venerdì 29 ottobre 2021

WALLFLOWERS

 

Wallflowers – Exit Wounds

2021 – New West

 

Che Jakob Dylan sia il figlio di Bob è informazione inutile per un artista che ha ormai alle spalle sei album con i Wallflowers e due come solista, ma con il papà ancora così in forma e sulla cresta dell’onda, pure Exit Wounds, settimo capitolo della band, viene presentato ovunque ancora come il disco “del figlio di”. Ingiustamente direi, visto che nonostante Jakob ovviamente non possa (e credo mai abbia neanche tentato di…) raggiungere la statura artistica e storica del babbo, la sua discografia resta comunque una delle più importanti della musica americana degli ultimi 30 anni. Exit Wounds esce dopo un periodo di lungo silenzio, dopo che l’ultimo capitolo Glad All Over nel 2012 aveva fallito un rilancio del marchio anche tra un pubblico non esclusivamente roots-oriented. Di fatto la storia dei Wallflowers dimostra una certa regolarità nell’alternare album di matrice puramente “Americana” come l’esordio del 1992 (che anzi musicalmente si identificava parecchio nel movimento H.O.R.D.E. dell’epoca), il vendutissimo Bringing Down The Horse del 1996 o Rebel, Sweetheart del 2005, ad altri dove era evidente il tentativo di trasformarsi in band radio-friendly con produzioni più che ammiccanti (Red Letter Days del 2002 e appunto Glad All Over), con in mezzo l’ottimo Breach del 2000 che resta forse il loro album più equilibrato tra le due anime. Exit Wounds, come si suole dire, “riporta tutto a casa” in un rassicurante sound da vecchio roots-rock anni 90, quasi come se Dylan Jr. si sia reso conto che è inutile cercare di raggiungere un pubblico che mai potrà comprendere in pieno le sue canzoni decisamente da era classic-rock, per cui meglio tener caldi i fans della prima ora. Ne è segno anche il fatto che dopo anni i Wallflowers escono dal mondo delle major e si accasano alla New West, etichetta importantissima, ma pur sempre in una nicchia ben definita come quello del rock americano. Con un risultato valido se sentito con orecchio allenato al genere, probabilmente il loro sforzo migliore dai tempi appunto di Breach, sebbene ormai in ritardo con la storia per diventare anche un disco importante per tutti. Resta il fatto che purtroppo non abbia più senso parlare di “loro” quanto di lui, perché la formazione attuale è completamente rinnovata, e non ritroviamo nessuno dei musicisti delle formazioni più storiche (con perdite comunque significative in termini di personalità come Rami Jaffee o Michael Ward) ma qualche scafato session-man in più. Jakob comunque dimostra che il lungo stop gli ha fatto bene perché brani come Maybe Your Heart's Not in It No More o I'll Let You Down (But Will Not Give You Up) entrano di diritto nel suo songbook migliore. Lo stile di base comunque resta il solito, con qualche momento in cui si alza il ritmo come Who's That Man Walking 'Round My Garden, ma un clima generale senza troppe spigolature, nel caso sempre smussate dall’intervento della seconda voce di Shelby Lynne. Potrebbe essere il “car-record” giusto per l’estate per chi avrà possibilità di viaggiare.

VOTO: 7

Nicola Gervasini

mercoledì 27 ottobre 2021

MICHELE ANELLI

 

Michele Anelli

Sotto Il Cielo di Memphis

(Delta Records & promotion, 2021)

File Under: Memphis in the meantime

Qualche giorno fa sui suoi social Michele Anelli ha scritto “L’altra sera ho sentito il corpo desideroso di scaraventare fuori tutta l'energia possibile, come se avessi dentro i Clash a sostenere le mie braccia. Sentire che gli anni passati a suonare e cantare con i Groovers e gli Thee Stolen Cars siano stati così importanti e propedeutici a essere quello che sono.”. Sta in questa frase l’essenza della sua più recente carriera discografica, dove gli anni del rock da strada in inglese appaiono lontani dalle canzoni presenti in album come Divertente Importante del 2018 o Michele Anelli & Chemako del 2013, ma l’energia che scorre nel sangue è sempre la stessa. Stavolta Anelli però ha voluto fare le cose in grande, andando a registrare il nuovo Sotto il Cielo di Memphis letteralmente sotto quel cielo. Anzi, in quel tempio di gran parte della musica che amiamo che sono i Muscle Shoals, dove Anelli ha immerso le sue canzoni nei suoni degli studi, col vantaggio di poter anche usufruire della collaborazione di qualche storico session-man della zona come il bassista Bob Wray (l’elenco delle sue collaborazioni fa girare la testa, da Al Green, a Ray Charles) e Justin Holder, oltre alla produzione del suono di John Gifford III, uno che ha lavorato ad esempio anche all’ultima fatica di Gregg Allman prima di lasciarci. Con queste premesse il suono del disco lo potete immaginare, anche se poi la sua band, i Goosebumps Bros (Cesare Nolli, Paolo Legramandi e Nik Taccori, con l’aggiunta di Andrea Lentullo e Elia Anelli), ha registrato in Italia. Quello che rende particolare il disco però è che se il sound cerca l’omaggio e l’effetto retrò, la scrittura resta quella sua più recente, molto vicina ad un cantautorato italiano più classico, quasi alla Ivan Graziani, sottolineato dalla sua voce sempre più pulita e usata su toni alti. Anzi, l’iniziale Appunti ricorda addirittura un po’ l’Amarsi un Po' di Lucio Battisti, mentre Quello che Ho è un bel duetto melodico con la voce di Elisa Begni dei Bluedaze. E dopo Tenerezza, caratterizzata da un bel crescendo finale, arriva Fino all’Ultimo Respiro, un brano decisamente Finardi-style anche nel testo, caratterizzato però da un bell’organo vintage alla Booker T Jones. La seconda parte è dedicata a brani più riflessivi, come Ballata Arida, quasi un lento da beat italiano degli anni 60, e È solo un Gioco, mentre Spalo Nuvole ha un’atmosfera più da Black Music anni 70, per finire con la sofferta dichiarazione di Sono Chi Sono. La Memphis Pack edition (LP, CD e 45 giri) contiene demo inediti che aggiungono sale ad un piatto già ricco, Anelli dimostra infatti con questo album che anni di esperienza sulla strada e sui palchi cominciano a pesare anche in fase produttiva, perché Sotto il Cielo di Memphis è qualcosa di più di un semplice omaggio alla musica che l’ha ispirato, ma è un disco molto maturo e personale, semplicemente immerso nel Mississippi esattamente come il Manzoni risciacquò nell’ Arno i suoi Promessi Sposi. E sebbene il disco sia al 100% italiano nello stile di canto e scrittura, a Memphis credo abbiano approvato con stima.

Nicola Gervasini

 

domenica 24 ottobre 2021

BENJAMIN FRANCIS LEFTWICH

 

Benjamin Francis Leftwich

To Carry A Whale

(Dirty Hit. 2021)

File Under: What's The Use Of Getting Sober

E’ ascoltando il quarto album del cantautore britannico Benjamin Francis Leftwich che ci si rende conto come la canzone indie-folk maturata tra gli anni novanta e duemila (diciamo di derivazione “Nickdrakiana” per dare un riferimento storico) sia ormai un genere a sé che si è radicato a tutti i livelli, sia quello della scena alternativa indipendente da cui è scaturito, ma ormai anche nel mainstream internazionale. Un bene in fondo, perché comunque il fenotipo del cantautore timido che sussurra la sua intimità con una chitarra acustica e poco altro, è comunque sempre in linea con le strade della tradizione che ci piace continuare a sondare anche in questi anni di gran confusione del mondo musicale mondiale. Benjamin Francis Leftwich viene da York, ha esordito nel 2011 in ritardo sulla la storia del suo genere, ma abbastanza in tempo per diventare un punto di riferimento anche molti giovani ascoltatori, a giudicare dal buon seguito registrato nelle piattaforme streaming. Prima dell’uscita di questo To Carry a Whale, Leftwitch aveva pubblicato online alcune cover degli Arcade Fire, Placebo, Killers e Blue Nile, un percorso che rende chiaro come abbia le idee chiare su dove collocare la continuità storica della sua musica, ma poi in una intervista citò Ryan Adams come prima ispirazione contemporanea, e i conti tornano tutti. Voce soffice ed eterea alla Bon Iver, giri di chitarra da vecchia scena folk, tastiere ed effetti a condire, e pure qualche flauto a sottolineare la melodia: l’apertura di Chery in Tacoma dice già tutto sull’obiettivo di album e artista, ma è anche uno dei brani più arrangiati del disco dal produttore Eg White (Adele, Florence & The Machine), perché già Oh My God Please riduce tutto ad un gioco tra le voci e la chitarra. Quello che rende particolare la proposta è comunque il suo modo di cantare inesorabilmente “british”, che a volte ricorda quello di Ian McNabb (ad esempio in Canary in a Coalmine, brano che racconta anche della sua uscita dall’alcolismo, tanto che il disco viene presentato come il suo primo ad essere stato registrato da sobrio). Rispetto ai dischi precedenti come Gratitude del 2019 o After The Rain del 2016 c’è molto meno uso di elettronica e tastiere, anche se Tired in Niagara o Everytime I see a Bird non si negano un crescendo finto-orchestrale e Wide Eyed Wandering Child si poggia su una non invadente drum-machine. Il disco si adagia pian piano nel suo involuto folk, con poche variazioni sul tema (in Slipping Through My Fingers appare un piano alla Pink Moon) e tanto evidente amore per autori come Jose Gonzalez, fino al veloce folk-pop finale di Full Full Colour che chiude in maniera più spensierata un album comunque cupo e decisamente intimista. To Carry A Whale è un capitolo molto personale di Leftwitch che forse non gli porterà grandi nuovi onori (il suo esordio Last Smoke Before the Snowstorm ricevette molte attenzioni nel 2011), ma resta una nuova valida testimonianza di come non serva essere per forza originali e  innovativi quando si hanno delle buone canzoni.

Nicola Gervasini

 

venerdì 22 ottobre 2021

JAMES YORKSTON

 

James Yorkston and the Second Hand Orchestra – The Wide, Wide River

Domino, 2021

Ci si potrebbe anche chiedere come mai, dei tanti autori della folk music britannica, solo James Yorkston ottiene sempre così tante attenzioni e riconoscimenti anche da stampa e pubblico innamorati dell’indie-folk moderno. In fondo lui è uno scozzese che, pur non essendo ancora cinquantenne, potrebbe tranquillamente essere artisticamente un coetaneo di Michael Chapman o di uno Steve Tilston, per citare due vecchi leoni della chitarra acustica ancora pienamente attivi, e di certo la sua musica non è figlia di questi anni duemila. Eppure, fin dall’esordio Moving Up Country del 2002, Yorkston ha sempre trovato la perfetta sintesi tra il non suonare completamente sorpassato e il non mollare di un centimetro l’amore per la tradizione e per una musica fatta di strumenti acustici e soffici melodie. Non fa eccezione The Wide, Wide River, disco anche più facile all’ascolto rispetto ad altre sue uscite più recenti, e che potrebbe anche ripetere l’exploit di suoi titoli come Just Beyond the River del 2004 e When the Haar Rolls Indel 2008, che entrarono addirittura nella Billboard inglese. L’iniziale Ella Mary Leather, nei suoi poco più di tre minuti, sembra infatti rispondere perfettamente alle attuali esigenze di immediatezza e brevità (quasi un folk-pop potremmo dire), ed’ è sapientemente piazzata all’inizio per mettere subito chiunque a proprio agio. Ma Yorkston anche questa volta concede senza però rinunciare a nulla, per cui subito dopo ecco arrivare la lunga e intensa To Soothe Her Wee Bit Sorrows, che è uno di quei brani giocati sul dialogo chitarra e violino che suona familiare solo a chi davvero mastica brit-folk da tempo.  Ma è evidente che il disco nel suo proseguo cerchi un ponte tra tradizione britannica e una indole cantautoriale, e se Choices, Like Wild Rivers ci va vicino a trovarla, la splendida Struggle, una ballata che potrebbe appartenere al Josh Ritter più ispirato, ci riesce in pieno, e rappresenta l’highlight dell’album con la tesa cavalcata di There is No Upside che la segue. Un esempio ancora più chiaro è A Very Old-Fashioned Blues, brano che se vi dicessero che è una outtake di Bonnie Prince Billy, ci credereste pure. Il disco esce cointestato con la Second Hand Orchestra, collettivo di musicisti svedesi capitanato da Karl-Jonas Winqvist (artista con cui Yorkston aveva già collaborato in passato), e in cui militano nomi importanti della scena come Peter Morén, Cecilia Österholm e Emma Nordenstam,. Il disco ha infatti un piglio da jam session quasi, con Yorkston che lascia spazio a tutti, e dimostra quanto sappia comunque fare la differenza anche in gruppo con brani azzeccati come A Droplet Forms o We Test The Beams. L’autunno è passato, ma dei dischi autunnali di Yorkston c’è sempre bisogno.

VOTO: 8

mercoledì 20 ottobre 2021

JOHN MURRY

 

John Murry - The Stars Are God’s Bullet Holes

Submarine Cat records, 2021

Sarà forse per la lontana - ma reale - parentela di uno dei suoi genitori adottativi con lo scrittore William Faulkner, ma a John Murry è sempre piaciuto infarcire non solo le proprie canzoni, ma anche le proprie storie personali, di tanta letteratura. E così da qualche settimana ama raccontare ai giornalisti che hanno avuto le interviste in esclusiva per il lancio di The Stars Are God’s Bullet Holes, suo atteso terzo album solista, che il disco non solo è stato l’ultimo registrato ad Abbey Road prima della chiusura per lockdown, ma che addirittura l’ingegnere del suono si era dovuto portare via tutto in bicicletta per mancanza di mezzi pubblici. Ma in fondo negli anni ogni suo disco e ogni racconto sulla sua vita (non ultima una proposta di matrimonio avvenuta durante una intervista, con risposta affermativa di lei arrivata via Twitter) sanno di “storytelling”, compresa l’arte della citazione più o meno colta che anche qui assale l’ascoltatore fin dal titolo della prima canzone Oscar Wilde (Came Here to Make Fun Of You). Insomma, John Murry pare dirci che è inutile darsi tanto da fare a registrare musica se poi intorno non ci ricami una storia da ricordare e ri-raccontare. Sarà forse per questo che il suo nome venga spesso accostato a quello di Lou Reed, uno che sempre più aveva elaborato una forma di rock vista quasi più come mezzo per arrivare ad un racconto. Murry non ha forse la statura musicale (e storica) di un Reed, ma ha prodotto due album molto validi come The Graceless Age o A Short History Of Decay, infarciti di storia musicale americana, sia quella rurale della provincia, che quella più avanguardista di New York, con un amabile gusto retrò che rappresenta forse il suo limite, ma gli va dato atto di essere nel bene o nel male uno degli artisti più eclettici e che meno si accomoda su un risultato raggiunto. Ne è la prova anche questo nuovo album, che è già un libro fin dal titolo, con una storia da raccontare che è la sua collaborazione con John Parish, l’uomo giusto per assecondare il suo amore per la new wave e per certa elettronica degli anni 90, con in aggiunta anche il fatto di essersi definitivamente trasferito in Irlanda a respirare sapori britannici. Fatto sta che il nuovo album è un riuscito mix di krautrock, dark anni ‘80, trip-hop ’90, e comunque prove da cantautore puro (la bella Ones + Zeros) che allargano ancora di più il suo raggio d’azione stilistico. Quello che va notato è che però resta molto più personale la sua scrittura (brani come Time & A Rifle e Perfume & Decay cominciano ad avere un suo marchio di fabbrica), che le sue soluzioni musicali, dove il gioco del rimando, dell’omaggio e della citazione, a volte sfocia fin troppo nella voluta ricerca del paradiso dell’ascoltatore nostalgico.  Tanti racconti che poi alla fine ci parlano di una artista che semplicemente non ha mai smesso di parlare con un passato che spesso non è neppure suo, come dimostrano le cover che abitualmente piazza a fine di ogni album o durante i concerti. Stavolta tocca a Ordinary World dei Duran Duran, a sorpresa forse una delle pop-song meglio sopravvissute nei giorni nostri dagli anni novanta, che lui riveste di nuovi sapori con aria da scafato artista.

VOTO 7,5

lunedì 18 ottobre 2021

SIRIO

 Sirio

Cronache Siderali

Rivertale Productions

 

Antonio Gilioli, in arte semplicemente Sirio, è un giovane cantautore bresciano (classe 1995) che da qualche anno propone una formula da folker one-man-band nei concerti della sua zona. Cronache SideralI è il suo primo album, selezione dei brani migliori tra i tanti scritti in questi anni di formazione, e, per l’occasione, nonostante il suono non abbandoni di base la sua abituale formula da combat-folker da strada, si è fatto aiutare da una vera e propria band formata dal batterista Stefano Doninelli (che suona anche il cajòn, la particolare percussione peruviana usata da molti artisti di strada) e il bassista Bruno Bonarrigo (abitualmente al seguito di Cisco), più la voce di Miriam Mori in brani come Son nel mezzo e nella veemente Ho scelto la luce. Per il resto è lui che tiene sulle spalle il tutto, con canzoni molto interessanti che gettano un ponte tra la tradizione dei cantautori italiani classici (Postumi di civiltà, Utensili spirituali o Canzone per un Amico) e ispirazioni più recenti (Lo scherzo della Morte piacerebbe a Vasco Brondi, ma anche Annegherò insieme a te o Destino biologico). Si fa notare come prova d’autore anche Da Qui, con la sua armonica dylaniana e un timido piano, mentre Son Nel Mezzo ha un “appeal” radiofonico non indifferente, che fa capire che con questa voce e questo tipo di canzoni Sirio potrebbe anche tentare fortune più ampie, ora che il mercato è particolarmente ricettivo a questo tipo di canzone in italiano. E potrebbe anche accadere senza dover per forza rinunciare ad una certa tendenza al testo ermetico, di quelli che non sempre si colgono al primo colpo, con libertà poetiche che potrebbero anche diventare dei riconoscibili marchi di fabbrica in un futuro

sabato 16 ottobre 2021

DE FRANCESCO

 

De Francesco

Tra Le Righe

(Rivertale Productions, 2021)

Quando nel 1957 Ray Bradbury pubblica L’estate Incantata è ormai uno scrittore affermato nel mondo della fantascienza grazie ai due romanzi precedenti (Cronache Marziane e Fahrenheit 451) e alle sceneggiature scritte per il cinema. Poté così permettersi un romanzo di formazione molto più personale e intimista, che ovviamente non ebbe lo stesso successo (ma ne pubblicò un seguito nel 2006 pochi anni prima di lasciarci), ma che oggi è l’ispirazione per il singolo dell’album di esordio di De Francesco. Una scelta coraggiosa quella di questo cantautore che testimonia che il vezzo di pubblicare un album dove ogni singolo brano prende l’ispirazione da un romanzo non sia una questione di permettere a chi non lo conosce di avere dei riferimenti in cui trovarsi subito, ma da un vero amore per le storie raccontate da altri autori. Inevitabile quindi il gioco di riconoscere la fonte di ogni brano, ma nelle parole di Di Francesco poi però troverete tutta la sua anima e il suo mondo, per cui brani come Aska (impreziosito dal sax di Dario Acerboni), La Donna Di Pietra (con la voce di Kika Negroni) o Evelyn Tango (qui interviene alla voce la bresciana Ottavia Brown) e una La Strada inizialmente immersa in effetti elettronici, sono comunque racconti personali. Album che si esprime con un suono indie-rock molto moderno, prodotto da David Mahony (qualcuno lo ricorderà come chitarrista dei Pitch), e suonato da una band ben rodata sui palchi formata da Michele Coratella alla chitarra, Matteo Rossetti alle tastiere e Simone Helgast Cavagnini alla batteria, con l’aggiunta di Kimmy Amelia alla voce (particolarmente in evidenza in Padania Blue).

martedì 12 ottobre 2021

AN EARLY BIRD

 

An Early Bird

Diviner

(Greywood Record, 2021)

 

Terzo appuntamento sulle nostre pagine in poco più di tre anni con la musica di Stefano de Stefano, alias An Early Bird, segnalato a suo tempo con i precedenti Of Ghosts & Marvels nel 2018 e Echoes Of Unspoken Words del 2020. Questo nuovo Diviner però esce per l’etichetta tedesca Greywood Record, segno tangibile sia di quanto sia maturata la scena indipendente anglofona italiana, ma anche di quanto il mercato nostrano sempre meno sembra ricettivo a questo tipo di artista (di fatto il grande salto di popolarità avuto da molti artisti dei bassifondi indipendenti italiani ha richiesto una proposta nella nostra lingua). Il singolo Under My Skin contiene già tutti gli elementi della sua musica, con riflessioni sull’amore cantati in puro stile da indie-folker e con aperture melodiche e pop nel finale, elementi che era ancora più nel primo singolo fatto uscire ad anticipare l’album Holding Onto Hope. Particolare anche la cura nella realizzazione dei video, con il primo che omaggia Il Piccolo principe e il secondo che vede protagonista un bellissimo gatto bianco. An Early Bird comunque gioca spesso con l’alternarsi di aperture scarne e acustiche, con successiva esplosione di tastiere e percussioni (Help Me Shine, Fishes In The Ocean, Mullholland Drive e Prayers In The Temple partono con chitarra acustica, Angela o Bad Timing come una piano-song). Molto belle anche One Week e Go All Out, sempre sorrette da un bel pianoforte, che confermano anche quanto spesso il suo modo di cantare e arrangiare oggi ricordi molto i dischi del mai dimenticato Tom McRae dei primi anni 2000.

sabato 9 ottobre 2021

DINELLI

 

Dinelli

Tiny Seeds

(Inconsapevole Records / Duff Records 2021).

Chissà quante volte vi abbiamo raccontato (e chissà quante volte ancora vi racconteremo) la storia di un componente di una band proveniente dal mondo del metal o del punk che si stacca dal gruppo per elaborare una personale proposta basta su un sound prettamente acustico e folk-oriented. È questo il percorso anche del toscano Dinelli, già attivo come voce dei Seed’N’Feed, band devota dei Bad Religion che ha animato la sempre fervente scena hardcore-punk italiana dalla fine degli anni 90 fino al 2011, ma che con questo Tiny Seeds si propone come nuova voce dell’affollato ma pur sempre attuale mondo dell’indie-folk internazionale. Lorenzo (questo il suo nome di battesimo), che già aveva esordito nel 2016 cantando in italiano con l’album Liberi per sempre, ha prodotto questi 13 brani in solitaria, suonando gran parte degli strumenti (ma sul suono ha buon peso il violoncello di Michele Menchini), e sottoponendo ad un trattamento da studio di registrazione solo la cover acustica di All My Life dell’Evan Dando solista di Baby I'm Bored. Il suono è molto pieno e la sua voce decisamente evocativa, e le canzoni da una parte continuano a parlare della sua visione del mondo sociale con la stessa rabbia lirica dei pezzi scritti in passato, ma dall’altra si concentrano molto sulla sua condizione di artista ormai maturo ma nel pieno di cambi di vita relativi a famiglia e lavoro che dovrebbero essere normali, ma che il mondo di oggi rende fortemente problematici sotto tutti i punti di vista. Ci sono tanti momenti introspettivi (Roselin, Forgiven, Endless), ma anche variazioni elettriche e più “rock” (Killed a Man, Back Into, Summerdays), il tutto confezionato con un buon gusto decisamente anni Novanta.


martedì 5 ottobre 2021

RYAN ADAMS

 

Ryan Adams – Big Colors

2021, PAX AM

 

Pare che fortunatamente le polemiche scatenate dal ritorno discografico di Ryan Adams con l’album Wednesdays non siano state abbastanza forti dal fermare la sua voglia di ritornare sotto le luci della ribalta. Un bene per chi comunque continua ad apprezzare il suo grande sforzo produttivo e artistico, e così dopo pochi mesi siamo qui a parlare di Big Colors, secondo capitolo di una trilogia registrata ormai più di tre anni fa, ma rimasta nel cassetto in attesa di tempi meno burrascosi per la sua reputazione. Anche qui pare che qualcosa sia poi stato variato dal progetto originario, e già Wednesdays era uscito in una versione ridotta rispetto a quella annunciata tempo fa, ma in attesa del terzo capitolo (che potrebbe uscire già comunque entro la fine del 2021), fa piacere constatare come Adams, pur nella sua inarrestabile “iper” (e forse anche “sovra”) produzione, riesca comunque a dare una personalità precisa alle proprie creature discografiche. E così se Wednesdays esaltava il suo lato più intimista e cantautoriale, Big Colors segue invece la vena più radio-friendly di album come Prisoner o Cardinology. D'altronde la title-track posta in apertura ribadisce tutto il suo mai nascosto debito verso il pop inglese (il suo primo album solista si apriva con una discussione su Morrissey ad esempio), ma è tutto il disco che cerca nuovamente quella perfetta sintesi tra rock americano e un gusto melodico tutto “british” che aveva già trovato la sua perfezione formale in Love Is Hell del 2004, tanto che persino la cover Wonderwall degli Oasis pareva un suo brano. Stavolta però il risultato è alterno, perché l’utilizzo di una produzione (c’è Don Was ad aiutarlo) che riporta in evidenza le batterie nuovamente “grosse”, ritornate in auge in questi anni dieci (dopo che l’indie-folk le aveva fatte sparire per lungo tempo), a volte pare un po’ forzato e non necessario (Fuck the Rain non perderebbe vigore senza ad esempio), e i risultati migliori sembrano arrivare laddove Ryan si concentra più sulla canzone (Manchester o le più convenzionali What Am I e In It For The Pleasure) che sull’effetto che desiderava ottenere. Resta che ci sono episodi che escono con successo dai suoi schemi abituali (l’hard-rockabilly di Power ad esempio), ma altrove cerca un suono da rock FM anni 80 che non gli si addice troppo. Se paragonassimo infatti Do Not Disturb ad un brano del miglior Chris Rea credo che neppure lui si scandalizzerebbe, ma cose come I Surrender o Middle Of The Line, per quanto piacevoli, ha smesso da tempo di farle persino Bryan Adams, quello con la B in più. Eppure, sebbene il disco non abbia lo stesso spessore del suo predecessore (e credo che verrà in futuro annoverato tra i suoi episodi minori), Big Colors riesce a confermare ugualmente la statura eccezionale di questo artista, ancora capace di sbagliare con gusto.

VOTO: 6,5

venerdì 1 ottobre 2021

GRUFF RHYS

 


Gruff Rhys

Seeking New Gods

(Rough Trade, 2021)

File Under: Under the Volcano

Il Monte Paektu (spesso chiamato anche Baitou) è un vulcano che si trova al confine tra Corea del Nord e Cina. È considerato sacro, se non proprio una divinità lui stesso, dalla popolazione coreana, in quanto è una montagna viva che ancora cresce circa 3 cm all’anno. Il lago che si trova oggi nel cratere, chiamato Lago Paradiso, è nato nel 1597 a seguito di una eruzione particolarmente violenta, e tutto fa pensare che anche in futuro la montagna muterà la propria morfologia. No, tranquilli, non ci siamo trasformati nel National Geographic, ma semplicemente vi stiamo parlando del protagonista principale di un concept-album che solo una mente fervida e innamorata di storie da raccontare come Gruff Rhys poteva affrontare. Il leader dei gallesi Super Furry Animals, istituzione del brit-pop degli anni 90, da tempo ormai sembra esprimersi al meglio nelle sue sortite soliste, e già sulle nostre pagine avevamo segnalato il bellissimo Candylion del 2007, probabilmente uno dei più bei omaggi al brit-folk classico degli anni 2000, da mettere in bacheca vicino ai dischi di James Yorkston e degli Espers. Ma Rhys ha dimostrato poi che anche la sua ispirazione ama pescare un po’ ovunque, e così questo Seeking New Gods racconta di tutti i significati esoterici che il vulcano coreano porta con sé, e che tanto lo hanno impressionato, attraverso uno straordinario viaggio che mischia pop psichedelico, folk e tanto altro. Immaginate un incontro in studio di registrazione tra Ben Watt e John Grant per dire, con strani intrecci che già nel primo brano Mausoleum Of My Former Self portano a sentire interventi di elettronica che duellano con una sezione fiati quasi tex-mex (opera del trombettista Gavin Fitzjohn) su un classico mid-tempo folk-rock alla Richard Thompson. Altrove leggerezze soft-pop come Can’t Carry On (con il gran lavoro alle voci di Mirain Haf Roberts e Lisa Jên) o una Holiest Of The Holy Men che sa di Blur al 100% diventano così un nuovo ingrediente da aggiungere all’evidente amore per il cantautorato (non solo britannico) degli anni Settanta, evidenziato da brani come Seeking New Gods o Hiking In Lightning. La band che lo segue è la stessa che usa da qualche anno anche nei tour, con il batterista Kilph Scurlock e il bassista Stephen Black ormai consolidati partners, e il pianista Osian Gwynedd che si divide con lui anche l’incombenza di spargere quelle che chiamano “cosmic synths” un po’ ovunque. Produzione di gruppo quindi, perfezionata tecnicamente dal missaggio di Mario Caldato, il “Mario C” delle produzioni dei Beastie Boys. Il disco, sebbene non sia per nulla leggero nelle liriche e nei significati, anche molto personali, nascosti dietro alla lunga storia del vulcano, si ascolta anche con immediato piacere, e solo nel finale arrivano i brani più lenti e complessi come Everlasting Joy e Distant Snowy Peaks. Probabilmente se Harry Nilsson fosse ancora vivo e lucido, avrebbe potuto fare un disco così.

 

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...