domenica 13 marzo 2022

MY MORNING JACKET

 

My Morning Jacket

My Morning Jacket

(ATO Records, 2021)

File Under: Rock and roll pastiche

Mi sono convinto che in fin dei conti a Jim James piaccia davvero risultare imprendibile da una qualsiasi definizione, costi quel che costi. Gli piace sapere che difficilmente riusciremo a spiegarvi il contenuto di questo nono album in 23 anni di carriera dei suoi My Morning Jacket, misteriosamente uscito senza titolo (che significa Jim, un nuovo inizio? Lo stampatore ha mandato in produzione le copertine dimenticandosi il titolo?), e che ancora una volta scriveremo che qualcosa è andato storto nella sua frenetica ricerca musicale, dopo quella doppietta di buoni dischi (It Still Moves del 2003 e Z del 2005) che davvero avevano ben capitalizzato l’amore per il prog di molte band americane degli anni 90 (i Phish ad esempio) in uno stile che apriva non poche porte future. Poi quelle porte James non ha saputo tenerle ben spalancate, con dischi che ancora dobbiamo capire come Evil Urges o la doppia uscita di The Waterfall (due volumi usciti nel 2015 e 2020) che parevano la fiera dell’indecisione sulla strada da intraprendere. Qui invece all’inizio sembra che James voglia riprendere finalmente le fila del discorso, visto che già al terzo brano James infila un pezzo davvero bello e ben riuscito come In Color, che riprende tutti gli elementi di mix tra Americana e svisate psichedeliche che tanto ci erano piaciute, e che avevano trovato la loro esaltazione definitiva nel monumentale live Okonokos del 2006. Poi però anche questa volta, proprio quando ci si rilassa davanti al fatto che forse possiamo si parlare di ritorno ancor più che di ripartenza, eccolo infilare brani davvero difficili da decifrare o fuori contesto come il quasi pop elettronico di Lucky to Be Alive o il rock di grana grossa di Complex, dove James cede ancora una volta alla tentazione di cercare e rivisitare un suono che piace ad un pubblico più giovane che (si arrenda) non potrà mai essere il suo. Insomma, siamo alle solite, sebbene il disco abbia alcune frecce davvero riuscite da scagliare, a conferma che il suo talento non si discute, i My Morning Jacket scivolano ancora una volta sulla buccia di banana della voglia di dire tutto in poco tempo, e di mettere troppi ingredienti ad una zuppa che invece pareva già buona senza bisogno di ulteriori spezie. Non so neanche se sia questione della mancanza di un produttore che ne limiti la tracotanza (James fa tutto da solo), o che forse ci vorrebbe qualche intervento esterno a dare nuova linfa alla lin-up della band, stabile fin dal 2004 intorno alle chitarre del bravissimo Carl Broemel, ma almeno metà di questo album ritrova una vena interessante che l’altra metà affossa nella confusione, e sono queste davvero le occasioni perse che fanno più arrabbiare.

Nicola Gervasini

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