giovedì 31 marzo 2022

DANA PLATO

 

Dana Plato – Wrong Quotes

2021, Sub Terra

 

Nella sua più tipica accezione, il “side-project” rappresenta una deviazione da un percorso abituale di un artista o di una band per “sperimentare” vie alternative e “provare” nuove collaborazioni. La critica musicale ha sempre dimostrato una certa benevolenza per questo tipo di operazioni, proprio perché paradossalmente ad un progetto parallelo non si chiede di essere a livello dei dischi da strada maestra, ma si chiede di stuzzicare nuove curiosità. È difficile capire quale sia il mainstream del messinese Humpty Dumpty, vista la grande mole di materiale pubblicato in piena (e, come dice lui stesso, “intransigente”) indipendenza in più di vent’anni, ma è certo che questo progetto suona come un album tutt’altro che di sperimentazioni ma di linee artistiche ben definite. I Dana Plato (nome rubato alla sfortunata attrice che interpretava Kimberly nella serie Tv “Il Mio Amico Arnold”) sono ufficialmente un trio formato da lui, dal vocalist e paroliere Fixx (Gianluca Ficca) e dal funambolico bassista Monster Joe (il foggiano Giovanni Mastrangelo), anche se poi il batterista Paolo Del Grosso dà una forte mano in quasi tutti i brani dell’album. Tredici canzoni che affondano le mani nel post-punk o, come dicevamo allora, “dark-new wave” dei primi anni Ottanta, la maggior parte cantati dalla voce bassa e profonda di Humpty Dumpty, ma con molte variazioni sul tema questa volta. Sicuramente notevoli e tipiche del suo stile sono Little Genius (con un gran bel testo di Fixx), The Corpse And I, Parachutes e la title-track finale, ma altrove è lo stesso Fixx a fornire, con la sua vocalità declamatoria, suggestioni diverse, come accade nell’iniziale Thrill, nel quasi synth-pop di Shout To The Wolf o nella sognante Desert. Alla prima voce però vengono accolti anche ospiti esterni, come la squillante ugola di Mary Grace che alimenta Nothing Left But Speak e Gregorsamsaéstmort, leader dei Black Veils, che interviene in Strained. Ma quello che piace di tutto il disco e il gioco tra le chitarre e il basso pulsante, e spesso quasi funky, di Monster Joe (sentitelo nello strumentale Majesty o nell’assolo di Butterfly Chips), quasi un innesto degno degli A Certain Ratio, con un certo ritmo generale che resta sostenuto sia nei brani dove la programmazione synth è più evidente (The Vibrator Play), sia dove invece si lascia spazio al drumming di Del Grosso (The Prettiest Girl Of All The Time). Album uscito in digitale già da qualche mese, ma che consigliamo ora che è disponibile la bellissima versione CD, utile per gustarsi un disco da studiarsi libretto alla mano, sia perché i testi non sono per nulla un contorno, sia perché la confezione ideata da Giulia Merlino con i suoi collage merita un posto in vista nelle vostre bacheche.

 

VOTO: 7,5

martedì 29 marzo 2022

STERBUS

 

Sterbus

Let Your Garden Sleep

(Zillion Watt Records, 2021)

File Under: A Power-Popera

Non è facile inventarsi nuove definizioni, ma visto che agli Sterbus non ha mai fatto difetto l’ironia, questo loro nuovo album Let Your Garden Sleep viene presentato come una “power-popera”. Dove al termine “opera”, che forse ben si addiceva al loro monumentale doppio album precedente (Real Estate/Fake Inverno), si contrappone un disco fresco, immediato, diretto e alfine breve, dove impera la religione del power-pop, sia di derivazione Costelliana, che ancor più dell’era d’oro del Brit-pop della seconda metà degli anni 90. Insomma, il gran mix di stili del primo album è stato ridotto all’osso per cogliere l’amore per un certo rock da garage del duo formato da Emanuele Sterbini e Dominique D'Avanzo, con nove brani che cercano brevità ed efficacia, e si dilungano solo nella conclusiva Murmurations. Prodotto dal duo, che si divide anche i compiti di composizione (i testi sono della D’Avanzo), l’album è stato registrato con l’ausilio di una serie di musicisti sia italiani (in particolar modo Riccardo Piergiovanni e Francesco Grammatico) che britannici (Noel Storey, Al Strachan, Layer Bows). Nothing of Concern apre le danze mostrando subito i punti fondamentali: uso di tastiere e archi alla Beatles, ritmica e chitarre in puro stile British ‘80 alla Smiths/Housemartins, impasti vocali a sottolineare le linee melodiche, bridge con voci filtrate, assolo di chitarra semplice e non invasivo: il pezzo è potente e ben scritto, e probabilmente in altre epoche avrebbe potuto anche essere una piccola hit radiofonica in terra d’Albione. La ricetta non varia molto anche dopo, tra citazioni evidenti (Stalking Heads, in cui interviene anche un delizioso pianoforte) e il “remmianissimo” titolo Gardeners At Night (in verità quasi un pezzo alla X), ampi spazi lasciati anche solo alla vocalità leggera di Dominique D’Avanzo (My Friend Tim o una Polygone Bye che rimanda molto al dream-pop dei Sundays) e momenti più da adrenalina come B-Flat Love o più classicamente pub-rock come Helpelss Waitress. Il disco si chiude con gli episodi più complessi, una The Accidentalist che parte acustica per poi esplodere, e la lunga e sognante Murmurations, con la sua chiusura maestosa in un tripudio di archi e cori. Disco ben prodotto e maturo, decisamente rivolto ad un mercato e ad un gusto estero che speriamo trovi comunque i suoi riscontri anche a casa propria, con il rammarico di quanto il mercato internazionale oggi non possa forse davvero valorizzare questi sforzi produttivi (compresa anche la bella copertina realizzata da Dario Faggella), un tempo rari anche nella nostra terra.

Nicola Gervasini

venerdì 25 marzo 2022

COURTNEY BARNETT

 

Courtney Barnett - Things Take Time, Take Time

Rough Trade, 2021

Come recitava il titolo del suo primo acclamato disco del 2015, Courtney Barnett certe volte si siede e pensa, ma altre si siede e basta. La costante è quel sedersi, immagine che si sposa bene con la sua musica, un indie-folk figlio di mille madri artistiche e spirituali, non certo rivoluzionario, ma che almeno le ha permesso di uscire dalla nicchia della scena australiana, trovando applausi un po’ ovunque nel mondo anche col secondo album Tell Me How You Really Feel. Things Take Time, Take Time arriva con la sua solita cadenza triennale, ma il titolo stesso suggerisce che lei di fretta di alzarsi non ne ha poi troppa, perché la sua penna ha bisogno di tempi e spazi larghi. Registrato in patria con l’ausilio della batterista dei Warpaint Stella Mozgawa, anche in veste di produttrice, rinunciando così alla sua band abituale anche in sede di scelte produttive, il difficile terzo disco è il classico prodotto di una artista che ora che sa che là fuori qualcuno l’aspetta con una certa ansia, può anche permettersi di parlare un po’ più difficile, e soprattutto di parlare ancora più di e a sé stessa. Il tono volutamente intimista dei testi di queste canzoni si riversa su una struttura sonora scarna e una vocalità poco ammiccante alla melodia, il che rappresenta la sua caratteristica, ma in alcuni casi forse anche il suo limite. Il disco ha infatti una partenza un po’ faticosa, prima che un brano davvero riuscito come Turning Green faccia uscire il tutto dall’atmosfera anticamente lo-fi di brani come Rae Street, Sunfair Sundon o Here's the Thing. A quel punto l’album nella seconda parte trova un suo equilibrio, ma la scelta di fare tutto da sole (uniche musiciste attive sono lei e la Mozgawa) diventa coraggiosa quanti un po’ penalizzante. Insomma, se i brani continuano a dimostrare quanto sia una brava autrice (If I Don't Hear from You Tonight, Write a List of Things to Look Forward To), la produzione non arriva a scegliere se fare di essenzialità virtù o cercare qualche spunto di novità che rimane solo accennato, con un utilizzo dell’elettronica in chiave folk che non solo non pare più una novità, ma comincia pure a suonare decisamente vintage. La sensazione che rimane, quando le ultime note della bella On The NIght svaniscono, è che questa volta la Barnett abbia pensato solo a sé stessa, lasciando il tutto formalmente più vicino ad un demo, e con un atteggiamento anti-formale e minimale alla Jonathan Richman che oggi però non pare più così affascinante. E non è difficile immaginare che un giorno parleremo di questo album come del suo “Period of Transition”, per citare un noto titolo di Van Morrison (una curiosità per chi ama le coincidenze, i due dischi hanno più o meno la stessa frettolosa lunghezza di circa 33 minuti e 50 secondi), che è comunque un lusso che si possono permettere solo gli artisti già maturi e affidabili.

VOTO: 6,5

lunedì 21 marzo 2022

ANNIE KEATING

 

 

Annie Keating

Bristol County Tides

(Appaloosa/IRD, 2021)

File Under: ho tante storie ancora da raccontare…

Ci voleva l’italiana Appaloosa per accorgersi di una brava cantautrice come Annie Keating, artista che avevamo segnalato fin dal 2006 ai tempi del suo secondo album Take The Wheel o del buon Belmont del 2008 I suoi album in patria statunitense sono sempre stati orfani di una label importante che li pubblicasse e promuovesse, ma almeno da noi l’etichetta brianzola ha provato a rilanciarla nel 2018 producendo la sua prima raccolta All The Best e puntando molto su questo corposo ritorno in studio intitolato Bristol County Tides, settimo album che arriva a cinque anni di distanza da Trick Star. 15 canzoni, 57 minuti di musica, e una fitta trama di testi che nell’edizione italiana hanno pensato bene di tradurre per apprezzare al meglio lo sforzo creativo. La Keating fa parte della tradizione di cantautrici post-Lucinda Williams, musicalmente ama i toni aspri delle chitarre elettriche su un tessuto autoriale di estrazione country/roots sicuramente non innovativo, ma sempre ben realizzato. La potremmo avvicinare a Mary Gauthier (che canterebbe volentieri un brano come Marigold), se non fosse che ha una vocalità meno profonda e caratteristica che un po’ ne limita la potenza espressiva.

Lei stessa presenta il disco come un “album pandemico fatto di risvegli e ispirazioni”, il che rende evidente subito il tono intimista e da confessione da artista delle 15 canzoni, che hanno come filo conduttore la sua decisione di abbandonare New York per rifugiarsi in una città di mare del Massachussetts. C’è dunque il tono della sconfitta di una artista che nella Grande Mela era arrivata dalla natia Boston piena di speranze, in un momento in cui questa musica aveva anche un suo mercato, ma ci troviamo anche la serenità di chi alfine ha trovato un proprio equilibrio nell’offrire sé stessa a chi ancora ha voglia di ascoltarla. Noi sicuramente, perché per quanto il disco soffra di una certa mancanza di varietà espressiva e ci rendiamo conto che difficilmente possa piacere a chi non mastica già abitualmente il genere, questi 15 pezzi rappresentano un piccolo bigino di buona scrittura, fin dalla galleria di personaggi posta in apertura di Third Street, dal vecchio settantatreene che ancora fa impazzire le donne, al poliziotto che gode nel fermare le macchine per eccesso di velocità, tutte figure che parlano in piccolo dei grandi problemi di una nazione che sta facendo fatica a trovare una propria identità ora che sta perdendo pian piano il ruolo egemone, sia economicamente che culturalmente. Insomma, la ritirata in provincia è un modo per raccontare di come la piccola dimensione umana è necessaria per ricostruire una coscienza sia a livello personale che universale, sia che la si ritrovi all’ Hank's Saloon o negli affetti più vicini di Song For A Friend o Doris. Un disco umanamente prezioso, da rileggere più volte con attenzione.

Nicola Gervasini

lunedì 14 marzo 2022

LORENZO SEMPRINI

 

Lorenzo Semprini

44

(Lorenzo Semprini, 2021)

File Under: Nato per correre in bilico

Personaggio certamente non nuovo sulle nostre pagine Lorenzo Semprini, attivo da più di 20 anni con i suoi Miami & The Groovers nel portare avanti quella filosofia blue-collar di estrazione springsteeniana, che è poi anche l’anima delle 22 edizioni da lui organizzate del festival Glory Days in Rimini, ormai consolidata alternativa al più affollato (ma molto meno sudato) Meeting di Rimini o alle serate in discoteca nella città romagnola. Nuova però è la veste con cui si presenta in questo 44, suo primo disco solista, e anche primo disco che abbraccia la nostra lingua, un percorso già visto in passato da alcuni suoi illustri precursori (Graziano Romani dei Rocking Chairs ci provò con Adios ma decise che non era cosa sua, in altri casi invece gente come Michele Anelli di altri Groovers si è proprio inventato una nuova carriera). 44 era anche la sua età quando ha iniziato a scrivere il disco (che dura 44 minuti e 44 secondi, per chiudere il cerchio), che ha avuto una lunga gestazione di tre anni, e uno stuolo di più di venti musicisti coinvolti, con nomi anche qui ben conosciuti dai nostri lettori come Antonio Gramentieri (Rimini ‘85 la si riconosce subito come una estrazione del suo DNA musicale), Daniele Tenca, Riccardo Maccabruni, Beppe Ardito, Paolo Angelini, e scusate se non possiamo citare tutti. Una sorta di amichevole after party del Glory Days si potrebbe pensare, e invece il disco sorprende per come Semprini si cala bene nel ruolo di cantautore più intimista e riflessivo, non rinunciando alla propria inclinazione rock in certi episodi (Adrenalina, Lei Aspetta), ma non calcando mai sui toni epici da rock band di strada ma piuttosto su quelli dello storyteller. E le storie sono personali (Occhi Verdi è dedicata alla madre, Equilibrio Fragile probabilmente a sé stesso) o letterarie (La Terra Brucia, Johnny Solitario) o tipiche di quel senso di destino comunitario che sempre anima il rock romagnolo come la romantica Una Notte Così, Il Tempo di Un Battito e Siamo Rimasti Noi. Dal lato produttivo (se ne occupa Gianluca Morelli) notevole Gospel Rain con il suo coinvolgente crescendo finale, impreziosita dalla voce di Vanessa Peters e da una gran bella pedal steel suonata da Alex Valle, a riprova di un album che credo gli faccia fare un salto di qualità non indifferente. Non che la festa rock sia finita, anche se il periodo storico non è quello più favorevole, ma certe storie andavano raccontate con un nuovo linguaggio che Semprini ha abbracciato con buon successo, tanto che potremmo anche auspicarne un secondo capitolo.

 

Nicola Gervasini

domenica 13 marzo 2022

MY MORNING JACKET

 

My Morning Jacket

My Morning Jacket

(ATO Records, 2021)

File Under: Rock and roll pastiche

Mi sono convinto che in fin dei conti a Jim James piaccia davvero risultare imprendibile da una qualsiasi definizione, costi quel che costi. Gli piace sapere che difficilmente riusciremo a spiegarvi il contenuto di questo nono album in 23 anni di carriera dei suoi My Morning Jacket, misteriosamente uscito senza titolo (che significa Jim, un nuovo inizio? Lo stampatore ha mandato in produzione le copertine dimenticandosi il titolo?), e che ancora una volta scriveremo che qualcosa è andato storto nella sua frenetica ricerca musicale, dopo quella doppietta di buoni dischi (It Still Moves del 2003 e Z del 2005) che davvero avevano ben capitalizzato l’amore per il prog di molte band americane degli anni 90 (i Phish ad esempio) in uno stile che apriva non poche porte future. Poi quelle porte James non ha saputo tenerle ben spalancate, con dischi che ancora dobbiamo capire come Evil Urges o la doppia uscita di The Waterfall (due volumi usciti nel 2015 e 2020) che parevano la fiera dell’indecisione sulla strada da intraprendere. Qui invece all’inizio sembra che James voglia riprendere finalmente le fila del discorso, visto che già al terzo brano James infila un pezzo davvero bello e ben riuscito come In Color, che riprende tutti gli elementi di mix tra Americana e svisate psichedeliche che tanto ci erano piaciute, e che avevano trovato la loro esaltazione definitiva nel monumentale live Okonokos del 2006. Poi però anche questa volta, proprio quando ci si rilassa davanti al fatto che forse possiamo si parlare di ritorno ancor più che di ripartenza, eccolo infilare brani davvero difficili da decifrare o fuori contesto come il quasi pop elettronico di Lucky to Be Alive o il rock di grana grossa di Complex, dove James cede ancora una volta alla tentazione di cercare e rivisitare un suono che piace ad un pubblico più giovane che (si arrenda) non potrà mai essere il suo. Insomma, siamo alle solite, sebbene il disco abbia alcune frecce davvero riuscite da scagliare, a conferma che il suo talento non si discute, i My Morning Jacket scivolano ancora una volta sulla buccia di banana della voglia di dire tutto in poco tempo, e di mettere troppi ingredienti ad una zuppa che invece pareva già buona senza bisogno di ulteriori spezie. Non so neanche se sia questione della mancanza di un produttore che ne limiti la tracotanza (James fa tutto da solo), o che forse ci vorrebbe qualche intervento esterno a dare nuova linfa alla lin-up della band, stabile fin dal 2004 intorno alle chitarre del bravissimo Carl Broemel, ma almeno metà di questo album ritrova una vena interessante che l’altra metà affossa nella confusione, e sono queste davvero le occasioni perse che fanno più arrabbiare.

Nicola Gervasini

mercoledì 9 marzo 2022

PARQUEL COURTS

 

Parquet Courts - Sympathy for Life

Rough Trade, 2021

Credo che non esista discussione più inutile di quella che sta accompagnando il gran successo internazionale dei Måneskin, visti da qualcuno come una possibile rinascita del rock, inteso nel termine più stretto di musica “guitar-based”. Ovviamente il rock non è mai passato di moda, semmai è da tempo entrato in una fase di consolidata crociera della sua storia, e per illustrare il concetto credo che i Parquet Courts, band dal 2011 sulla breccia con moderato ma costante successo, siano un buon esempio da portare. Soprattutto perché il loro nuovo album Sympathy for Life dimostra quanto ormai sia veramente inutile suddividere culture un tempo più nettamente antagoniste come quella dei rockers da garage e quella dei dance-clubbers da nottata in discoteca (insomma, la lezione dei Primal Scream non è passata invano). Qui, infatti, i cambiamenti di un suono nato con ispirazione puramente rock (direi genere “post-Strokes”) dieci anni fa, che già si erano palesati nel precedente Wide Awale! (dove la presenza di Danger Mouse si faceva sentire), si trasformano in un ben più marcato cambio di direzione. Sempre di New York si tratta, solo che i quattro si fanno aiutare da varie collaborazioni a salire dalla cantina alla sala da ballo dei club della Big Apple. Non certo un atto rivoluzionario insomma (in fondo cambi di rotta simili li abbiamo sentiti negli ultimi anni da Beck o persino dagli Arcade Fire). Prodotto da Rodaidh McDonald (The XX e King Rule tra le sue collaborazioni più note, ma anche David Byrne si è avvalso dei suoi servizi), il disco era in verità pronto da prima della Covid-era, a parte un brano aggiunto (Marathon of Anger, brano dedicato al movimento Black Lives Matter) e due poi ritoccati nientemeno da John Parish, ma ovviamente un album del genere avrebbe avuto senso in tempi in cui ci si poteva accalcare nelle feste e non certo nell’isolamento del lockdown. Eppure, i brani proprio di quello parlano, con riflessioni su incomunicabilità e solitudine come Homo Sapien Applicatus Apparatus o la stessa title-track. Difficile dire subito se la svolta sia riuscita, sicuramente la band di Andrew Savage ha vinto con questo album la sfida di dimostrare di poter evolvere nel tempo e di non essere solo una mezza cover-band di modelli passati, ma è anche vero che qualcosa si è perso in termini di rabbia e vigore della loro musica. Che è rock pur non essendolo più, che non è morto neppure in questo mare di batterie programmate e bassi pulsanti (anche se il singolo Black Widow Spider è un delizioso e classicissimo power-pop ispirato a loro detta a On The Road Again dei Canned Heat), e quindi inutile fare distinzioni, al massimo segnalare che il gioco si fa un po’ ripetitivo esaurita la sorpresa e, seppur i testi siano tutt’altro che spensierati e superficiali, la scrittura delle canzoni non è quella da autore di primo livello. Per il resto i Parquet Courts almeno ci provano a trovare una sintesi al tutto, rendendo le discussioni tra partigiani della musica sempre più obsolete.

 

VOTO: 6,5

martedì 1 marzo 2022

THE LATHUMS

 

The Lathums – How Beautiful Life Can Be

Islands Records, 2021

La stampa musicale inglese è storicamente specializzata nell’urlare debutti clamorosi che cambierebbero tutte le carte in tavola del mondo del rock (perlomeno britannico), salvo poi dimenticarsene presto, e c’è di buono che la pratica, particolarmente in voga negli anni Novanta, trova difficile attuazione ai giorni nostri. Immagino infatti che 30 anni fa l’esordio dei Lathums sarebbe stato salutato con titoloni, copertine e recensioni altisonanti che coglievano di sorpresa gli ascoltatori di un tempo, costretti dall’oggi al domani ad avere che fare con un nome nuovo e da scoprire assolutamente. Oggi invece i Lathums non sono una sorpresa, visto che già da tempo circolavano video e EP, ma insomma questo How Beautiful Life Can Be ha tutta l’aria di voler essere il loro primo passo importante. Guardatevi il video di Fight On o I’ll Get By per capire subito tutto: chitarre anni Ottanta con Johnny Marr nel cuore, batteria un po’ grossa come si usa ancora oggi, un po’ di spleen dark-80 rimodernato alla War On Drugs, ma una voce decisamente da indie-pop anni 2000. E, non ultimo, l’importanza del loro “non-look”, con il cantante Alex Moore che si presenta volutamente come il secchione a cui chiedevate i compiti da copiare a scuola, e che ironizza parecchio sul suo “non-physique du role” anche nei video. Insomma, mi immagino che per i giovani la band possa avere oggi lo stesso impatto di simpatia e ammirazione che ebbero gli Housemartins negli anni Ottanta, quando tra mille capelli iper-cotonati e vestiti sgargianti, quattro inglesi in abiti che ai tempi si definivano da “nerd” scalarono le classifiche con un video di un coro a cappella in chiesa. Oggi forse non c’è più bisogno di rompere troppi schemi estetici, visto che l’“understatement” dei frontman è uno degli elementi obbligati della indie-band moderna.  Modestia (falsa o no che sia) a parte, la band è quanto di più british ci sia capitato di sentire ultimamente, anche nei testi che cantano di una working class britannica che riesce a trovare il sorriso tra mille difficoltà, lavori che si perdono, amori idealizzati oltremisura (I'll Never Forget The Time I Spent With You) e pinte di troppo al pub. Fortemente sponsorizzati da Tim Burgess dei Charlatans (che si sentirà anche omaggiato dal loro stile), l’album è registrato nei Parr Street Studios di Liverpool sotto la guida dei produttori e Chris Taylor e James Skelly dei Coral, che hanno di non poco pulito il suono rispetto alle loro prime registrazioni (basta sentire la vena radiofonica dell’aperura di Circles Of Faith o il remake di un loro vecchio brano decisamente Smiths-dipendente come The Great Escape), lasciando però spazio libero alle chitarre di segnare il suono, che è giocato spesso sul jingle sound dell’elettrica di Scott Concepcion e l’acustica di Moore. Tante pop-song da cantare in macchina, con qualche momento di riflessione (la title-track) o divertenti divagazioni in zona Madness (I See Your Ghost). Nulla di nuovo, anzi, qualche giro pare davvero di averlo già sentito (non so se poi Paul Heaton li chiamerà per l’attacco tutto Housemartins di Oh My Love), ma in qualche modo il disco suona fresco e fa prendere una sana boccata di positività al mondo del pop inglese.

VOTO: 7

 

BILL RYDER-JONES

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