Anders
Osborne
Orpheus and the Mermaids
(2021, 5th
Ward Records)
File Under: Folkways
Forse abbiamo fatto bene a non
perdere di vista Anders Osborne in questi anni, un autore che negli anni
90 si era fatto valere con alcuni dischi in puro stile New Orleans Sound come
Which Way to Here o Living Room, che avevano avuto anche un buon ritorno di critica.
Successivamente Anders aveva spesso provato nuove strade, a volte più
cantautoriali, entrando anche in area Van Morrison/Astral Weeks (Coming Down
del 2007), o altre volte tornando al primo amore, come Buddha and the Blues
del 2019 o la collaborazione con i North Mississippi Allstars del 2015 (l’album
era Freedom & Dreams). La sua discografia si è fatta però via via
sempre più nascosta dai riflettori, quasi che il personaggio abbia preferito
rimanere nelle retrovie e comunicare solo con una ristretta cerchia di
appassionati di un certo mondo musicale, nonostante, anche nei suoi lavori meno
ispirati, abbia sempre dimostrato quella grande cura nella produzione che non
lo ha mai fatto slittare nel facile home-record fatto per sopravvivenza. Per
questo salutiamo con piacere questo Orpheus and the Mermaids,
perché alla fine il risultato di tanto peregrinare di questo svedese trapianto
in terra statunitense è l’essere arrivato a poter maneggiare una materia così
“vecchia” come il folk con la sicurezza, e direi anche la “statura”, del nome
di primo livello. In questi nove brani non c’è una nota o un giro di armonica che
non richiami Bob Dylan (Forced To), ancora una volta Van Morrison (Pass
on By) o Neil Young nella sua veste acustica (Jacksonville to Wichita),
eppure nonostante le soluzioni siano quelle che già vi potete immaginare, a 55 anni
Osborne dimostra piena padronanza del proprio songwriting, con testi anche
molto interessanti. Il disco ha infatti tutta l’aria della confessione intima a
partire dalla produzione, con un suono acustico e cantautoriale molto rigoroso,
al quale Anders concede poche soluzioni alternative in sede di arrangiamento
(molto azzeccato il coro muto che commenta la bella Dreamin’ ad esempio).
Osborne ha qualche storia personale da raccontare (Light up the Sun e Rainbows),
ma soprattutto qualche sassolino nelle scarpe da togliersi, come quando ricorda
l’amico Neal Casal prendendosela più o meno direttamente con quanti lo avevano
lasciato solo proprio in quel momento di debolezza che lo ha portato al suicidio
(Last Day in the Keys). Non so quanto un disco così visceralmente legato
al mondo della musica tradizionale americana possa aiutarlo ad evitare di
essere ancora una volta ignorato da praticamente quasi tutte le più note testate
musica che non siano di marca strettamente roots/americana, ma voglio credere
che la bontà di questi nove brani possa davvero farci ritrovare il suo nome in
qualche classifica di fine anno in più. Perché questo vecchio folk non è solo
puro manierismo, è la canzone d’autore americana che si ravviva ancora una
volta, pur partendo sempre da lì, da una chitarra, un’armonica, e qualcosa che
valga ancora la pena essere raccontato.
Nicola
Gervasini
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