giovedì 25 febbraio 2021

LINEA

 


Linea - Fuori Mercato

Ammonia Records, 2020

 

Sarebbe difficile oggi definire quale possa essere una musica “Fuori Mercato”, in un’era in cui il mercato discografico è ovunque o da nessuna parte, con l’eccezione di quei pochi artisti che ancora sono spinti da logiche da major discografica. Ma i Linea possono forse ancora ben dirlo, perlomeno nell’occasione di un album che rilegge la propria più che trentennale carriera. Era il 1989 quando, nella periferia di una Milano ancora ubriaca dell’opulenza degli anni 80 (ma ormai già quasi del tutto bevuta), la band muoveva i primi passi, seguendo il verbo del punk alla Clash, e portando alta quella bandiera per tutti gli anni 90, passati tra concerti nei circuiti alternativi e cassette fatte girare tra i fans. La prima pubblicazione ufficiale infatti arriva solo nel 2000, proprio quando quel mercato che li lasciava ai margini cominciò ad andare in crisi. Fuori Mercato è un disco che capitalizza quindi tutta la produzione di questi anni, in cui il fondatore Gianmarco Pirro riunisce una nuova line-up (Federico Bratovich - Chitarra e voce, Max Longhi – Batteria, Silvio Calesini – Basso) per rileggere 13 brani del loro repertorio. Il perché di questa operazione è chiaro fin dalle prime note di Nuovo Rosso, primo brano scritto dalla band, che dall’arrangiamento new wave degli esordi si era trasformato in una ballad per archi e piano nel disco d’esordio del 2000, e che qui trova invece una vena quasi pop decisamente più moderna. Oltre ad una doverosa autocelebrazione, quindi c’è anche la volontà di aprire il proprio suono nuove influenze, che pescano sempre soprattutto nel mondo musicale del post-punk dei primi anni 80 ma non solo, con un taglio moderno utile a rilanciare il nome anche tra i giovani che di quel rock sono ancora assetati. Così brani come Terra Libera, Corto Maltese o Frontiera, dei piccoli classici per il loro seguito, assumono un taglio più maturo, frutto anche dell’esperienza del gruppo come backing-band del cantautore Filippo Andreani (con il quale hanno registrato due album). La conclusiva Rumore è l’unico vero inedito del disco, un brano che rende chiaro come le intenzioni del gruppo siano quelle di non mollare la battaglia a suon di rock (“viaggio ancora insieme a te“), perché anche una canzone come Campesinos, altro brano della loro prima ora dedicata ai contadini sudamericani, suona modernissimo sia nel testo che nella sua nuova veste che aggiorna il reggae che era ad un taglio dub. Non mancano brani anche più recenti come L’ultimo Re (dedicata al giudice Falcone) o il nuovo tocco morriconiano dato a The Correct Use of Religion, brano del 2008. Se dovessimo fare l’elenco degli stili e delle influenze presenti in queste riletture dovremmo fare un lungo elenco, ma nella title-track loro stessi ci ammoniscono contro “questo etichettare, poi catalogare, e discriminare per buttarti fuori”, per cui prendete i Linea come una vera rock-band a tutto tondo, dove troverete la storia di Milano, dell’Italia, e del mondo, vista con gli occhi da chi fuori ci è rimasto per scelta, per necessità e, purtroppo, anche per costrizione.

 

Voto: 7,5

lunedì 8 febbraio 2021

TIM BURGESS

 

Madchester è lontana, ma ritroviamo in grande forma uno dei protagonisti: Tim Burgess – I Love the New Sky.

A vederlo sulla copertina di questo I Love the New SkyTim Burgess ha tutto fuorché la faccia di un cinquantatreenne con ormai una lunga carriera alle spalle, ma ha più lo sguardo sicuro e strafottente del ragazzino al disco di esordio.

Tim Burgess - I Love the New Sky

Invece lui è ormai un veterano della musica britannica, protagonista con i suoi Charlatans di quella stagione di grande fermento musicale che ruotò intorno alla scena di Manchester nei primi anni 90 (o, come si diceva ai tempi, “Madchester”), un’epoca dove non era affatto un sacrilegio unire la lezione strambo-folk di Syd Barrett con i ritmi della House che impazzavano nei club del Regno Unito. Nei 2000 ha affiancato alla mai interrotta storia della band (il loro tredicesimo album, Different Days, è datato 2017) una pigra e timida carriera solista, perlopiù improntata a provare generi e soluzioni diverse da quelle rese possibili dal processo creativo dei Charlatans.

Disco solista perfezionato durante il lockdown

I Love the New Sky è il quinto album a suo nome, ed esce dopo un periodo di quarantena che lo ha visto protagonista su Twitter come animatore di “Listening Party” che hanno coinvolto colleghi e pubblico in attesa della fine del lockdown. Un periodo in cui Burgess ha anche affinato la produzione per nulla banale di questi brani, nati su una chitarra acustica con l’intento di un disco da songwriter classico, ma poi finiti per diventare una variopinta e quasi sovraprodotta (senza dare un senso spregiativo al termine) esplosione di colori pop.

Alla fine ha vinto il suo background fatto del Paul McCartney meno prevedibile e delle sperimentazioni da studio di Brian Eno, come affiora nella costruzione non certo canonica di brani come The Mall, che tra soluzioni Prog e cori alla Beach Boys piacerebbe persino a uno come Steven Wilson, o la barocca Comme D’Habitude. Persino il pop alla Cure dell’iniziale Empathy ricorda con prepotenza la sua appartenenza musicale, così come l’indie-pop alla Blur di Sweetheart Mercury.

Tim Burgess eccelle in I Love the New Sky

Il disco è stato co-prodotto da Daniel O’Sullivan dei Grumbling Fur, che si sobbarca anche le parti di batteria e di pianoforte (alla chitarra invece resta il fido Mark Collins dei Charlatans), dimostrandosi fine e mai scontato cesellatore di soluzioni sicuramente retrò e citazioniste, ma che chissà come mai suonano davvero fresche anche in questo 2020.

Il disco prosegue con la più casalinga e volutamente sgangherata Sweet Old Sorry Me, brano che introduce alle distorsioni di Warhol Me, sorta di omaggio in salsa british ai Velvet Underground. La passione per il muro di suoni orchestrali ritorna in Lucky Creatures, bella pop-song in zona Verve, mentre l’intima Timothy e la leggera Only Took A Year portano a quel piccolo gioiello di arte dell’arrangiamento che è I Got This, che poteva anche chiudere l’album. La durata invece raggiunge i 53 minuti grazie ad una Undertow immersa negli archi e al dolciastro finale di Laurie. Piacevole sorpresa questo album, ottimamente suonato e prodotto, a dimostrazione che ancora esiste qualcuno che considera l’album in studio come punto di arrivo della vita d’artista, e non come scusa per un tour.

domenica 7 febbraio 2021

AC/DC

 

AC/DC – Power Up


Sony/Columbia- 2020

Tetragoni nel loro caso è un eufemismo: AC/DC – Power Up.

Non sarò certo il primo a dire quello che andrò dicendo, e soprattutto credo che Angus Young non legga una recensione di un disco degli AC/DC dai tempi di Black in Black perlomeno, e con lui i suoi più accesi fan, per cui l’inutilità di scriverla è sottointesa.

Ma siccome ormai l’ho iniziata, la finisco. Gli AC/DC sono un caso unico nella storia del rock, perché ripetersi nel corso di una carriera è inevitabile, e anche i più poliedrici geni lo hanno fatto prima o poi (da David Bowie a chi volete voi), ma loro vanno oltre il mantenere immutata una formula vincente, loro proprio fanno fondamentalmente lo stesso disco dagli esordi. Anzi, almeno una volta nelle variazioni sul tema c’era il pezzo lento alla Ride On (sparito dal menu con l’avvento di Brian Johnson, il che è strano perché nei suoi anni giovanili con i Geordie ne ha fatti, e di validi), così come il pezzo puramente blues alla The Jack (pure questo comincia a latitare ormai).

Cambia il produttore, ma non il suono

Ora rimane solo quindi la loro classica hard-riff-song in 4/4, con lo stesso suono che non cambia troppo anche se cambia il produttore, per cui sono anche gli unici che hanno fatto sembrare simili dischi firmati dal qui presente Brendan O’Brien, Rick Rubin o il re dell’FM-Metal Bruce Fairbairn, tre produttori davvero diversi tra loro. E, soprattutto, ancora una volta in studio non c’è traccia di un session-man aggiunto (un piano dico, un paio di fiati, un’armonica, così, tanto per vedere l’effetto che fa, no eh?). A mia memoria, l’assolo di cornamusa di Bon Scott in It’s a Long Way To The Top (che era il primo brano del primo disco, ironicamente) resta l’unico strumento che non siano le due chitarre e sezione ritmica della formazione base esistente in un loro disco.

E continua anche lo stesso gioco di riff, nonostante sia venuto a mancare Malcom Young, ma la differenza nel lavoro del nipotino Stevie è veramente difficile da notare (ma scommetto che salterà fuori il grande appassionato che la saprà notare). E poi quell’essere ormai un carrozzone da circo, che offre gli stessi testi da machismo rock d’altri tempi, gli stessi abiti da scolaretto (ma farà la didattica a distanza anche lui?) e da Andy Capp, anche se hanno età da pensione persino per il governo italiano ora, nonché le stesse movenze rubate a Chuck Berry di Angus.

E allora, questo AC/DC – Power Up…

Fare un’analisi song-by-song di questo AC/DC – Power Up sarebbe impresa ardua, potrei dirvi a quale altra loro canzone assomiglia ogni singolo brano, e forse solo Through the Mists of Time e Systems Down azzardano una impercettibile idea di qualcosa che ancora non gli era venuto in mente prima.

Al massimo posso dividervi i brani tra quelli che hanno “Un Gran Tiro” (il singolo Shot In The Dark), “Un Buon Tiro” (Realize) o quelli che “no, questo è pure un po’ loffio” (Witch’s Spell). Per cui arriviamo alla domanda: a parte fare felice il loro private-banker, ha ancora senso tutto ciò? Rispondo: certo che ha senso, perché gli AC/DC rappresentano l’essenza, anzi, ancora più l’ossatura di tutto ciò che ascoltiamo, il big bang, il seme primordiale, i trilobiti della musica rock. E sono rimasti gli unici ad esserlo al 100%. E se nessuna di queste canzoni vi fa perlomeno muovere un piedino o vibrare un lobo delle orecchie, allora forse qualcosa si è rotto nel filo conduttore che vi lega al vero senso primario e originario di tutto quello che ogni giorno facciamo passare nelle nostre cuffie: muovere il culo.

mercoledì 3 febbraio 2021

LAURA VEIRS

 

La strana storia di Laura Veirs che approda alla sua opera migliore: My Echo.

La storia di Laura Veirs è curiosa. Laureatasi a 24 anni senza aver mai minimamente pensato di poter dedicarsi alla musica, se non per la partecipazione a qualche punk-band femminile “L7-like” del college, per 3 anni ha vissuto poi in Cina come traduttrice al seguito di una spedizione geologica. Ed è proprio nella solitudine di quell’esperienza che si è avvicinata al folk e ha cominciato a comporre. Di fatto se si esclude un disco acustico autoprodotto con il frutto di quei primi approcci, pubblicato poi al ritorno nel 1999, è solo nel 2003, a 30 anni suonati, che la Veirs ha cominciato a fare le cose sul serio.

Recensione Laura Veirs – My Echo

Bella Union – 2020

Oggi posta foto con i cuscini con i gattini su instagram, dove sciorina consigli sull’essere madri divorziate e conciliare l’attenzione ai figli con la voglia di proseguire la propria carriera musicale, e si paga le spese organizzando workshops di scrittura online. Una “normalità” a cui siamo ormai abituati in tempi di social, e l’idea che gli artisti (credo che il termine rockstar possiamo ormai pensionarlo) siano viziati e privilegiati perdigiorno fuori dal mondo dei “normali” sia ormai storia passata.

Un folk-pop d’autrice

E ora la nostra se ne esce con un disco come My Echo, probabilmente la prova più matura della sua vita artistica. In queste canzoni, infatti, Laura ha gettato tutte le crepe, le incrinature, le insicurezze di una persona di 47 anni che affronta la vita con la solo apparente sicurezza di chi deve di solito nascondere sotto il tappeto gli affanni per non crollare. E meno male che per lei esiste la musica, che ha ormai perso quasi completamente la matrice folk degli esordi, e si muove con più convinzione verso quella forma di sofisticato folk-pop al femminile moderno, di cui è ormai paladina insieme a Laura Marling o Angel Olsen.

Le collaborazioni e le canzoni di Laura Veirs in My Echo

Dunque gli arrangiamenti sono spesso pieni, con elettronica e suoni acustici che si rincorrono in un sodalizio direi più che riuscito, anche grazie all’aiuto di vecchi amici come Bill Frisell. E proprio nella produzione sta anche la chiave emotiva del disco: l’ormai ex marito è infatti Tucker Martine, suo storico produttore, che aveva cominciato a lavorare anche su questo disco prima di abbandonare, appunto, per questioni sentimentali e non professionali. Per questo brani come il piano-voce di End Times rivelano la loro natura di canzoni nate da un dolore vissuto in diretta, quasi che il divorzio sia stato colorato con una colonna sonora nata seduta stante. E basta anche sentire lo spirito diverso che aleggia nei quattro brani che Martine aveva fatto in tempo a produrre, Freedom Feeling, Another Space and Time, Turquoise Walls e Memaloose Island, non a caso forse messi di fila all’inizio del disco quasi a creare una sezione a parte, rispetto al resto dell’album, prodotto dalla stessa Veirs con l’aiuto tecnico di Adrian Olsen. Per questo My Echo è una fotografia fedele di un momento di vita ormai molto comune e in cui è facile ritrovarsi, quello di un doloroso divorzio.  I Sing to the Tall Man, la cavalcata pop di Burn Too Bright o Brick Layer lo raccontano con una lucidità e un ottimismo di fondo anche invidiabile, vista la situazione in cui sono nate.

BILL RYDER-JONES

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