lunedì 1 novembre 2021

SON VOLT

 

Son Volt

Electro Melodier

(Thirty Tigers, 2021)

File Under: These Are The Times

Destino strano quello di Jay Farrar e della sua creatura Son Volt, nati dalle ceneri degli Uncle Tupelo (ma dobbiamo davvero ricordarvelo?) con premesse persino più promettenti di quelle dell’antico compare Jeff Tweedy e dei suoi Wilco, ma rimasti invece negli anni relegati ad un mondo di appassionati di genere, mentre Tweedy nel frattempo cavalcava palchi in linea con le mode degli anni 2000. L’aspetto che spesso viene sottolineato della loro storia musicale è un certo immobilismo stilistico, che rende i dischi dei Son Volt, ma pure le stesse singole canzoni che li compongono, sostanzialmente sempre identici se ascoltati da un orecchio non allenato, ma noi sappiamo che, al netto di una possibilità espressiva non proprio vastissima della sua vocalità e della sua concezione artistica, non è proprio così. Per questo Electro Melodier, decimo album della sigla, ci è piaciuto subito, perché rappresenta una summa delle anime della sua musica, che passano dalle chitarre rozze di Reverie alle ballate sognanti come Arkey Blue (ma anche qui nel finale il break di chitarra elettrica sottolinea i due tipici registri di Farrar).

Electro Melodier è un disco da lockdown come tutti quelli che stiamo ascoltando di questi tempi, nato durante il forzato stop al tour di Union, che Farrar ha sfruttato positivamente con una serie di canzoni davvero ben scritte che fotografano la situazione del suo paese, non più tanto con la vis polemica che animava il precedente disco, quanto più con un taglio giornalistico di pura presa di coscienza dello stato di una società, prima ancora di una nazione. In questo senso l’inserimento di alcuni brani che fanno il punto anche sul suo lungo matrimonio (Lucky Ones e Diamonds and Cigarettes, ballatona da brividi con la voce di Laura Cantrell), assume un aspetto quasi di voluto parallelo tra vita privata e rapporti sociali che si stanno rigenerando e ricostruendo dopo lo tsunami del Covid, che ormai ci si rende conto anche nelle canzoni quanto sia una rivoluzione globale paragonabile all’11 Settembre 2001.

Ma è tutto il disco che appare essere particolarmente ispirato, con un anthem come Living In The USA (springsteeniana non solo nel titolo) che tornerà sicuramente buono nei prossimi tour, dure fotografie della realtà come War On Misery (e qui siamo in puro campo gothic-country, come anche The Levee On Down) o These Are The Times, che confermano Jay Farrar come uno dei più meritevoli eredi della filosofia di Woody Guthrie, solo con qualche scarica elettrica in più. Ma come aveva già provato nel valido The Search del 2007, qui prova anche ad ampliare il sound con qualche inusuale intervento (il moog di The Globe) e qualche volutamente non celato richiamo alla storia del rock (i Led Zeppelin echeggiati da Someday Is Now). Un disco comunque ottimista e pieno di speranza, nonostante i toni cupi e malinconici tipici del suo autore, e forse era proprio quello di cui avevamo bisogno ora.

Nicola Gervasini

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