni
Dormire Sonni Tranquilli
[Audioglobe 2019]

 File Under: Lullabies

facebook.com/AZanzaZ/

di Nicola Gervasini

Quello che abbiamo in mano è un disco di esordio, ma Andrea “Zanza” Zingoni è in realtà un veterano della scena wave toscana fin dai primi anni 90, ultimamente con i NoN (noti anche come i “Non Violentate Jennifer”). Dormire Sonni Tranquilli è un album davvero particolare, che mischia la lezione indie-folk degli anni 2000 (Dirigibili e Rivoluzioni, singolo per cui Zingoni ha girato anche un video promozionale, sembra un brano degli Iron & Wine periodo Sheperd’s Dog), con suggestioni sonore più vicine alla new wave anni 80, evidenti soprattutto negli strumentali che aprono e chiudono album (C’era una volta e La marcia dei sonnambuli) e in certe soluzioni elettroniche (Reti e pareti). A caratterizzare il suono è spesso anche il flauto di Simone Morgantini, come nella bella Naufragheremo. Il pezzo centrale del disco è Terza persona, storia che parte sussurrata per chiudersi in una lunga coda strumentale che si mantiene sempre sui toni sognanti ed eterei dell’album. Fa eccezione in questo senso solo la title-track, in cui tastiere e percussioni creano un effetto che ricorda quasi quello dei Talking Heads di Remain In Light, a reggere un ipnotico giro di chitarra e un testo fatto a filastrocca per bambini per la buonanotte davvero particolare (Non aver paura della gatta ignuda, è sparita da un pezzo, non è più sotto il letto). Disco notturno fin dal titolo e dai temi trattati nelle canzoni, Dormire Sonni Tranquilli è suonato e cantato dal padrone di casa con l’ausilio di pochi altri musicisti come Alice Chiari (violoncello, glockenspiel), Enzo Panichi (batteria) e Damiano Innocenti (basso). Consigliato.

lunedì 14 ottobre 2019

JOAN SHELLEY

Joan Shelley
Like The River Loves The Sea
[
No Quarter / Goodfellas 2019]
joanshelley.net
 File Under: Iceland folk

di Nicola Gervasini 
(23/09/2019)
Tra i viaggi dei miei sogni c’è sicuramente l’Islanda, terra di natura crudele, ma alquanto generosa di spettacoli. E anche landa di silenzio e riflessione, portata in musica dai suoi pochi ma ben famosi rappresentanti negli anni (Bjork e Sigur Ròs i più celebri), quasi che le veemenze del rock non si adattino ai ritmi blandi che il clima locale impone. Esiste però un certo cantautorato americano che invece in quel torpore potrebbe trovare terreno fertile, e lo dimostra oggi Joan Shelley con questo Like The River Loves The Sea. Lei viene dal Kentutcky, e dopo essersi fatta le ossa come spalla di Daniel Martin Moore, con cui ha pubblicato anche un disco a due mani (Farthest Field del 2012), ha avuto l’onore di farsi produrre da Jeff Tweedy per il suo album omonimo uscito nel 2017.

In occasione invecedi questo nuovo capitolo la Shelley ha preso la drastica decisione di portare tutto in Islanda e affidarsi al produttore locale Albert Finnbogason, che si è preoccupato di farle trovare uno studio già scaldato da session-women come le violiniste Þórdís Gerður Jónsdóttir e Sigrún Kristbjörg Jónsdóttir. A seguirla nel viaggio sono stati comunque i bravissimi chitarristi James Elkington (sentito anche nei dischi di Steve Gunn e del Richard Thompson “americano” di Still) e Nathan Salsburg, mattatori con la loro acustica di un album fatto di un folk sognante che mette l’accento su ogni singolo strumento, isolandolo nel silenzio generale. La Shelley da parte sua ci mette la sua voce pigra e melodiosa e una manciata di buone canzoni, con particolare encomio per la bellissima Cycle. A impreziosire il piatto, ma anche a definirne la natura, ci pensa anche Bonnie “Prince” Billy che si prodiga ai cori in Coming Down For You, e se Teal si fa avvolgere da sapori di folk irlandese, The Fading è puro cantautorato di Nashville alla Emmylou Harris (sempre con mister Oldham in session).

Il disco non concede variazioni sul tema come toni, se non appunto sulla grammatica di base, che può essere quella di uno spiritual come Awake o di una dolce folk-song come The Sway, sempre caratterizzati dalla voce della Shelley (a volte molto simile a quella di Aimee Mann) e dagli interventi garbati ma decisivi della sezione d’archi (molto bello l’arrangiamento di Stay All Night). Dodici brani eterei che necessitano una particolare ambientazione per essere apprezzati, nonostante poi i temi dei testi non riguardino l’Islanda, ma quelli più classici ma sempre attualmente universali della fine di una relazione importante. Situazione ideale per una fuga in mezzo ai ghiacci a cantare la struggente High On The Mountain, che non sarà certo l’ultimo grido disperato di un cuore spezzato, ma fa comunque parte di un coro eterno di amori interrotti, che sono poi la ragione principale dello scrivere e ascoltare questo tipo di canzoni.

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...