lunedì 25 aprile 2022

BILLY BRAGG

 

Billy Bragg

The Million Things That Never Happened

(Cooking Vinyl, 2021)

File Under: Once Were Warriors


Capita a volte di sentire dei dischi formalmente ineccepibili, ma di cogliere un qualcosa, spesso non subito definibile, che disturba o stona. Mi è capitato ad esempio con il nuovo album di Billy Bragg, The Million Things That Never Happened. Il grande combattente folk inglese è ormai da qualche tempo un artista di american-music a tempo pieno, diciamo da dopo l’incontro fondamentale con i Wilco via Woody Guthrie. E così le sue produzioni degli anni 2000 hanno seguito la linea di una elegante e sempre più raffinata roots-music americana che ha prodotto titoli belli come Tooth & Nail (2013) e Bridges Not Walls (2017) e la collaborazione di puro interesse storico nella tradizione statunitense con Joe Henry (Shine a Light: Field Recordings from the Great American Railroad). Insomma, che non possa essere più il Bragg barricadiero degli anni Ottanta lo sapevamo già, e probabilmente quell’artista è andato in pensione insieme al suo bersaglio preferito, Margareth Thatcher. Ma il Bragg che sentiamo in queste canzoni appare subito diverso anche da quello più recente proprio nel tono della voce, che è invecchiata, scesa di tono, e ha forse volutamente perso quel tocco british “alla Morrissey” che caratterizzava il suo canto nei giorni gloriosi. Ma, soprattutto, quello che un po’ si fa fatica a digerire subito da fans di vecchia data, è che manca in quella voce l’urgenza di dire qualcosa di importante, quando ora ci si sente invece la richiesta di pazienza nell’ascoltare storie che non sono più solo di rabbia per quello che succede nel mondo, ma vicende personali. “Ma ora parliamo un po’ di me, per cui sedetevi tranquilli e ascoltate” sembra dire questo Bragg, calmo e intimista anche nei suoni e in una produzione molto levigata, con addirittura qualche leziosità radio-friendly come Pass It On. Significativo, ad esempio, che nella scrittura di uno dei brani più convincenti del disco (Mysterious Photos That Can’t Be Explained), ci sia coinvolto addirittura il figlio, quasi a declamare la voglia di una dimensione più intima e famigliare per la sua vecchiaia. Il che non vuol dire assolutamente che si stia ritraendo dal suo ruolo di guida di pensiero comune (“Sono abituato alle persone che ascoltano quello che ho da dire / E trovo difficile pensare che potrebbe essere d'aiuto se mi allontanassi” canta in Mid-Century Modern), ma semplicemente non è più tempo che sia lui, a 63 anni, a giudicare i tempi e dettare i modi per viverli (“I ragazzi che tirano giù le statue, mi sfidano a vedere il divario tra l'uomo che sono e l'uomo che voglio essere” canta). Lui stesso, presentando il disco, ha scherzato sul fatto che non può essere un neo-nonno che deve mettersi gli occhiali per leggere la setlist da suonare nei concerti, il leader di una protesta, eppure anche in queste canzoni serpeggia sempre qua e là qualche indicazione sulla via da seguire, e qualche frecciata più o meno evidente al nuovo avversario di casa Boris Johnson. Per il resto si parla di amore per una moglie che si è ammalata proprio durante il lockdown e di un senso di solitudine generale che pare non più solo politico, ma personale. Un disco importante per lui, ma che forse finisce a renderlo meno unico e inimitabile e più simile a tanti altri bravi cantautori di genere. O forse è solo un disco che necessita tempo per diventare importante anche per noi, e ovviamente siamo sempre disposti a concederglielo.

 

Nicola Gervasini

lunedì 18 aprile 2022

BOB DYLAN

 

Bob Dylan

Springtime in New York: The Bootleg Series Vol- 16

(Columbia, 2021)

File Under: You play the guitar on the MTV

 

È singolare che tra i meme/gif più utilizzati oggi dagli utenti dei social per commentare un eventuale stato di totale disagio, ci sia l’immagine di Bob Dylan perso dentro il coro della canzone benefit We Are The World del 1985, eppure proprio quel Dylan, spaesato e desideroso di essere in qualunque posto che non fosse un video di MTV, è quello che più abbiamo in testa quando pensiamo ai suoi anni 80. Un uomo fuori dal tempo, incapace di vestire i panni di un decennio che pareva così lontano da lui. Eppure, lui ci aveva provato, magari con l’improbabile giacca che il regista Paul Schrader gli fece vestire nel video di Tight Connection to My Heart (e che ritroviamo simile anche nella copertina di Empire Burlesque), o l’improbabile mise da hard-rocker con giacca in pelle e orecchino pendulo mostrato nell’infelice film Hearts Of Fire del 1988. I suoi anni 80 erano però nati in altro modo, cogliendolo in pieno fervore artistico/spirituale con album come Saved e Shot Of Love, che ai tempi furono anche selvaggiamente massacrati dalla critica, e si chiuderanno poi con la storia completamente differente di Oh Mercy, disco che però già lo proiettava nei 90. In mezzo ci fu un periodo di blocco creativo che lo stesso Dylan ha descritto nel libro Chronicles Vol 1, quando pare non abbia più composto quasi nulla almeno tra il 1984 e il 1988. Ma a salvare il tutto ci fu un momento davvero creativamente felice che portò all’album Infidels del 1983, ma, di fatto, diede materiale e spunti sufficienti a confezionare anche il grosso dei tre capitoli successivi (Empire Burlesque, Knocked Out Loaded e Down in The Groove). E già il terzo volume delle Bootleg Series del 1990 aveva evidenziato come anche l’opera di recupero di inediti e scarti successiva avesse lasciato nel cassetto veri e propri capolavori, Blind Willie McTell su tutte, probabilmente ritenuta troppo lontana dalla filosofia degli anni 80 per essere pubblicata, o perlomeno recuperata su dischi poveri di contenuti che sicuramente ne avrebbero giovato. Per questo Springtime in New York era uno dei volumi più attesi di questo lungo riordino dei suoi archivi, e che sia stato anche lasciato in coda è significativo anche del poco amore che Dylan ha comunque conservato per il periodo. In ogni caso se poi il meglio era già stato pubblicato nel 1990 (ad esempio brani importanti come Foot Of Pride, Need A Woman o Angelina vengono qui riproposti in altra versione), questa volta non c’è da rimanere delusi, sia che decidiate di prendere l’essenziale da due CD o l’edizione da 5. Certo, non a tutti interessa risentire Infidels quasi al completo in versione pressoché simile (Man Of Peace è l’unico brano ignorato anche a questo giro), ma ad esempio le registrazioni alternative dei brani di Empire Burlesque sono spesso spogliate dai pesanti interventi in sede di post-produzione di Arthur Baker, conosciuto per il lavoro coi New Order e Afrika Bambaataa, che anni dopo dichiarerà il proprio pentimento per un trattamento che lui stesso giudicò peggiorativo (ma in linea con gli ordini impartitogli dalla Columbia). E poi c’è sempre da “maledire” Dylan per alcune scelte, come quella di tagliare Death Is Not The End nella versione pubblicata tardivamente su Down In The Groove (perché poi non si sa, visto che il disco durava pochissimo e spazio ce n’era in abbondanza), quando qui scopriamo che il brano aveva una coda gospel che lo valorizzava parecchio. Oppure perché non dare un senso ad un live-record poco utile come Real Live del 1984 con un inedito come Enough is Enough che viene da quel tour, oppure perché lasciare nel cassetto brani che meritavano miglior luce come Too late, Let’s Keep It Between Us (questa la pubblicò Bonnie Raitt) o Don't Ever Take Yourself Away. Per il resto, stringi stringi, il materiale veramente nuovo non è tantissimo se non si contano anche le tante cover mai pubblicate come Straight A's in Love di Johnny Cash, Angel Flying Too Close to the Ground di Willie Nelson o Baby What You Want Me to Do di Jimmy Reed registrata per Empire Burlesque, e le ottime cover contenute nelle prove per il tour di Shot Of Love (e qui di chicche ce ne sono parecchie) o classici come Green, Green Grass of Home, Let It Be Me, e molte altre. La confezione e la scelta dei pezzi sono come al solito curati molto bene, e probabilmente questo sedicesimo capitolo completa il lavoro di recupero dei suoi anni più storici, perlomeno per quello che si sa delle sue session perdute prima degli anni 2000, lasciando aperta la porta a eventuali produzioni più recenti non date in pasto alle stampe, o al tantissimo materiale live che immaginiamo sia stipato negli archivi della Columbia. Ma con Bob Dylan, si sa, non si può mai dire con certezza cosa succederà. A lui piacciono le sorprese.

 

Nicola Gervasini

JACKSON BROWNE

 

Jackson Browne

Downhill from Everywhere

(Inside Rec, 2021)

File Under: He’s Alive

Dopo quasi 55 anni di carriera (These Days la scrisse che era ancora più che minorenne), e giunto al quindicesimo album di inediti con questo nuovissimo Downhill from Everywhere, Jackson Browne credo non debba più dimostrare più niente a nessuno. C’è da chiedersi magari perché noi che lo seguiamo da sempre, sentiamo ancora il bisogno di ritrovarlo di tanto in tanto a riproporci sempre lo stesso disco immutato ad anni, sempre a base di quelle ballate lente e sognanti, cantate con la sua bellissima voce indolente e monotonale. Eppure, quello è il suo marchio di fabbrica, e su questa formula ha costruito veri capolavori (direi tranquillamente tutti i suoi album degli anni Settanta), e tante buone canzoni ancora sparse nei suoi dischi successivi. Sempre con sole due eccezioni alla regola, quel paio di brani un po’ più in up-tempo che si concedeva in ogni disco, e la saltuaria svisata nel mondo del tex-mex (Linda Paloma forse il brano più celebre della serie). Ma, di fatto, anche nel periodo degli anni Ottanta, in cui i suoni della sua band cercavano di aggiornarsi al tran-tran “tastieroso” del periodo, la ricetta non è mai troppo mutata. Anzi, il suo album peggiore resta forse World In Motion del 1989, e guarda caso è il più stilisticamente vario. Questo per dire che c’è poco da discutere su un nuovo album di Jackson Browne, che, come al solito, presenta le tre modalità sopradescritte senza alcuna sorpresa, e in cui persino lo scafato chitarrista Greg Leisz cerca di suonare come l’assente David Lindley in ogni brano, e la validissima band assemblata per l’occasione riesce a sembrare la versione colta degli Eagles in maniera più che credibile. La sorpresa semmai è arrivata dal video di My Cleveland Heart, racconto della sua malattia in tempi di Covid (per la quale quasi ci stava lasciando le penne), trattata con ironia in un video con scene splatter da Grand Guignol che sicuramente ha fatto la sua giusta impressione. Ma le canzoni poi restano quelle sue di sempre, con focus su testi che continuano a raccontarci le sue visioni personali o politico-sociali con la lucidità di un uomo di altri tempi (The Dreamer è una sorta di testamento in tal senso), cosciente poi di rivolgersi ormai a quei fans storici che ancora preferiscono ascoltare la sua voce, piuttosto che cedere a nuovi linguaggi musicali. Nulla di male, Browne è una garanzia anche quando viaggia poco sopra la sufficienza come in questa occasione, e bene o male piazza sempre quel paio di colpi come la title-track o A Song For Barcelona che ti fanno dire “ok, i tempi d’oro sono lontani, ma lui ancora sa il fatto suo”. Felici dunque che Browne sia ancora qui a raccontarci al sua vita, non ci perderemmo mai una parola, ma che l’attesa di un disco importante anche per questi anni non possa passare dalle sue parti è un fatto che sapevamo ormai da tempo, perlomeno da quel I’m Alive del 1993 che è stato l’ultimo disco veramente necessario della sua carriera.

Nicola Gervasini

venerdì 1 aprile 2022

FELICE BROTHERS

 

Felice Brothers

From Dreams to Dust

(Yep Roc – 2021)


File Under: Dust to Dust

Davvero strana la storia dei Felice Brothers da un punto di vista del “successo” (per quanto quantificabile esso possa ancora essere). Osannati un po’ ovunque anche a dismisura ai tempi di Tonight at the Arizona e dell’omonimo del 2008, paradossalmente non giustamente riconosciuti per il loro disco più maturo (Yonder is the Clock), la band Ian e James Felice vive da qualche anno una sorta di oblio. Non nelle nostre pagine, dove non abbiamo mai smesso di notare che, dopo aver perso un po’ di credibilità sbagliando il disco all’insegna del “proviamo ad essere moderni anche noi” (Celebration, Florida del 2011), la loro produzione dell’ultimo decennio ha avuto una linea qualitativa tutt’altro che discendente. Anzi, From Dreams to Dust potrebbe addirittura rivelarsi il loro disco migliore, perché sarà la forza dell’esperienza, ma stavolta i quattro (ai fratelli si aggiungono oggi Will Lawrence e Jesske Hume) ce l’hanno davvero fatta a mettere la loro grande ispirazione da American-Band ben evidenziata da album già molto validi come Undress o Life in the Dark, con uno spirito più in linea con gli anni 2000. Che sia la volta buona che riusciamo a farli ascoltare anche a chi li riteneva “troppo country”? Non che ci siano grandi stravolgimenti, ma la straordinaria apertura di Jazz on the Autobahn, storia di una coppia in fuga da vari disastri, penso sia un brano che ha una carica emotiva che travalica i gusti di genere. Per il resto il disco vive sul contrato tra tempi più movimentati (To-do List) e ballate sofferte, con testi che riflettono sullo scorrere del tempo e la consapevolezza di stare invecchiando in un mondo che non si ha più la forza (e forse la voglia) di cambiare (l’evocativa Land Of Yesterdays). Basta comunque sentire il drumming ossessivo di Money Talks (altro episodio davvero notevole) per capire l’ottimo sforzo produttivo della band, che per il resto offre un repertorio comunque in linea con la propria filosofia, come le sognanti aperture melodiche dell’ipnotica Valium, le riflessioni sulla celebrità di Inferno (“Who's that singing in the land of the falling rain? I think it's Kurt Cobain”) e l’ottimo up-tempo di Celebrity X, e qualche country strascicato come Silverfish. Tra gli ospiti del disco troviamo i Bright Eyes Nathaniel Walcott alla tromba e Mike Mogis alla pedal steel, ma per il resto i quattro hanno fatto tutto da soli, dimostrandosi ormai gruppo su cui contare a colpo sicuro. Non perdendo tra l’altro mai quel pizzico di ironia che li ha sempre caratterizzati, quella che negli 8 minuti conclusivi di We Shall Live Again, bellissimo canto corale di riconciliazione con lo spirito, gli fa cantare Anche se le nostre religioni sono le stesse dei piccioni, da Francesco d'Assisi ai fan degli AC/DC, tutti vivremo di nuovo, non compromettendo la tensione emotiva di un disco davvero intenso.

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

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