mercoledì 25 maggio 2022

ELVIS COSTELLO

 


Elvis Costello & The Imposters

The Boy Named If

(Capitol/EMI)

File Under: Pump it Up Again

Anno 1978, Elvis Costello realizza This Years Model, forse il massimo punto di arrivo di tutto il pub-rock inglese dell’epoca, con quel suo mix di rock americano, ritmi tarantolati della nuova new wave, e pop inglese, che ha reso unico il suo stile. A suonare con lui c’erano Stevie Nieve al piano, e Pete Thomas alla batteria, cioè il 66% degli Attractions.

Anno 2022, Elvis Costello realizza The Boy Named If, un deciso ritorno, 44 anni dopo, al pub-rock, con quel suo classico mix di rock americano, ritmi tarantolati della new wave che fu, e pop inglese, che conferma come unico il suo stile. A suonare con lui ci sono ancora Stevie Nieve al piano e Pete Thomas alla batteria, cioè il 66% degli Imposters (al basso oggi c’è Davey Faragher).

Dove sta la differenza quindi? Non è tanto sul fatto che forse questo disco chiude definitivamente il cerchio di una ricerca musicale che è arrivata a toccare anche jazz e classica prima di tornare alla base dei suoi esordi, quanto che comunque i frutti di questo percorso di 45 anni di carriera si sentono eccome, anche se lo spirito di queste canzoni e i musicisti sono praticamente gli stessi. Costello scherza sul fatto, ribadendo che in fondo una buona idea del 1978, resta tale anche nel 2022 se lo è veramente, ma è ovvio che qui dentro non possiamo più trovare l’urgenza giovanile di brani come Pump it Up o No Action, ma la ragionata esperienza di un uomo che continua a usare l’ironia come lente d’ingrandimento per descrivere la realtà che lo circonda, confermandosi, se mai ce n’era bisogno, come uno dei più intelligenti autori di testi della vecchia guardia.

Per cui se il tono inevitabilmente nostalgico e passatista del disco resta il più evidente Tallone d’Achille, che magari farà storcere il naso a chi aveva apprezzato l’ecletticità e apertura a nuovi mondi dei suoi ultimi due dischi (Look Now e Hey Clockface, ma aggiungerei anche l’esperienza con i Roots), dall’altro il Costello di The Boy Named If dimostra di essere artista tutt’altro pronto al pensionamento da routine, perché non è certo possibile raccontare le storie (camuffate da fiabe per bambini in questo caso) in bilico tra cronaca e letteratura di Paint the Red Rose Blue, The Difference, What If I Can’t Give You Anything But Love?, The Man You Love to Hate vivendo in un ritiro dorato. Costello invece continua a vivere tra dischi e concerti come se stesse ancora ricercando il suo punto di arrivo, e questi risciacqui del suo songwriting nel suo rock originario non sono certo nuovi (in fondo Brutal Youth o Momofuku erano operazioni simili), ma ogni volta ci si trova nuovi elementi nati dalle sue tante ispirazioni, e qui ad esempio non sfuggono le tracce rimaste dalle sue frequentazioni in ambito Roots/Americana del periodo di National Ransom.

Difficile dire quanto possa poi essere un disco importante nell’ambito della sua ormai cospicua discografia (arriva forse troppo tardi per esserlo veramente), ma è certo che The Boy Named If vince la grande sfida di non far sembrare vecchia e polverosa la sua “solita solfa”, e per uno che produce dischi da 45 anni, praticamente senza pause, davvero è un traguardo più che raro.

 

Nicola Gervasini

venerdì 20 maggio 2022

CAT POWER

 


Cat Power – Covers

Domino, 2022

Diciamoci la verità, sette album in 22 anni, dei quali ben tre sono di cover, non danno una immagine di grande produttuivtà creativa, ma fin dal The Covers Record del 2000, Cat Power non ha mia nascosto di considerarsi anche e forse soprattutto una interprete. E così dopo che Wanderer nel 2018 aveva un po’ riconciliato Chan Marshall con il suo pubblico, soprattutto quello della prima ora, rimasto deluso dalle non proprio riuscitissime divagazioni di Sun del 2012, la Power torna a rileggere songbooks altrui, chiudendo così una triade che aveva in Jukebox del 2008 il punto centrale. Se Jukebox era dal punto di vista produttivo una sorta di ottimo compendio al “soul-folk” di The Greatest, questo Covers (forse magari un titolo più originale lo meritava però…) si distacca dai suoi predcessori cercando di amalgamare classici vecchi e nuovi in uno stile che unisce la vena indie-folk della prima ora, con le sperimentazioni più recenti. Al di là di quello che poi uno può trovare nella singola interpetazione di brani magari già più che amati (ad esempio personalmente trovo azzeccata la These Days di Jackson Browne perché guarda con rispetto alla primissima versione di Nico, mentre invece l’epica Against The Wind di Bob Seger ne esce un po’ distrutta nello spirito), quello che un po’ infastidisce stavolta è che più che di un omaggio complessivo, si tratta di un gioco, se non quasi una sfida, a rendere propri e uniformi materiali apparentemente inconciliabili come brani di Frank Ocean o dell’amica Lana Del Rey (la sua White Mustang resta una delle cose più riuscite), con classici dei bassifondi degli anni Ottanta come Here Comes a Regular dei Replacements o il classico dei Pogues, A Pair of Brown Eyes, per non parlare di standards come I’ll Be Seeing You di Billie Holiday o il suo consueto atto d’amore per la country music con It Wasn’t God Who Made Honky Tonk Angels di Kitty Wells. Paradossalmente le cose migliori arrivano laddove non ci si aspetta nulla, perché Pa Pa Power dei Dead Man’s Bones dell’attore Ryan Goslin non se la ricordava nessuno, e qui ne esce come uno dei pezzi più notevoli, oppure anche grandi nomi come Iggy Pop o Nick Cave vengono riletti in episodi poco celebrati come Endless Sea (era su New Values del 1979) o I Had a Dream Joe, brano la cui enfatica teatralità dell’originale ben si sposa con il suo modo di cantare. C’è tempo anche per l’auto-cover di Unhate, remake della Hate che era su The Greatest, piccolo tripudio di voci sovraregistrate che esalta il suo lato più coraggioso e musicalmente autarchico. Nel complesso però se The Covers Album pareva il giusto elenco di influenze che avevano animato i suoi primi quattro album (dove comunque non erano mancate altre cover), Jukebox la dichiarazione di raggiunta maturità e padronanza dei propri mezzi (tanto da uscirne vincente anche da una rilettura di New York, New York di Liza Minelli), Covers pare più un disco in cui Cat power ha voluto sviluppare nuove idee stilistiche, ma senza rischiare di sprecare brani propri in un prodotto che appare riuscito solo in parte, e forse inesorabilmente destinato ad apparire minore nell’ambito della sua discografia.

VOTO 6,5

Nicola Gervasini

venerdì 6 maggio 2022

BILL FAY

 


Bill Fay

Still Some Light - Part 1

(Dead Oceans, 2022)

File Under: Lost gems

Delle tante storie di recuperi di artisti perduti nelle severe logiche discografiche dei primi anni Settanta, quella di Bill Fay resta una delle più felici, sia perché la ristampa e ricoperta dei suoi unici due album dell’epoca (l’omonimo esordio del 1970 e Time of the Last Persecution del 1971), hanno ridato luce ad un autore davvero particolare, sia perché i tre dischi realizzati negli ultimi anni, con l’aiuto di qualche cultore della materia, sono andati ben oltre le aspettative in termini di qualità e soprattutto di intensità. E così pareva logico che qualcuno si mettesse anche a cercare tra glia archivi (fortunatamente ancora esistenti) della Deram Records per cercare registrazioni inedite. Ci avevano pensato subito a dire la verità quelli della piccola label Jnana Records nel 2010, dando a David Tibet il compito di compilare un doppio CD intitolato Still Some Light, con un primo CD di demo e inediti del 1970 e 1971, e un secondo con dei demo casalinghi del 2009, con brani che verranno in gran parte recuperati nei dischi degli anni Dieci. Il problema fu che l’antologia fu poco distribuita, e soprattutto uscì prima che nel 2012 Life is People lo facesse conoscere anche al pubblico dei nostri giorni come autore più che mai vivo e vegeto. Ci pensa così la sua etichetta, la Dead Oceans, a recuperare il progetto e a ristamparlo in due parti, mantenendo il titolo originale, ma stavolta realizzando una ben più appetibile versione in doppio vinile (nonostante la breve durata, con lati che durano poco più di una decina di minuti) che mancava nella precedente edizione. Ad accompagnare l’uscita anche il primo di una serie di 7 pollici per collezionisti che vede artisti giovani impegnati a interpretare i suoi brani. Il primo 45 giri è così accompagnato dalle interpretazioni di I Hear You Calling da parte di Kevin Morby e di Dust Filled Room di Steve Gunn, sicuramente due artisti che al mondo musicale di Fay devono molto. Per il resto la raccolta ricalca perfettamente quella già edita nel 2010, con una serie di versione alternative ai brani del primo album prive delle orchestrazioni che caratterizzarono le versioni finali, e già studi sui brani del secondo. Lo accompagnano la sua band dell’epoca, composta da Daryl Runswick al basso, Alan Rushton              alla batteria, il bravo Ray Russell alla chitarra (sarà poi produttore del secondo album), con Bill impegnato sia sulle tastiere che alla chitarra acustica. Registrazioni di varia e non sempre omogenea qualità, nonostante il gran lavoro fatto dall’espertissimo mago del mastering Frank Arkwright, il che rende il disco, comunque, un evidente prodotto per completisti e collezionisti del vinile, visto che al di là della qualità di interpretazioni, sicuramente meno impostate e rigide di quelle delle versioni finali, è comunque consigliabile prima procurarsi i due album ufficiali per poter godere appieno anche di questi demos. A breve dovrebbe uscire anche il secondo capitolo con le registrazioni più recenti, e se poi volete anche perfezionare il tutto con i vari 45 giri di cover a corredo (interessanti perché presentano la versione originale di Fay sul lato B), preparate il portafoglio, perché la spesa supererà abbondantemente il centinaio di euro.

Nicola Gervasini

domenica 1 maggio 2022

THE THE

 

The The

The Comeback Special: Live at the Royal Albert Hall.

(Cinéola, Ear Music, 2021)


File Under: Matt has left the building!

Non esistono tante avventure musicali così brevi ma così varie come quella di Matt Johnson, in arte The The, forse uno dei primi artisti ad aver usato uno pseudonimo lasciando sempre il dubbio se parlarne come di un singolo o di un gruppo (pratica divenuta di moda poi negli anni 2000). Nei suoi 7 album in studio pubblicati in trent’anni dal 1981 al 2000, Johnson è riuscito a creare avveniristiche opere di proto-elettronica (Burning Blue Soul), mischiarla con successo con suoni tradizionali in tempi non sospetti (Soul Mining), rileggerla in chiave pop-80 (Infected), o in chiave più “Smithsiana” imbarcando Johnny Marr in formazione (Mind Bomb), fino al botto di Dusk, che in qualche modo faceva un riassunto perfetto di tutto. Giusto il tempo di buttarsi anche nel mondo del country rivisto a suo modo (Hanky Panky, splendido tributo ad Hank Williams) e chiudere il tutto con un album irrisolto, per quanto forse sottovalutato, come Nakedself, che aveva il grosso difetto di non avere la stessa direzione precisa dei suoi predecessori. Da allora Johnson si è chiuso in un isolamento che solo qualche colonna sonora per b-movies di amici hanno interrotto, e per ora ancora non sembra che la delusione per il flop della sua ultima opera sia stata digerita del tutto. Poi nel 2018 la sorpresa di rivederlo dal vivo a risuonare i vecchi pezzi in alcune serate, con la migliore ora finalmente pubblicata in questo The Comeback Special: Live at the Royal Albert Hall. Intanto il titolo che richiama l’omonimo live-record del 1968 di Elvis Presley (che lo volle per sottolineare che l’era delle soundtracks era finita anche per lui) credo sia più che significativo, ma al di là delle egocentriche citazioni, l’operazione è davvero encomiabile per come non si respiri affatto aria di revival autocelebrativo, ma di vitalità artistica. Johnson ha voluto una band di stampo classico alle sue spalle, formata dal tastierista blues Dc Collard, il batterista jazz Earl Harvin (già visto in session anche per Joe Henry e Richard Thompson tra i tanti), il bassista James Eller (già con lui negli anni d’oro), e il sorprendente chitarrista Barrie Cadogan, leader dei Little Barrie, e consigliatogli dallo stesso Johnny Marr, che purtroppo non poté partecipare per altri impegni. L’imperativo fornito ai musicisti è stato quello di evitare campionamenti e aggiunte elettroniche che non siano men che realmente suonate, e quello ancor più coraggioso di riarrangiare tutti i pezzi dandogli nuova linfa vitale. Gioco che in gran parte riesce, sia perché, sebbene non vastissimo, il suo resta un songbook invidiabile, sia perché l’album finisce quasi per suonare come un nuovo progetto da affiancare a quelli vecchi. Magra consolazione forse, visto che nonostante questa resurrezione, ancora non si vede del nuovo materiale all’orizzonte, ma accontentiamoci e cogliamo l’occasione per rientrare nei meandri lirici di pezzi straordinari come The Beat(en) Generation, Love Is Stronger Than Death, This Is The Day o nuove azzeccate riletture come Armageddon Dayd Are Here (again) o Dogs Of Lust. La band lo segue impeccabilmente e l’atmosfera non perde mai d’intensità, come si può anche ben vedere nel video del concerto (l’albume esce anche in DVD nelle varie edizioni previste, tra cui anche una Deluxe con tre cd di suoi interventi radiofonici per veri feticisti dell’inedito). Il repertorio spazia in tutta la sua produzione, compreso il primo album pubblicato a suo nome (da cui riprende una rigenerata Like A Sun Rising Thru My Garden e Bugle Boy) e qualche chicca pubblicata in progetti autoprodotti (A Long Hard Lazy Apprenticeship). Insomma, quasi un “The Best Of” in diretta che speriamo sia davvero un ritorno e non una chiusura.

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

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