lunedì 25 novembre 2019

DANIELE FARAOTTI

Daniele Faraotti
English Aphasia

[Creamcheese Records 2019]

 
File Under: Post-tutto


danielefaraotti.com

di Nicola Gervasini

Le nostre pagine non trattano di musica elettronica, eppure ci capita spesso di averci a che fare, perché gli anni 2000 hanno visto spesso matrimoni (a volte anche ben riusciti) tra “macchine” e “tradizione”. Per questo non abbiamo problemi a presentarvi questo English Aphasia del bolognese Daniele Faraotti, non un esordiente, visto che ha alle spalle già due album e due LP, ma che qui si spinge in una sperimentazione di suoni decisamente originale. Potremmo definirlo un post-rock che unisce elementi di ogni tipo, anche tradizionali e persino soul. La lunga title-track iniziale ad esempio è un tripudio di campionamenti e suoni elettronici con una parte cantata che potrebbe anche appartenere ai Wilco, che apre però la strada al coraggioso singolo I Got The Blues, che non è il pezzo dei Rolling Stones, ma è comunque una similare ballata soul con tanto di fiati e assolo di chitarra da acid-pop anni 60, resa però in maniera del tutto personale e distorta da un Faraotti sempre più sulle tracce di Beck e delle sue trovate in bilico tra i generi. E si prosegue con un tira e molla tra momenti elettronici come Connection, che quasi ricorda certi momenti pop di Steven Wilson, o brit-pop chitarristici come Between For A Day Trust (con un uso della voce quasi alla Bon Iver). E addirittura la parte centrale (Zawie III e Leonore Sprache) entra in una serie di rimandi al kraut-rock e al Bowie berlinese, prima di avere una Sea Elephant che capovolge di nuovo tutto entrando nel campo della indie italiana (è l’unico brano nella nostra lingua presente nel disco), prima di chiudere di nuovo più classicamente con una percussiva Telephone Line, e una Joni George Igor and Me che cerca invece influenze di musica orientale e sonorità vintage quasi alla Roy Harper. Tante strade, ma un risultato molto personale e da sviscerare con calma, per capire quanto ormai gli steccati tra generi non esistano quasi più.

lunedì 18 novembre 2019

MR WOB & THE CANES

Mr. Wob And The Canes
Not Your Negro


[Voodoo Roots Stew 2019]
 
File Under: Voodoo Roots Stew


facebook.com/thewobpage

di Nicola Gervasini

Oggi se scrivete la parola “negro” in un social siete a rischio di censura, se non proprio di blocco, e l’algoritmo spesso non bada al senso della frase ma al semplice uso di un termine considerato (giustamente) non politically correct. Ma in musica “fare musica da negri” si sa da sempre che è un complimento, dato da ragioni storiche che fanno della black-music una delle componenti fondamentali dell’arte del mondo occidentale. Lo sanno bene i veneziani Mr. Wob And The Canes che con puro spirito antirazzista intitolano Not Your Negro (si veda l'omonimo documentario su James Baldwin, ndr) il loro terzo album, vero melting-pot di influenze che chiamano “Voodoo Roots Stew” (spezzatino di radici Voodoo), che vanno dal blues classico con il quale hanno esordito nel 2014 grazie all’album Invitation To The Gathering, fino a elementi latinoamericani o afro, come dimostrano negli omaggi al Voodoo Papa Legba (Elegba Too) o addirittura ad uno dei personaggi di Mai Dire Goal di Fabio De Luigi (Baraldi’s Blues). La title-track è un esempio lampante: un arpeggio psichedelico che ricorda quasi The End dei Doors della chitarra di Alessandro “Kowalski” Di Vacri, una base di percussioni ipnotica offerta da Alejandro Garcìa Hernandez che gioca con la batteria di Giovanni “Sugo” Natoli, e la voce decisamente profonda e bluesy di Andrea “Wob” Facchin a commentare il tutto. Non c’è un bassista, il che aumenta il tono sperimentale del disco, evidente anche negli altri brani, spesso molto lunghi (si arriva agli undici e minuti e passa di Down In This Hole), dove il blues, anche quando è di struttura classica (Blues #1Old Ford Car Blues, la cover di Big Road Blues di Tommy Johnson), trova comunque uno sviluppo strumentale molto variopinto e originale, con intermezzi di brani più lenti (Canadian Girl, No Man’s Land) o indiavolate danze di percussioni e acustiche (Dance of the Happy Liar Skull). Un disco che sorprende per maturità e originalità, e che serve a contraddire chi considera l’italian-blues un sottogenere di semplici seguaci, se non proprio meri fans, e non di artisti pensanti.

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...