lunedì 18 aprile 2022

JACKSON BROWNE

 

Jackson Browne

Downhill from Everywhere

(Inside Rec, 2021)

File Under: He’s Alive

Dopo quasi 55 anni di carriera (These Days la scrisse che era ancora più che minorenne), e giunto al quindicesimo album di inediti con questo nuovissimo Downhill from Everywhere, Jackson Browne credo non debba più dimostrare più niente a nessuno. C’è da chiedersi magari perché noi che lo seguiamo da sempre, sentiamo ancora il bisogno di ritrovarlo di tanto in tanto a riproporci sempre lo stesso disco immutato ad anni, sempre a base di quelle ballate lente e sognanti, cantate con la sua bellissima voce indolente e monotonale. Eppure, quello è il suo marchio di fabbrica, e su questa formula ha costruito veri capolavori (direi tranquillamente tutti i suoi album degli anni Settanta), e tante buone canzoni ancora sparse nei suoi dischi successivi. Sempre con sole due eccezioni alla regola, quel paio di brani un po’ più in up-tempo che si concedeva in ogni disco, e la saltuaria svisata nel mondo del tex-mex (Linda Paloma forse il brano più celebre della serie). Ma, di fatto, anche nel periodo degli anni Ottanta, in cui i suoni della sua band cercavano di aggiornarsi al tran-tran “tastieroso” del periodo, la ricetta non è mai troppo mutata. Anzi, il suo album peggiore resta forse World In Motion del 1989, e guarda caso è il più stilisticamente vario. Questo per dire che c’è poco da discutere su un nuovo album di Jackson Browne, che, come al solito, presenta le tre modalità sopradescritte senza alcuna sorpresa, e in cui persino lo scafato chitarrista Greg Leisz cerca di suonare come l’assente David Lindley in ogni brano, e la validissima band assemblata per l’occasione riesce a sembrare la versione colta degli Eagles in maniera più che credibile. La sorpresa semmai è arrivata dal video di My Cleveland Heart, racconto della sua malattia in tempi di Covid (per la quale quasi ci stava lasciando le penne), trattata con ironia in un video con scene splatter da Grand Guignol che sicuramente ha fatto la sua giusta impressione. Ma le canzoni poi restano quelle sue di sempre, con focus su testi che continuano a raccontarci le sue visioni personali o politico-sociali con la lucidità di un uomo di altri tempi (The Dreamer è una sorta di testamento in tal senso), cosciente poi di rivolgersi ormai a quei fans storici che ancora preferiscono ascoltare la sua voce, piuttosto che cedere a nuovi linguaggi musicali. Nulla di male, Browne è una garanzia anche quando viaggia poco sopra la sufficienza come in questa occasione, e bene o male piazza sempre quel paio di colpi come la title-track o A Song For Barcelona che ti fanno dire “ok, i tempi d’oro sono lontani, ma lui ancora sa il fatto suo”. Felici dunque che Browne sia ancora qui a raccontarci al sua vita, non ci perderemmo mai una parola, ma che l’attesa di un disco importante anche per questi anni non possa passare dalle sue parti è un fatto che sapevamo ormai da tempo, perlomeno da quel I’m Alive del 1993 che è stato l’ultimo disco veramente necessario della sua carriera.

Nicola Gervasini

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