lunedì 28 febbraio 2022

MARISSA NADLER

 

Marissa Nadler

The Path of the Cloud

(Bella Union, 2021)

File Under: Murder Ballads

In circa vent’anni di carriera Marissa Nadler è rimasta un personaggio sempre un po’ a metà del guado tra il rimanere un fenomeno sotterraneo, o un punto di riferimento per il cantautorato femminile di questi anni 2000. Sicuramente, dopo i primi tre album acclamati dalla critica, in questi anni Dieci Marissa si è un po’ chiusa in sé stessa con dischi sognanti, mai brutti, ma difficilmente ritrovabili in cima alle classifiche di fine anno delle riviste musicali. Colpa anche di una produzione ormai sterminata, tra dischi ufficiali pubblicati per la Bella Union, e i tanti home-made records (spesso collezioni di curiose cover), che un po’ hanno confuso il suo mercato. Musicalmente il suo dream-pop sempre più etereo stava anche diventando ripetitivo e poco eccitante, e così il lockdown le ha permesso di fermarsi a riflettere anche sulla sua strada musicale, con il risultato di un album come The Path of the Cloud, che sa di piccolo punto di svolta. La differenza lei l’attribuisce all’aver composto queste canzoni non più su chitarra, ma su pianoforte, coinvolgendo poi nelle session lo stesso musicista che le ha impartito lezioni durante il ritiro forzato, Jesse Chandler (sentito anche nei dischi di Midlake, Israel Nash e Mercury Rev), ma, aggiungerei, anche grazie all’essere, per la prima volta dai tempi delle collaborazioni con gli Espers (era il 2007 con l’album Songs III: Bird on the Water), un lavoro corale, frutto di reale collaborazione artistica. L’album è poi interessante anche dal punto di vista delle liriche, che prendono a pretesto le vere storie di crimini irrisolti di una trasmissione televisiva (i documentari Unsolved Mistery di Netflix) per creare una sorta di catalogo di murder ballads moderne. Il risultato è un leggero cambio di tono, che porta forse un taglio più autoriale, ma perde per strada una certa facilità melodica che la rendeva sempre e comunque immediata ai primi ascolti. L’aiuta nell’impresa soprattutto l’arpa di Mary Lattimore, strumento che più caratterizza il suono del disco, insieme agli interventi delle voci di Emma Ruth Rundle e di Amber Webber (Black Mountain), e, come al solito, del patron della Bella Union Simon Raymonde (era nei Cocteau Twins prima di darsi all’imprenditoria musicale). Bessie Did You Make It? brano di apertura che funge anche da singolo corredato da suggestivo video, non a caso ricorda un po’ la Where The Wild Roses Grow che fu di Nick Cave con Kyle Minogue, e fa riferimento alla vera storia di due sposini spariti nel fiume Colorado nel 1928 mentre risalivano il fiume in canoa, con l’intento di fare della moglie Bessie la prima donna a compire l’impresa, e ancora oggi nelle televisioni americane si discute se si sia trattato di tragico incidente ,o omicidio, o altro, visto che i corpi non furono mai ritrovati. Ma a seguito arrivano le storie di fuggitivi dalla prigione di Alcatraz di Well Sometimes You Just Cant Stay o le semplici domande senza risposte sulla vita della title-track (d’altronde, “i filosofi fanno ipotesi, ma semplicemente non lo sanno”). Disco non facile, volutamente “dark”, ma sicuramente importante per una autrice che sta con tutta evidenza cercando la propria maturità.  

mercoledì 16 febbraio 2022

BRINSLEY SCHWARZ

 

Brinsley Schwarz

Tangled

(2021 Fretsore Records)

File Under: The man, not the band

Fa un po’ sorridere scrivere che Tangled è il secondo album di Brinsley Schwarz (il primo era Unexpected del 2016), ma tecnicamente è vero che il chitarrista forse più importante del mondo del pub-rock inglese degli anni settanta (con Dave Edmunds) non ha mai pubblicato altri dischi solisti, essendo gli album a suo nome di quegli anni la rappresentazione di una vera e propria band. Se non avete capito di chi stiamo parlando vale solo ricordare che (What's So Funny 'Bout) Peace, Love, and Understanding dei (appunto) Brinsley Schwarz (scritta da Nick Lowe, e portata al successo poi anche da Elvis Costello) è ancora oggi una delle canzoni più suonate nel mondo rock americano (Sharon Van Etten ne ha fatto recentemente una versione con Josh Homme), e che la sua carriera come uomo-spalla di Graham Parker è andata anche oltre i dischi con i Rumour. Basta già questo a dargli un posto di gran rispetto nel paradiso del rock and roll, non male per un tedesco trapiantato a Londra che nel 1970 pubblicò con la band un disco d’esordio completamente fuori dal tempo, che guardava a Dylan e Crosby, Stills & Nash in una città ubriaca di altri suoni, e con il quale hanno fondamentalmente inventato quello che più tardi verrà chiamato “pub-rock”, un misto di suoni americani e sensibilità melodica inglese che tanti capolavori ci ha poi regalato. Oggi Schwarz ha quasi 75 anni, vive sempre di chiamate alle armi dell’amico Parker (pur di dar vita alla reunion della band nel 2012 ha vinto la propria atavica paura degli aeroplani che lo ha tenuto lontano da molte scene per molti anni), ma per il resto trova il tempo di assemblare un disco che fa di nostalgia virtù. Il disco nasce in coda alle session per il precedente album Unexpcted del 2016, nato proprio come spin-off della reunion dei Rumour con Graham Parker, anche se You Drive Me to Drink, Stranded e la triste piano-song Crazy World sono figlie del recente lockdown per pandemia. Da quelle session arriva la dylaniana Storm in the Hills, cronaca di guerra dall’Afghanistan che si fa ancora più attuale dopo la recente fuga americana dalla nazione. Ma l’incedere un po’ pigro dell’uno-due-tre inziale He Takes Your Breath Away, You Drive Me To Drink e Stranded non può che far pensare ad un disco di Graham Parker and The Rumour senza il padrone di casa, e la voce non particolarmente accattivante di Schwarz è forse l’unico elemento (a sfavore purtroppo) che li differenzia. Aggiungiamoci che poi Schwarz si riappropria di un brano che dice di amare particolarmente come Love Gets You Twisted dal glorioso Squeezing Out Sparks, innescando un inevitabile effetto paragone da cui non può che uscirne sconfitto. Il disco è registrato quasi interamente in solitaria con l’aiuto del tastierista James Hallawell (ultimamente anche nel giro Waterboys), intrattiene il giusto per 37 minuti, ma resta solo un curioso oggetto per completisti dell’universo Parker o Lowe.

 

Nicola Gervasini

 

 

lunedì 14 febbraio 2022

VELVET UNDERGROUND

 

Vari - I’ll Be Your Mirror: A Tribute to the Velvet Underground and Nico

Verve, 2021

I dischi tributo, si sa, sono una categoria a parte nel mondo discografico. Nati verso la fine degli anni ottanta, quando anche il ritorno sulle scene di band dimenticate nei meandri degli anni sessanta e settanta inaugurò la prima fase autoreferenziale del classic-rock (ai tempi non lo si chiamava ancora così), negli anni 90 il formato ebbe un grande successo, sia perché c’era terra vergine di nomi da tributare, anche meno conosciuti (quanti giovani dediti al grunge scoprirono i 13th Floor Elevators grazie ad un bel tributo uscito proprio in quegli anni?), sia perché ai tempi poi i cd si vendevano, e ancor più se presentavano nomi accattivanti. Quello che sorprende è invece che la moda del tribute-album non sia scomparsa nei 2000, anzi, in un’era di revival cronico assistiamo a nuovi tributi ad artisti già “tributati”, perché in fondo la formula non ha limiti finché ci saranno giovani e vecchi artisti disponibili al gioco della cover. I'll Be Your Mirror. A Tribute to The Velvet Underground & Nico si inquadra poi nell’ottica del rilancio di una etichetta storica come la Verve, dopo che nel 2006 la Universal l’aveva ridotta al rango di puro marchio storico licenziando l’85% del suo personale. I Velvet Underground, si sa, aprirono i cataloghi della sigla, di solito dedicati solo al jazz, a mondi inesplorati, e quindi ora che il nome Verve torna a riscoprire anche nuovi talenti, pare giunto il momento di ringraziare la band di Lou Reed e soci. Non è ovviamente il primo tributo alla band, la Imaginary ne licenziò ad esempio uno triplo nel 1991, intitolato Heaven & Hell, con il meglio del nuovo rock di Seattle e dintorni, Nirvana compresi, ed è curioso notare che a quel progetto partecipò in veste da solista Lee Ranaldo dei Sonic Youth, mentre qui è il suo vecchio compare Thurston Moore (aiutato dal Primal Scream Bobbie Gillespie) a ribadire il debito nei confronti dei Velvet Underground, e forse anche a chiudere un cerchio. Per il resto il gioco in questi casi, dichiaratamente fine a sé stesso , è scoprire chi aggiunge e chi toglie, ma qui ovviamente sarete voi a metterci il vostro gusto, anche se è innegabile che Michael Stipe nelle canzoni dei Velvet ci ha sempre sguazzato come se fosse il suo brodo primordiale, mentre la coppia Sharon Van Etten/Angel Olsen tradisce un po’ di timore reverenziale trasformando Femme Fatale in qualcosa di poco sostenibile, per non parlare della inspiegabilmente inutile versione offerta da St. Vncent con Thomas Bartlett. La sua è comunque l’unico scivolone dell’album, perché sia i vecchi (Iggy Pop dimostra che European Son poteva benissimo essere una outtake di Funhouse), sia i grandi nomi degli anni 2000 (Matt Beringer dei National penso abbia coronato il suo sogno di far finta di essere Lou Reed, Andrew Bird si fa ben aiutare dai Lucius, ma meglio di lui fa Kurt Vile che dona vigore ad un brano poco celebrato come Run Run Run), sia quelli più di ultimo pelo (Courtney Barnett, la cui scordatissima versione di I’ll Be Your Mirror finisce ad essere una delle cose più riuscite del disco, o i Fontaines D.C che si divertono a calarsi nell’atmosfera acida del tempo), ne escono più che degnamente. Resta comunque un progetto un po’ deludente visti i nomi in campo, ma diamo la colpa al troppo rispetto ad una band forse seconda solo ai Beatles in termini di influenza su altri artisti.

La scaletta

1. Sunday Morning – Michael Stipe

2. I’m Waiting For The Man – Matt Berninger

3. Femme Fatale – Sharon Van Etten (w/ Angel Olsen)

4. Venus In Furs – Andrew Bird & Lucius

5. Run Run Run – Kurt Vile

6. All Tomorrow’s Parties – St. Vincent & Thomas Bartlett

7. Heroin – Thurston Moore feat. Bobby Gillespie

8. There She Goes Again – King Princess

9. I’ll Be Your Mirror – Courtney Barnett

10. The Black Angel’s Death Song – Fontaines D.C.

11. European Son – Iggy Pop & Matt Sweeney

 

VOTO: 6

venerdì 4 febbraio 2022

THALIA ZEDEK

 

Thalia Zedek Band - Perfect Vision

 2021, Thrill Jockey

 

Ci sono artisti che sono per noi una sicurezza, a volte proprio per la loro affidabilità nel non riservare mai troppe sgradite sorprese, mantenendo invariato il livello alto delle loro produzioni. A metà tra un quasi immobilismo stilistico e la continua conferma di un talento, è anche Thalia Zedek, artista davvero atipica nel panorama odierno. Molto osannata ai tempi dei suoi primi album (Been Here and Gone del 2001 e Trust Not Those in Whom Without Some Touch of Madness del 2004), è stata poi secondo me un po’ dimenticata e ignorata da molte testate, nonostante la sua non numerosissima discografia non abbia mai avuto segni di vero cedimento. E non fa eccezione Perfect Vision, ottavo album della sua carriera (non facendo distinzioni tra quelli a suo nome e a quelli a nome Thalia Zedek Band come il qui presente), che pare solo in apparenza voler cambiare le carte in tavola, se è vero che l’iniziale Cranes pare addirittura azzardare una verve gentile e radio-friendly grazie alla suadente pedal steel di Karen Sarkisian, ma è solo un episodio, perché già da Smoked (con Alison Chesley al violoncello) si torna nel torbido e oscuro rauco rock cantautoriale che la contraddistingue da sempre. Prodotto con la collaborazione di Seth Manchester, il disco conferma la Zedek come autrice capace di raggiungere grande tensione (ascoltate la conclusiva Tolls) e per nulla avvezza ad inquinare il proprio suono da bassifondi del rock, una caratteristica che rende i suoi dischi sempre validi, ma forse anche abbastanza simili. In ogni caso la band gira come al solito alla grande, con una sezione ritmica (il bassista Winston Braman e il batterista Gavin McCarthy) che ormai la segue alla perfezione nel suo incedere spesso aritmico, e il chitarrista Jason Sanford che non cede mai neanche per caso alla tentazione di ricamare melodie laddove non ce ne sono. Squadra che vince non si cambia insomma, anche se gli interventi di altri musicisti rendono il piatto stavolta più ricco, con Mel Lederman che contrappunta con il suo piano la bella Binoculars, e la tromba di Brian Carpenter che fa capolino in From the Fire. Ma, alla fine, se già avete amato i suoi album precedenti, non c’è molto da dannarsi per descrivervi in anticipo quello che troverete in brani come The Plan o Remain, il che rappresenta forse il suo limite, e la ragione per cui sia rimasta un po’ ai margini, non tanto di un mercato discografico a cui forse non ha mai voluto partecipare da protagonista, ma di un apprezzamento generale di stampa e pubblico di appassionati. Non dimenticatevi invece della Zedek, in fondo continua a fare in buon modo quello che gente come Mark Lanegan e Nick Cave non riescono più a fare in maniera così semplice e genuina.

VOTO: 7

 

Nicola Gervasini

martedì 1 febbraio 2022

VAN MORRISON

 

Parliamo di van morrison..ancora?

Chi conosce Van Morrison non ha mai smesso di ascoltarlo, per cui perché avrebbe ancora senso parlarne a lungo, sviscerarne i dischi e le canzoni, se non per il mero piacere del revival? O, più drammaticamente, come si potrebbe convincere oggi, nel 2021, qualcuno ad addentrarsi nella sua ormai vasta e dispersiva discografia? Paradossalmente si potrebbe cominciare dalla fine, dal chiedersi perché ancora oggi un vecchio uomo che si unisce ad una protesta così moderna come quella contro i lockdown per il Covid, faccia ancora notizia. Non perché sia necessario per forza essere d’accordo con lui, ma perché sulla visione critica del mondo e delle sue logiche basate sul profitto, Morrison ci ha costruito una intera carriera e una poetica. Che ha portato molti a considerarlo un po’ un solitario orso brontolone, ma che in fondo ne ha salvaguardato l’opera anche in anni in cui era davvero difficile riuscirvi, e si vedano i suoi anni 80 così in controtendenza con i suoi coetanei, impegnati nell’effimera rincorsa ad un ammodernamento di suoni e immagine, in cui forse solo lui e Paul Simon si sono davvero salvati sempre a pieni voti e senza compromessi. Scoprire oggi Van Morrison vuol dire imparare a vedere come una visione “da fuori” si possa tramutare in qualcosa di positivo e non necessariamente sempre in un ostinato atteggiamento “anti”, e ne è testimonianza anche il suo ultimo disco Latest Record Project, Volume 1, arrabbiato si, ma anche uno dei più gioiosi e festosi della sua carriera. Insomma, gli artisti devono essere abili non tanto a fare rivoluzioni, ma a cantarle, e Van Morrison ha fatto questo fin dai suoi primi giorni con i Them, con una coerenza a volte persin esagerata, ma che alla fine resta una testimonianza più che mai moderna di come è possibile fare critica sociale da antagonisti senza per questo essere solo distruttivi. Per questo serve ancora parlare di lui, perché la sua musica si nutre come sempre di passato, ma suona ancora viva nel presente. E nel presente Van Morrison resta un maestro, perché da lui derivano almeno due filoni di musicisti apparentemente in antitesi come i tanti cantautori anche recenti che hanno chiuso le proprie canzoni nell’intimità con Astral Weeks sul comodino, sia quelli che hanno capito che il soul e il jazz potevano essere anche dei semplici ingredienti per trovare una via stilistica personale (ne sanno qualcosa gente come Bruce Springsteen, Graham Parker), sia chi poi ha usato come lui la tradizione per fare musica d’autore (i Waterboys ad esempio). Ma oltre che musicalmente, è anche un maestro di vita, con tutta la sua poetica di unione spirituale con la natura, la sua filosofia del “So Quiet In Here” che dovrebbe essere usata come training autogeno nei nostri tempi improntati alla frenesia e all’incapacità di soffermarsi sui particolari. Quando invece lui su quei particolari, apparentemente insignificanti, ci ha scritto più di cinquecento canzoni, rendendoli una ragione per vivere, e per vivere pure bene. Anche nel 2021.

MEGA BOG

 

Mega Bog

Life, And Another

(Paradise Of Bachelors. 2021)

File Under: Out of Focus

Avevamo già parlato di lei per il precedente Dolphine, già il quinto disco della sua carriera, ma il primo ad avere avuto una buona risonanza un po’ ovunque. Lei, Erin Elisabeth Birgy, in arte Mega Bog, era fino a quel momento una delle ormai tante cantautrici indipendenti figlie di nobili tradizioni al femminile (Joni Mitchell, Laura Nyro, e il solito pizzico di Kate Bush), ma con Dolphine sembrava voler abbracciare il mondo del nuovo art-pop etereo alla Weyes Blood o Angel Olsen. Ci pensa questo Life, And Another a scompigliare però tutto, un disco davvero complesso e finanche barocco nella produzione e nel suo buttare nel calderone ogni tipo di strumento suono, ritmo, ispirazione. Facile anche capire a volte a chi sia ispirata per unire una così composita tavolozza di colora, se nona quel David Bowie echeggiato non solo quando gli ruba addirittura un titolo  importante come Station To Station, non una cover, ma guarda caso il brano più immerso nell’elettronica con ben tre sintetizzatori “berlin-style” (nello strumentale Darmok ad accompagnare la sua chitarra ce ne saranno ben quattro), o il sax solo apparentemente stonato che appare  in Crumb Back, momenti sperimentali che fanno da contraltare alla conferma del suo amore per la musica brasiliana, evidenziata nell’iniziale Flower o in altri brani come Butterfly o la stessa title-track. Il tutto sempre con la sua voce eterea e un po’ gentilmente allucinata a fare da fulcro, tra una Suzanne Vega al risveglio e una Hope Sandoval o una Sophie Zelmani nei loro rari momenti vigorosi, e con la sua scrittura che ama l’espediente della serie di immagini che costruiscono una storia nella mente dell’ascoltatore, senza seguire apparentemente un filo logico (Maybe You Died). Musicalmente però il disco segue le visioni del produttore e percussionista James Krivchenia (dai Big Thief), che ama condire ogni attimo con percussioni di ogni tipo. C’è sicuramente parecchia carne al fuoco infatti, a volte persino troppa, perché la sensazione è che lo sforzo compositivo, sicuramente notevole, evidenzia sì una creatività nel pieno del suo apice, ma la frenesia poi di dimostrarsi anche un qualcosa di diverso dalle altre la porta spesso a perdere il fuoco del disco, che risulta essere un po’ lungo e frastagliato (certi abbozzi come Adorable o lo sconclusionato strumentale Bull Of Heaven aggiungono poco al piatto se non un  po’ di confusione in più ad esempio, ma anche la Obsidian Lizard che segue rallenta molto la tensione della prima buona parte del disco). Before a Black Te, ad esempio, è un episodio anche molto divertente, in cui Mega Bog si prodiga in varie voci tra il teatrale e il grottesco (dicevamo sopra di Kate Bush no?), ma conferma solo una sensazione di ricerca del colpo ad effetto che il finale più rilassato e convenzionale di Ameleon non riesce a cancellare. Seguitela in ogni caso, il lato B non del tutto riuscito di questo album non basta comunque a non considerarla una delle artiste più vive del momento.

 

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

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