mercoledì 28 novembre 2018

RICHARD THOMPSON

Richard Thompson 
13 Rivers 
[
Proper records 
2018]
richardthompson-music.com
 File Under: chi fa da sé...

di Nicola Gervasini (18/09/2018)
Alla fine poi è nella semplicità la soluzione giusta, e ora l'ha capito anche Richard Thompson. Esaurita la fase revival con la serie "Acoustic Classics", il vecchio chitarrista inglese (ma neanche vecchissimo, i settanta li raggiungerà solo l'anno prossimo, a dispetto di una carriera che ha già superato i cinquant'anni di attività) torna con un nuovo album di inediti. 13 Rivers è composto da 13 fiumi in piena di chitarre e una versione elettrica di qualcosa che ormai solo a tratti ricorda quel folk inglese di partenza che solo lui ha saputo manipolare così bene. A differenza dei suoi predecessori, come Electric e Still, il nuovo disco, pur uscendo sempre per l'americana New West (l'inglese Proper per la versione europea), non cerca più nuove strade tramite produttori di grido nel mondo dell'Americana (nel primo era Buddy Miller, nel secondo Jeff Tweedy), ma torna all'autoproduzione.

E non solo: si torna in studio con la rodata band che lo segue anche nei tour, in cui continua a spiccare il funambolico batterista Michael Jerome, oltre a Taras Prodaniuk e Bobby Eichorn. Un trio formidabile che Thompson ha rinchiuso in tutta fretta in uno studio di Los Angeles lo scorso ottobre per dare vita a canzoni nate nei sei mesi precedenti. Libero quindi dalla necessità di dimostrare di essere ancora moderno, Thompson anima più di cinquanta minuti di tiratissimo folk elettrico, con due chitarre bene in vista e un sound tagliente che ricorda quello di album come Sweet Warrior o Mock Tudor. Bastano solo i sei minuti iniziali di Storm Won't Come, brano di superba scrittura, pregno di una tensione positiva palpabile nel drumming di Jerome, e impreziosito da un assolo che mette a tacere tutti e che dimostra che nel 2018 si può ancora essere un guitar-hero con intelligenza. Ma è tutto il disco che convince, con una The Rattle Within che recupera arie tradizionali inondandole di elettricità, o con la solita ironia con cui affronta da sempre i temi sentimentali in Her Love Was Meant For Me.

Thompson torna ad essere produttore e a registrare in analogico e in presa diretta, e a sua detta alcune tracce non hanno neanche subito ritocchi. E c'è da credergli, sentito il genuino tiro da live-version di brani come You Can't Reach Me No Matter, e sono solo alcuni esempi dell'atmosfera decisamente up-tempo del disco. I momenti riflessivi ci sono, ma si limitano a The Dog in You e al bellissimo finale di Shaking the Gates. Non convinceremo più nessuno ormai a farsi piacere l'opera di Richard Thompson, se già non si era convinto prima, potremmo anche solo usare un brano come Do All These Tears Belong to You? per fare una lezione di buon songwriting alle nuove generazioni e nessuno avrebbe da protestare, ma chi lo ama sappia che 13 Rivers è forse il suo disco più convincente dell'ultimo decennio. Forse già lo avrà scoperto da solo, perché Thompson resta uno di quelli da acquistare a scatola chiusa, e cominciano ad essere in pochi a vantare una simile continuità qualitativa. 

venerdì 23 novembre 2018

MIKE FARRIS

Mike Farris 
Silver & Stone
[
Compass 
2018]
mikefarrismusic.com
 File Under: The singer, not the song

di Nicola Gervasini (01/10/2018)
Esiste una categoria di cantanti che scherzosamente definiamo con un "potrebbe cantare anche l'elenco del telefono che sarebbe ugualmente bello sentirlo". Definizione da aggiornare forse, anche solo per il fatto che gli elenchi dei telefoni non so nemmeno se li distribuiscano più, ma per il resto il mondo della musica continua a dividersi tra quelli che ci vivono per un dono di natura (la voce, per esempio) e quelli che ci entrano a testa bassa per pura vocazione creativa. Capita a volte il miracolo di trovare chi incarna entrambi i ruoli, ma è ovvio che per un Tom Jones che ha avuto in dono una voce che fa vibrare i vetri, esiste un Bob Dylan che è diventato il più grande a dispetto di una natura che ha provato a mettergli i bastoni fra le ruote (ma proprio non c'è riuscita fortunatamente).

Mike Farris ad esempio ora fa sicuramente parte della prima categoria, anche se forse ci si è adattato suo malgrado col tempo. Di certo non era solo per mettere in mostra la sua gran voce che aveva fondato a metà degli anni novanta gli Screamin' Cheetah Wheelies, brillante ibrido tra la vena jam dei Widespread Panic e l'anima sudista dei Black Crowes, con cui realizzò almeno tre ottimi dischi non troppo baciati dalla fortuna. La sua carriera solista invece è stata fin da subito caratterizzata da una esaltazione della sua voce, perpetrata attraverso una ricerca nella tradizione americana condotta miscelando cover e brani originali in un calderone fatto di gospel, blues, rock e tanto soul. Nel 2007 il suo disco più gospel-oriented, Salvation In Light, esaltò tutti, noi compresi, e da allora non ha sbagliato un colpo, pur rinunciando a cercare un tocco più personale anche nel songwriting.

E non fa eccezione il nuovo album Silver & Stone, come al solito equamente dosato tra interpretazioni e brani autografi che paiono però classici del soul esattamente come i primi. Non riuscendo troppo a notare la differenza tre le due categorie, il risultato è che ancora una volta Mike Farris non scrive la storia, ma la canta davvero bene, aiutato da un team di musicisti formidabili (tra cui spicca il chitarrista Doug Lancio) e da qualche amico che movimenta la festa (Joe Bonamassa, che impreziosisce Movin' Me fortunatamente senza strafare). Godetevi dunque una strepitosa versione di Hope She'll Be Happier di Bill Withers (grande anche solo la scelta per nulla banale del brano), una Are You Lonely fro Me Baby? di Bert Berns che se la gioca con le tante versioni che l'hanno preceduta (fu una hit per Freddie Scott, ma è stata interpretati da mostri sacri come Otis Redding e Al Green o anche Steve Marriott, Buster Poindexter e Buddy Guy) o classici iper-noti come Let me Love You Baby di Willie Dixon.

Tra questi si inseriscono i brani di sua scrittura, tra cui spiccano la bluesy Tennessee Girl e la baldanzosa Snap Your Finger. Per il resto chitarre taglienti, organo Hammond a briglia sciolta, e tanta passione: sapete già cosa chiedere ad un disco di Mike Farris, e lo avrete anche questa volta. 

martedì 20 novembre 2018

JONATHAN JEREMIAH

Jonathan Jeremiah 
Good Day
[
Pias/ Self 2018]
facebook.com/jjeremiahmusic
 File Under: il nostro disco che suona…

di Nicola Gervasini 
(10/10/2018)
In un'epoca in cui le grandi etichette ormai non riescono più a determinare il mercato, Jonathan Jeremiahaveva rappresentato per la storica Island Records un positivo tentativo di dire qualcosa anche in questi anni dieci. Lo storico patron Chris Blackwell ha ormai da tempo venduto tutto alla Universal, ma nel tentativo di mantenere un marchio che un tempo voleva dire coraggio e qualità nel cercare nuovi mondi musicali, si scoprì questo bello e strambo cantautore londinese, che con la Island ha pubblicato due dischi (A Solitary Man del 2011 e Gold Dust del 2012) infarciti di sapori da cantautorato classico americano e un pizzico di attitudine da indie-folker. Scaricato dalla Universal, il nostro tiene però duro, e il suo quarto album Good Day esce per una label indipendente, con buona pace dei tempi in cui firmare per una major era un sogno da realizzare e un punto di arrivo.

Good Day accentua ancor più quel suo gusto vintage di ricerca di sonorità antiche, che pescano stavolta nel soul-pop degli anni sessanta. Nulla di nuovo in questo recupero, il sound di Good Day non è infatti lontanissimo da quanto proposto (allora sì con un pizzico di originalità nella scelta) dalla sfortunata Amy Winehouse ai tempi del suo unico album Back To Black. Soltanto che nel 2018 le esperienze musicali da cui attingere sono ormai svariate, per cui accade che un pezzo come Deadweight riesca in un colpo solo a richiamare il giro di basso di Sour Times dei Portishead per trasportarlo in sette minuti di tripudio orchestrale degno di una colonna sonora di un James Bond degli anni 60. E' questo sicuramente il pezzo forte e più rappresentativo di un album che probabilmente gioca più con la forma che con la sostanza, quasi che i panni di semplice songwriter dei sui esordi gli stiano ormai stretti. Il gioco vale la candela perché la (ri)produzione dei suoni è davvero notevole, ma alla fine si fa ripetitivo, e fine a sè stesso.

Piacciono comunque la leggerezza della title-track, l'intensità di Hurt No More (ma quegli archi dietro non ricordano un po' troppo quelli di Ain't No Sunshine di Bill Whiters?), e il momento puramente Burt Bacharach di U-Bahn (It's Not Too Late For Us). Per il resto i brani non solo si assomigliano un po' tutti, ma assomigliano a tanti brani del new-soul degli ultimi quindici anni, e ancor più ricordano sempre tanti originali di 40-50 anni fa. Ripartire dalle origini sembra essere il gioco della modernità, per cui accettiamo Good Day come l'ennesimo esercizio di stile condotto con professionalità. In fondo fa anche piacere che le giovani leve apprezzino ancora una ballatona romantica come Shimmerlove, un pezzo che sarebbe potuto piacere ai nostri nonni come alternativa a Fred Bongusto, e che risponde alla domanda che fu di Joe Jackson su dove diavolo siano finiti i lenti.

Il bello di questi dischi è che in fondo dimostrano come la fine dell'età dell'oro del rock abbia abbattuto anche le lotte generazionali, e se Bob Dylan può finire la carriera cantando Frank Sinatra risultando credibile, nulla di strano se oggi i figli suonano la musica che i loro nonni ascoltavano sulle rotonde sul mare come se fosse rivoluzionaria.

venerdì 16 novembre 2018

GRAHAM PARKER

Graham Parker 
Cloud Symbols 
[
100% Records 
2018]
grahamparker.net
 File Under: Emotional weather report

di Nicola Gervasini (17/10/2018)
Ammetto fin da subito che ho dei seri problemi ad essere obiettivo con Graham Parker. Per cui facciamo un esperimento: guardiamo per esempio il video di Girl In Need, il nuovo singolo (per quali classifiche?) tratto da Cloud Symbols, suo ventiduesimo album di inediti. Proviamo quindi a far finta di non conoscerlo. Cosa vediamo e sentiamo? Io vedo un vecchio rocker, in un vecchio salone, con una band di vecchi, che suona un brano costruito su un giro stravecchio leggermente swingato, che lui stesso ha già usato in passato più volte, e che oltretutto ricompare anche in altri pezzi dello stesso nuovo album (Ancient PastDreamin' o Bathub Ginlo rallentano, ma il concetto è sempre quello). Insomma, a voler essere neanche cattivi, ma obiettivi, rispetto a quello che è rimasto del grande carrozzone del rock, Parker è ormai un personaggio che vive ai margini, e forse anche un po' di rendita.

Eppure lo ammetto, non riesco a fare a meno delle sue nuove storie, raccontate con quella voce che non sai mai se parla seriamente o ti sta pigliando in giro, ma che quando vuole tocca corde emotive accessibili a pochi altri. Ecco, potrei anche finire qui la recensione di Cloud Symbols (che ha l'ennesima copertina oggettivamente brutta della sua carriera, tra l'altro), ma a questo punto inserisco la modalità "passione" (che non è mica "una parola qualsiasi", ci ha insegnato proprio lui) e passo a raccontarvi il nuovo libro di storielle di quest'uomo al quale devo tanto anche nella mia vita personale, sebbene questa sia esattamente la frase che un buon recensore dovrebbe evitare di scrivere. Ma bando alle regole, Parker mi piace perché pur raccontandoti il rapporto che abbiamo con le nuove tecnologie con il punto di vista del vecchio che paragona il tutto al mondo come lo conosceva fino a qualche anno fa, lo fa con una leggerezza e un'ironia che lo rende sempre e comunque credibile. E in fondo, anche se davvero non sembra, attuale.

Cloud Symbols è una sorta di concept (nato su richiesta del regista Judd Apatow per la serie Love, in onda su Netflix) che parla di un uomo che guarda le previsioni del tempo sullo smartphone e vive anche la sua vita reale attraverso le sensazioni che ti può dare sapere che al momento piove a Roma, ma c'è il sole a Los Angeles. Il tutto letto con aria divertita (in Brushes si parla di gustare ostriche con doppi sensi sessuali alquanto chiari), o emozionata (ballate come Is The Sun Out Anywhere o Maida Hill gli vengono sempre benissimo). Abbandonata la parentesi iper-nostalgica con i Rumour, ad aiutarlo stavolta ci sono i Goldtops (Martin Belmont, Geraint Watkins, Simon Edwards e Roy Dodds), ma le differenze si notano poco, considerando il largo uso della stessa sezione fiati usata con i vecchi compagni di viaggio.

Non c'è davvero nulla di nuovo nel disco di Graham Parker, se non il fatto che oggi queste canzoni intrise di soul, pop e folk ci sembrano quanto mai ancora necessarie. 

lunedì 12 novembre 2018

EMMA TRICCA

Emma Tricca
St. Peter
[
Dell'orso Records 2018]
emmatricca.com
 File Under: All the Folk Songs That's Fit to Sing

di Nicola Gervasini (04/06/2018)
Mentre ascoltavo St. Peter di Emma Tricca immaginavo la sua label discografica impegnata in un divertente scherzo da primo di aprile, e cioè far uscire il disco spacciandolo per il lost-record di qualche oscura chanteuse folk inglese dei primi anni settanta, qualcosa come una attesissima ristampa di un disco noto solo ai collezionisti di vinile, con conseguente operazione di riscoperta sulla falsa riga di Vashti Bunyan, Linda Perhacs o Anne Briggs. Sono sicuro che in questo caso oggi non saremmo qui a dovervi convincere che una ragazza italiana possa davvero essere in grado di maneggiare una materia nobile quanto antica come il brit-folk con così tanta sicurezza, affrontando i vostri sguardi scettici (e li vedo anche al di qua dello schermo).

La biografia di Emma Tricca narra di incontri rivelatori con John Renbourn e Odetta e di un volontario esilio a Londra cercando un ambiente più consono alla sua musica, storie usuali quarant'anni fa, ma stavolta il tutto si è svolto negli anni duemila. Narra anche di una gavetta (incredibile, ma qualcuno la fa ancora!) fatta di concerti nei pub e prime esperienze discografiche in costante crescita (l'esordio con Minor White è del 2009, Relic del 2014), e di continui riconoscimenti nel mondo folk britannico. Nessun cervello in fuga quindi, solo una ragazza che ha deciso di abbracciare uno stile e studiarlo fino in fondo sul luogo di origine. E oggi arriva St. Peter, quello che ai tempi avremmo definito l'album della maturità, dove il suo canto impostato e decisamente debitore della già citate Odetta e Vashti Bunyan (ma soprattutto, secondo me, di Karen Dalton), trova humus ideale in un pugno di brani davvero ben scritti e realizzati con musicisti certo non di primo pelo.

Fa abbastanza impressione, infatti, vedere coinvolto nel progetto Steve Shelley, storico batterista dei Sonic Youth, in libera uscita da una band che speriamo sempre di non dover ritenere definitivamente sciolta, ma anche alle prese con un genere non certo abituale per lui. Così come si calano perfettamente nella parte di modernizzatori della tradizione (in puro stile Renbourn o Richard Thompson) il Dream Syndicate Jason Victor o l'Howie Gelb che passa a dare un suo contributo in Fire Ghost. Il disco tra l'altro, dopo una partenza melodica e tradizionale con Winter, My Dear, assume anche una vena di folk sperimentale davvero interessante, che a volte richiama certi passaggi degli Espers o di Ryley Walker, e se spesso è la melodia ad essere in primo piano (Julian's Wings), altrove Emma lancia i suoi collaboratori in piccole jam anche elettriche come Buildings In Millions. Ma la sua maturità emerge anche nella capacità di saper alternare i sapori, come il giro un po' alla Neil Young di Salt, l'assolo acido di Green Box o la bellissima ballata Mars is Asleep.

Nel finale arriva lo zenith del disco, con una impressionante (per quanto è bene arrangiata) The Servant's Room e i tesi sette minuti e passa di Solomon Said, in cui fa capolino un ipnotico spoken di Judy Collins che recita la propria Albatross. Chiude con dolcezza solo apparente So Here It Goes, ballata acustica che si trasforma in un'altra esplosione di strumenti in libertà. L'ascolto di questo album. più che consigliato, è caldamente sollecitato.

venerdì 9 novembre 2018

COWBOY JUNKIES

Cowboy Junkies 
All that Reckoning
[
Latent/ Proper 
2018]
cowboyjunkies.com
 File Under: canadesi erranti

di Nicola Gervasini (18/07/2018)
A voler essere precisi erano ben unidic anni che i Cowboy Junkies non pubblicavano un nuovo album, fin dai tempi del controverso e non sempre ben accolto At the End of The Paths Taken. In mezzo però ci sono stati i quattro capitoli delle Nomad Series (cinque, se si comprende anche il volume "Extras"), apparentemente un progetto "only for fans" pensato per svuotare magazzini ingolfati di inediti sparsi in più di vent'anni di attività, a conti fatti l'occasione per ascoltare alcune delle cose migliori sentite dal loro marchio dai tempi di Lay It Down (1996). Infatti, sembra quasi che i fratelli Timmins sentano una sorta di obbligo morale e piscologico a non osare troppo quando si tratta di un nuovo album, relegando tutto il coraggio e la sperimentazione ai soli progetti speciali.

Non è un caso quindi che anche l'atteso All That Reckoning sembri in qualche modo soffrire degli stessi difetti di album come One Soul Now (2004) o Miles from Our Home (1998), e cioè un eccessivo formalismo, e una caparbia coerenza a quel credo stilistico annunciato al mondo ai tempi del loro indiscusso capolavoro The Trinity Session. Fatta questa doverosa premessa, resta però il fatto che la band canadese sia una delle meglio sopravvissute ai fasti musicali della scena "alternative-roots" degli anni 90, e All That Reckoning lo dimostra in pieno, pur nel suo evidente limite di essere "solo un tipico album dei Cowboy Junkies".

Brani lenti, appoggiati al solito sulla voce sognante e senza sbavature di Margot Timmins e su quell'amore per l'essenzialità del fratello Michael, la cui chitarra ovviamente segna il suono senza mai prendersi la scena, quasi costringendosi a nascondere la propria personalità. Ad esempio in When We Arrive, dove il tono drammatico di Margot viene rispettato anche fin troppo dagli interventi della chitarra di Michael, o già nella prima title-track, che aveva aperto senza troppi clamori il disco (molto meglio la più rumorosa seconda parte che chiude le danze). Bisogna aspettare Wooden Stairs per assaporare l'indole un po' psichedelica della band, grazie all'intervento di una minacciosa viola, e la successiva Sing Me A Song per sperimentare l'elettricità della sei corde di casa. Pezzi come Mountain Stream rallentano però il corso delle emozioni, secondo uno schema fisso canzone rilassata/canzone tesa (ad esempio la successiva Missing Children) che alla fine risulta un po' prevedibile.

Il risultato è chiaro: i Cowboy Junkies fanno benissimo quello che già conoscevamo come il loro suono migliore, ma se cercate uno scatto in avanti verso una nuova fase, non è All That Reckoning che lo cerca. Anzi, suona come un possibile seguito di Pale Sun Crescent Moon, che è un album di 26 anni fa, ed è davvero come se non fossero passati. A voi decidere se questo sia un bene, un male, o semplicemente la natura delle cose. 

martedì 6 novembre 2018

THE JAMES HUNTER SIX

The James Hunter Six
Whatever It Takes
[
Daptone/ Goodfellas 
2018]
jameshuntermusic.com
 File Under: Tribute to Uncle Ray

di Nicola Gervasini (19/02/2018)
Il momento d'oro della carriera di James Hunter è passato e fu a metà anni 90. Dopo una carriera da pub con gli Howlin' Wilf & The Veejays, il soul-singer dell'Essex fu notato nel 1994 nientemeno da Sir Van Morrison, che per il tour a seguito di Too Long In Exile si diede ad una insolita attività di talent-scout imbarcando lui e il vocalist Brian Kennedy (fratello dello scomparso Bap degli Energy Orchard). Hunter appare così tra gli ospiti del live A Night In San Francisco e nel successivo album in studio Days Like This, e da lì nel 1996 il grande salto con un album abbastanza acclamato come ...Believe What I Say, sempre valorizzato dall'endorsement di Morrison in qualità di guest star.

Se nel 1996 offrire una proposta così retrò come un R&B di chiara marca Ray Charles, riprodotto fedelmente nei temi e nei suoni vintage, poteva sembrare una coraggiosa operazione, nel 2018 un disco del genere rappresenta solo una delle miriadi testimonianze del fatto che ormai stiamo parlando della musica classica degli anni 2000, dove non conta più creare ma riproporre. Va dato merito ad Hunter di aver evitato in questi 22 anni di cadere nella volgare imitazione da salotto buono alla Michael Bublè, giusto per citare uno che su Van Morrison ci ha pure costruito uno dei suoi più laccati successi, ma all'inizio degli anni dieci la sua carriera era comprensibilmente ad un punto morto. A rivitalizzare il personaggio è stata l'intelligente scelta di creare un combo (chiamato James Hunter Six secondo tradizione jazzistica) che potesse ritrovare almeno un poco dell'antica energia giovanile. Dopo un timido esordio per la Universal (Minute By Minute), il sestetto ha avuto la buona idea di passare con l'album Hold On! del 2016 alla Daptone, etichetta specializzata in produzioni vintage fatte con cuore e intelligenza.

E i risultati si vedono anche in questo Whatever It Takes, album davvero old-style per copertina, suoni, contenuti e anche durata (28 minuti scarsi). Minutaggio che se non altro permette di non annoiarsi e godersi appieno questa finestra sul passato, con un Hunter che forse ormai imita troppo Ray Charles con la voce, ma con una band più che in forma. Tutto già sentito comunque, dal giro di fiati di I Don't Wanna Be Without Youal giro jazz-salsa della title-track, da una I Got Eyes che sembra uno dei primi singoli filo-soul dello Spencer Davis Group al ballo da struscio di MM-hmm, dallo strumentale alla Booker T. & the M.G.'s di Blisters alla love-song da spiaggia di I Should've Spoke Up e così via, fino alla romantica chiusura di It Was Gonna Be You.

Cosa potrebbe spingervi dunque a comprare 28 minuti di musica già fatta più di 50 anni fa? La passione è l'unica risposta possibile, quella che alla Daptone sanno ancora metterci in prodotti senza alcun senso storico se non il puro intrattenimento di inguaribili nostalgici. E non è poco in fondo sapere che esiste ancora una etichetta in grado di curare i dettagli in un'epoca di produzioni casalinghe fatte alla buona.

venerdì 2 novembre 2018

SCOTT MATTHEW

Scott Matthew
Ode to Others
[Glitterhouse 
2018]
scottmatthewmusic.com
 File Under: indie lounge

di Nicola Gervasini (18/07/2018)
I nodi, prima o poi, vengono al pettine, e così anche per l'australiano (ma ormai da tempo statunitense d'adozione) Scott Matthew è tempo di capire cosa poter fare da grande. O forse di rendersi conto che la coperta del suo mondo musicale comincia ad essere corta. Lui aveva già fatto capire i suoi limiti ai tempi del terzo album Gallantry's Favorite Son, recensito anche su queste pagine, dove la sua estetica fatta di piglio lo-fi da indie-folker e eleganze pop alla Rufus Wainwright mostrava già una certa ripetitività, e ora arriva questo Ode To Others a ribadire il concetto.

Il disco è confezionato con grande cura, fin dal lussuoso packaging che ancora combatte fieramente la guerra contro la sparizione dello stesso a causa dello streaming, e da una produzione tecnicamente ineccepibile, con suoni che è davvero un piacere sentir uscire dalle proprie casse (ovviamente se sono quelle di uno stereo vero e non del vostro smartphone). Ma il menu purtroppo conferma che l'uomo è solo un capace e talentuoso intrattenitore a cui manca davvero sempre quel "quid" in più per esaltare. E certi numeri come "prendo un brano anni 80 e lo rifaccio come se fosse una triste ballata indie anni 2000" potevano forse essere dirompenti ai tempi della Let's Dance di Bowie rifatta da M Ward, curiosi quando Josè Gonzalez stravolse una hit della giovanissima Kyle Minogue (Hand On Your Heart), ma oggi appaiono più che mai come una operazione prevedibile, come dimostra una stanca Do You Really Want To Hurt Me dei Culture Club rigenerata per ukulele e fiati.

Per il resto il disco offre il solito mix di voglia di essere lo Scott Walker dei nostri anni, purtroppo senza però la classe di altri storici adepti al culto tipo Marc Almond. I brani in genere offrono testi ispirati e molto personali, ma è l'insieme che non convince. End Of Days apre il disco in tono leggero con un pop vagamente alla Bacharach, a cui fanno seguito la malinconica The Deserter, e veri e propri inni funebri dedicati al padre (Where I Come From) o allo zio (Cease and Desist), dove sono solo gli interventi della viola o della tromba che riescono a dare una profondità ad una interpretazione altrimenti un po' piatta. Happy End resta soffusa e sussurrata, mentre The Wish risulta troppo autoindulgente con le proprie possibilità espressive, un momento davvero poco ispirato che fortunatamente viene compensato da una Not Just Another Year che finalmente trova un arrangiamento adatto ad esaltare la bella melodia.

Il momento migliore del disco è però l'altra cover, una Flame Trees pescata dal repertorio dei Cold Chisel di Jimmy Barnes, qui resa al piano in maniera tanto intensa da ricordare quasi il Nick Cave di Boatmans' Call. L'attenzione ai particolari e la passione che ci mette non consentono una totale bocciatura, ma "i dischi della maturità" sono ben altra cosa.

BILL RYDER-JONES

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