martedì 1 marzo 2022

THE LATHUMS

 

The Lathums – How Beautiful Life Can Be

Islands Records, 2021

La stampa musicale inglese è storicamente specializzata nell’urlare debutti clamorosi che cambierebbero tutte le carte in tavola del mondo del rock (perlomeno britannico), salvo poi dimenticarsene presto, e c’è di buono che la pratica, particolarmente in voga negli anni Novanta, trova difficile attuazione ai giorni nostri. Immagino infatti che 30 anni fa l’esordio dei Lathums sarebbe stato salutato con titoloni, copertine e recensioni altisonanti che coglievano di sorpresa gli ascoltatori di un tempo, costretti dall’oggi al domani ad avere che fare con un nome nuovo e da scoprire assolutamente. Oggi invece i Lathums non sono una sorpresa, visto che già da tempo circolavano video e EP, ma insomma questo How Beautiful Life Can Be ha tutta l’aria di voler essere il loro primo passo importante. Guardatevi il video di Fight On o I’ll Get By per capire subito tutto: chitarre anni Ottanta con Johnny Marr nel cuore, batteria un po’ grossa come si usa ancora oggi, un po’ di spleen dark-80 rimodernato alla War On Drugs, ma una voce decisamente da indie-pop anni 2000. E, non ultimo, l’importanza del loro “non-look”, con il cantante Alex Moore che si presenta volutamente come il secchione a cui chiedevate i compiti da copiare a scuola, e che ironizza parecchio sul suo “non-physique du role” anche nei video. Insomma, mi immagino che per i giovani la band possa avere oggi lo stesso impatto di simpatia e ammirazione che ebbero gli Housemartins negli anni Ottanta, quando tra mille capelli iper-cotonati e vestiti sgargianti, quattro inglesi in abiti che ai tempi si definivano da “nerd” scalarono le classifiche con un video di un coro a cappella in chiesa. Oggi forse non c’è più bisogno di rompere troppi schemi estetici, visto che l’“understatement” dei frontman è uno degli elementi obbligati della indie-band moderna.  Modestia (falsa o no che sia) a parte, la band è quanto di più british ci sia capitato di sentire ultimamente, anche nei testi che cantano di una working class britannica che riesce a trovare il sorriso tra mille difficoltà, lavori che si perdono, amori idealizzati oltremisura (I'll Never Forget The Time I Spent With You) e pinte di troppo al pub. Fortemente sponsorizzati da Tim Burgess dei Charlatans (che si sentirà anche omaggiato dal loro stile), l’album è registrato nei Parr Street Studios di Liverpool sotto la guida dei produttori e Chris Taylor e James Skelly dei Coral, che hanno di non poco pulito il suono rispetto alle loro prime registrazioni (basta sentire la vena radiofonica dell’aperura di Circles Of Faith o il remake di un loro vecchio brano decisamente Smiths-dipendente come The Great Escape), lasciando però spazio libero alle chitarre di segnare il suono, che è giocato spesso sul jingle sound dell’elettrica di Scott Concepcion e l’acustica di Moore. Tante pop-song da cantare in macchina, con qualche momento di riflessione (la title-track) o divertenti divagazioni in zona Madness (I See Your Ghost). Nulla di nuovo, anzi, qualche giro pare davvero di averlo già sentito (non so se poi Paul Heaton li chiamerà per l’attacco tutto Housemartins di Oh My Love), ma in qualche modo il disco suona fresco e fa prendere una sana boccata di positività al mondo del pop inglese.

VOTO: 7

 

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