lunedì 26 luglio 2021

DINOSAUR JR.

 


Dinosaur Jr.

Sweep It Into Space

(2021, Jagjaguwar)

File Under: We Are Family

La voce un po’ stridula e quasi sofferente di J. Mascis è sempre quella, e pure la chitarra un po’ acida e distorta si riconosce subito, eppure i Dinosaur Jr. nel 2021 continuano a provarci ad uscire dallo schema fisso della loro musica. Dire che poi ci si siano mai riusciti è arduo, in fondo i loro dischi più acclamati sono quelli più scarni in cui emerge il loro stile nudo e puro, e album come Hand It Over o I Bet on Sky (ma per una certa critica anche il classico Green Mind), in cui più che in altre occasioni cercavano di far evolvere il loro suono, sono generalmente visti come episodi minori. Chissà, quindi, cosa penseranno i loro “hard-fans” quando vedranno il video di Take It Back, primo estratto da questo Sweep It Into Space, trovandosi davanti a quella che è fondamentalmente una pop-song, non so poi quanto leggera visto che Mascis non è mai stato tipo in vena di grandi disimpegni. A rendere il tutto decisamente rassicurante arriva anche un bel video con figure in pongo, come si usava spesso fare negli anni 90, e il batterista Murph sui social ha ironizzato sul fatto di presentarsi con un video così alla portata di tutti, piccoli compresi, ricordando che nel frattempo J. Mascis e Lou Barlow sono diventati padri. Ed è da qui che forse bisogna partire per capire come sia possibile che questa line-up a tre, che negli anni 80 resse tra mille litigi solo l’arco di tre album, dal 2007 ad oggi abbia pubblicato cinque album con la tranquilla regolarità degli scafati professionisti. Partendo da questo presupposto non meraviglia quindi che Sweep It Into Space sia un disco piacevole fin dal primo ascolto, persino accomodante, pur conservando quelle spigolature che rappresentano il marchio di fabbrica della casa, sicuramente meno sofferto del precedente Give a Glimpse of What Yer Not che forse del nuovo corso era il disco che aveva ricevuto più consensi (ma invecchia bene anche Beyond del 2007). Certo, qui si concedono qualche uscita dal seminato in più (I Ran Away, And Me), ma alla fine anche il fan di vecchia data che può vantarsi di aver comprato Bug prima di tutti può ancora sentirsi a casa con brani come I Met the Stones, Hide Another Round o To Be Waiting. Quello che traspare è la mancanza di tensione, e non so quanto sia un bene, ma pare evidente che Lou Barlow si stia accontentando davvero di fornire alla causa solo un paio di brani ad album (qui sono la quasi folk You Wonder e la notevole Garden) e mettersi comunque al servizio del Mascis-pensiero. Sarà forse anche che l’album è stato registrato a distanza per le cause che ben sapete dopo le prime sessions in comune, tanto che stavolta ci si è potuto permettere persino un ospite (Kurt Vile). D’altronde già nell’iniziale I Ain’t Mascis urla “I ain’t good alone” con la forza di chi sa che l’unione fa la forza, e l’dea che ci si fa è che quella dei Dinosaur Jr non sia stata una “reunion”, ma solo una continuazione di un qualcosa che non sarebbe mai dovuto finire (anche se va ricordato che anche senza Barlow la sigla ha licenziato dischi belli e importanti come Where You Been), e che soprattutto non hanno intenzione di far finire finché gli sarà possibile. Che dite, preparo già una recensione per il loro disco del 2040 in cui li paragonerò ai Rolling Stones per longevità, coerenza stilistica,  e tenuta della formazione?

 

Nicola Gervasini

lunedì 19 luglio 2021

NICK WATERHOUSE

 

Nick Waterhouse

Promenade Blue

(Innovative Leisure, 2021)

File Under: Citazioni


C’è una certa perversione di fondo nella retro-mania di molte produzioni degli anni 2000, e non parlo di chi semplicemente ancora suona i vari generi che hanno dato vita al “classic-rock” provando almeno a cercare una personalizzazione, quanto proprio chi, come Nick Waterhouse, cerca di riprodurre il suono di un tempo, difetti compresi, per realizzare album che paiono davvero usciti negli anni sessanta. Sono ormai passati più di venticinque anni da quando i film di Quentin Tarantino hanno ricordato al grande pubblico che con le vecchie canzoni ci si poteva divertire ancora, ma il fenomeno non pare avere fine. Sia nel versante del New Soul, sia in quello di riproposizione di una cultura “sixty-pop” come nel caso di Waterhosue, l’imperativo è sembrare esattamente come quelli di un tempo, ma magari con canzoni che suonino moderne nel linguaggio e nel modo di porsi. Promenade Blue è il quinto album di questo californiano di 35 anni, e ancora una volta lo vede trasformare in forma pura ciò che dal vivo propone con grande spettacolarità, ormai forte anche di una certa popolarità arrivata dopo che ha dato voce nel 2017 ad una hit estiva del duo di dj francesi Ofenbach, che avevano ritrasformato la su Katchi, con grande successo in spiagge e discoteche di tutta Europa. Nick però resta un cultore di un certo pop raffinato degli anni 60, ed è facile citare Burt Bacharach o Lee Hazlewood come punti di riferimento, ma il vantaggio di giocare nel 2021 lo aiuta a condire il patito con echi di soul, jazz, e persino di garage-rock, anche se la sua versione di Pushin’ Too Hard dei Seeds, sorta di inno dei rozzi bassifondi degli albori del rock, qui appare in una veste del tutto estetizzante, per non dire - usando termini antichi - parecchio imborghesita. Un tempo li chiamavamo “party-records”, e ascoltando brani come To Tell effettivamente torna in mente quando il buon David Johansen proponeva qualcosa di molto simile negli anni 80 sotto le mentite spoglie di Buster Poindexter, con l’ironia della sorte che già allora (e parliamo di 35 anni fa), per qualcuno, lui pareva solo un simpatico rocker nostalgico da non prendere troppo sul serio. In ogni caso se è la forma che importa a Waterhouse, ogni tanto ci piazza anche della sostanza, con brani comunque interessanti come The Spanish Look, Silver Bracelet o B. Santa Ana. 1986. Però è ovvio che il senso di tutto è il gioco ai rimandi e al citazionismo che pare essere diventata la marca espressiva principale di questi anni venti in ogni campo (le serie televisive in primis), tanto che durante Medicine, senza neanche accorgetene, ti ritrovi a canticchiare Sixteen Tons in puro stile Platters, imbeccato da un coro basso alquanto simile, e ti rendi conto che il buon Nick non si offenderebbe affatto della cosa, ma anzi ne sarebbe lusingato. Perché alla fine un disco come Promenade Blue serve soprattutto a questo, a riconoscerci per una cultura musicale in grado di fare a pezzi queste canzoni e trovare l’origine di ogni tassello, magari avendo un po’ di invidia per quel ventenne (ci sarà no?) che, sentendo questi brani, non si chiederà da chi proviene questo suono, ma se li godrà senza troppi pensieri.

Nicola Gervasini


giovedì 15 luglio 2021

THE THE

 

Da giovane quando compravo un disco mi creavo nella mente un film o un musical tipo Broadway da immaginare ogni volta che ascoltavo quel disco. Alla sera mi mettevo da solo in camera al buio e sentivo il disco sognando la mia storia, ogni volta con pochissime variazioni. Vi racconto quella che mi inventai per Dusk. Era un film che iniziava ad una festa, tutti eleganti, il disco infatti inizia con un vociare confuso di gente che fa baccano. Poi tutto si interrompeva, la folla si apriva e apparivo io in mezzo con una chitarra che facevo partire il canto sofferto di True Happiness This Way Lies guardando fisso in camera con l’aria un po’ da pazzo di Matt Johnson. Per Love Is Stronger than Death la scena si spostava nella mia camera, dove io nudo cantavo questo pezzo immerso in una tragica solitudine. La scena spiegava da dove derivava il disagio che mi aveva portato ad interrompere una festa dove mi sentivo pesce fuor d’acqua. Ma il disagio si trasformava in rabbia, così in Dogs Of Lust saltavo sui tavoli imbanditi di cibo e buttavo giù tutto a calci suonando l’armonica. Ma a quel punto la fuga: This is The NIght mi vedeva trasformarmi in una sorta di Fred Astaire che saliva sui tetti seguito da chi nella folla della festa aveva riconosciuto in me un’anima gemella e sul tetto cantavo il pezzo ballando con tutti un un tip tap oldstyle con tanto di cilindro e bastone. E qui partiva un ricordo, un omaggio al gruppo di amici dell’università con cui ero riuscito a trovare piena sintonia, e Slow Emotion Replay era un video di scene di noi nei nostri migliori momenti, un attimo di felicità che si spostava nel campo dell’amore e del sesso con Sodium Light baby, in cui immaginavo scene di coppia. Ma la felicità è effimera, e lo strumentale Lung Shadows mi vedeva ripiombare nella depressione e nella solitudine di rendermi conto che i due brani precedenti raccontavano scene lontane nel tempo, con il canto disperato “Save me, from myself” di Bluer Than Midnight a chiudere la storia con una constatazione di impossibilità a realizzarsi (“never find peace in this life”), con me che la cantavo in mezzo ad una piazza vuota. Ma il finale vero era di me in un teatrino accompagnato da vari freaks e disadattati che facevo intonare ad un pubblico alquanto sparuto il coro finale che sapeva di morale della storia, quel “If you can't change the world. Change yourself.” che di fatto suonava come una richiesta a prendere atto di una sconfitta e conviverci. Il film nella mia testa aveva una versione lunga con l’inserimento di altre canzoni dei The The (da Soul Mining e e Mind Bomb principalmente). Dusk è uscito nel 1992, avevo 20 anni, ed era dal 1984 che per ogni disco io comprassi creavo storia così per ascoltarlo. E’ stata una delle ultime storie che mi sono creato legata ad un disco. Oggi i dischi non mi ispirano più fantasia, oggi probabilmente li ascolto 😊 )- Ma quando riascolto quelli di un tempo la storia riparte nella testa, uguale a sempre, anche oggi, anche se sono costretto a immaginarmi nel film con i capelli bianchi. Non so se mai ascolterò Dusk per quello che veramente è, so solo raccontarlo così.

lunedì 12 luglio 2021

DEPARTURE LOUNGE

 

Departure Lounge – Transmeridian

Violette Records, 2021

Tim Keegan è uno di quegli strani personaggi da dietro le quinte del gande show della musica britannica che meriterebbe una retrospettiva a parte. Collaboratore, tra gli altri, anche di Robyn Hitchcock (ad esempio nell’album Moss Elisir del 1996), ha dato vita anche a vari progetti personali, fin dal primo, quello dei Ringo, autori di un unico disco nel 1993. I più duraturi furono i Departure Lounge, band con cui realizzò 3 album tra il 1999 e il 2002, con il terzo, Too Late To Die Young, che ottenne anche parecchie critiche entusiastiche, nonostante la band fosse già ormai sciolta quando venne pubblicato. Sarà per questo che la notizia di una loro reunion fa poco rumore, perché di fatto di loro ci si era anche un po’ dimenticati. Eppure, i quattro membri originali (a Keegan si sono riuniti Jake Kyle al basso, Daron Robinson Drugstore alla chitarra e Lindsay Jamieson alla batteria e tastiere) non hanno mai smesso le loro attività di turnisti, ma si sa che poi la voglia di riprovarci da soli viene sempre.

Padrino di questi Transmeridian, quarto album della loro storia, è Peter Buck dei R.E.M., che compare nelle sessions a dare manforte ad un gruppo di musicisti che conosce bene da tempo, e che sicuramente alla band di Athens devono molto anche come eredità artistica. L’album è dedicato al padre di Keegan, ex pilota dei Cargo Transmeridian ormai pensionati negli USA, ed è stato registrato nell’arco di 24 ore, un tour de force venuto spontaneo per catturare un momento di particolare stato di grazia dei musicisti, riuniti nello studio del produttore Peter Miles. Il che spiega perché in questi 13 brani spiri aria da side-project di altri tempi, dove canzoni pienamente finite si alternano a idee abbozzate, lasciate nella loro natura primordiale per preservarne l’immediatezza.

Dopo l’apertura ambient di Antelope Winnebago Club arriva Australia, pezzo puramente remmiano con chitarre jingle-jangle e assoli acidi alla Dream Syndicate, segno inequivocabile dell’appartenenza ad una cultura rock nata nei bassifondi degli anni 80. Timber invece si poggia su dolce dialogo tra chitarra acustica e organo, mentre nello strumentale Harvest Mood entrano in gioco un piano e una batteria un po’ sbilenca, suggestivo preludio all’indie-pop di Mercury In Retrograve. Insomma, pare evidente che ai Departure Lounge piaccia variare molto la loro proposta, mischiando strumentali che sanno di riuscita improvvisazione da studio (Al Aire Libre, Paging Marco Polo), soluzioni di vecchio stampo (la baldanzosa pop-song Mr. Friendly) o più moderne (la piano-ballad Don’t Be Afraid), inframezzate da qualche velleità da vecchia elettronica new wave (Frederic’s Ghost, Gurnard Pines). Il sognante folk di So Long chiude un ritorno gradito, seppur con una inevitabile aria nostalgica per un mondo musicale che non c’è più.

VOTO: 7

Nicola Gervasini

lunedì 5 luglio 2021

ANDERS OSBORNE

 

Anders Osborne

Orpheus and the Mermaids

(2021, 5th Ward Records)

File Under: Folkways


Forse abbiamo fatto bene a non perdere di vista Anders Osborne in questi anni, un autore che negli anni 90 si era fatto valere con alcuni dischi in puro stile New Orleans Sound come Which Way to Here o Living Room, che avevano avuto anche un buon ritorno di critica. Successivamente Anders aveva spesso provato nuove strade, a volte più cantautoriali, entrando anche in area Van Morrison/Astral Weeks (Coming Down del 2007), o altre volte tornando al primo amore, come Buddha and the Blues del 2019 o la collaborazione con i North Mississippi Allstars del 2015 (l’album era Freedom & Dreams). La sua discografia si è fatta però via via sempre più nascosta dai riflettori, quasi che il personaggio abbia preferito rimanere nelle retrovie e comunicare solo con una ristretta cerchia di appassionati di un certo mondo musicale, nonostante, anche nei suoi lavori meno ispirati, abbia sempre dimostrato quella grande cura nella produzione che non lo ha mai fatto slittare nel facile home-record fatto per sopravvivenza. Per questo salutiamo con piacere questo Orpheus and the Mermaids, perché alla fine il risultato di tanto peregrinare di questo svedese trapianto in terra statunitense è l’essere arrivato a poter maneggiare una materia così “vecchia” come il folk con la sicurezza, e direi anche la “statura”, del nome di primo livello. In questi nove brani non c’è una nota o un giro di armonica che non richiami Bob Dylan (Forced To), ancora una volta Van Morrison (Pass on By) o Neil Young nella sua veste acustica (Jacksonville to Wichita), eppure nonostante le soluzioni siano quelle che già vi potete immaginare, a 55 anni Osborne dimostra piena padronanza del proprio songwriting, con testi anche molto interessanti. Il disco ha infatti tutta l’aria della confessione intima a partire dalla produzione, con un suono acustico e cantautoriale molto rigoroso, al quale Anders concede poche soluzioni alternative in sede di arrangiamento (molto azzeccato il coro muto che commenta la bella Dreamin’ ad esempio). Osborne ha qualche storia personale da raccontare (Light up the Sun e Rainbows), ma soprattutto qualche sassolino nelle scarpe da togliersi, come quando ricorda l’amico Neal Casal prendendosela più o meno direttamente con quanti lo avevano lasciato solo proprio in quel momento di debolezza che lo ha portato al suicidio (Last Day in the Keys). Non so quanto un disco così visceralmente legato al mondo della musica tradizionale americana possa aiutarlo ad evitare di essere ancora una volta ignorato da praticamente quasi tutte le più note testate musica che non siano di marca strettamente roots/americana, ma voglio credere che la bontà di questi nove brani possa davvero farci ritrovare il suo nome in qualche classifica di fine anno in più. Perché questo vecchio folk non è solo puro manierismo, è la canzone d’autore americana che si ravviva ancora una volta, pur partendo sempre da lì, da una chitarra, un’armonica, e qualcosa che valga ancora la pena essere raccontato.

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

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