mercoledì 9 marzo 2022

PARQUEL COURTS

 

Parquet Courts - Sympathy for Life

Rough Trade, 2021

Credo che non esista discussione più inutile di quella che sta accompagnando il gran successo internazionale dei Måneskin, visti da qualcuno come una possibile rinascita del rock, inteso nel termine più stretto di musica “guitar-based”. Ovviamente il rock non è mai passato di moda, semmai è da tempo entrato in una fase di consolidata crociera della sua storia, e per illustrare il concetto credo che i Parquet Courts, band dal 2011 sulla breccia con moderato ma costante successo, siano un buon esempio da portare. Soprattutto perché il loro nuovo album Sympathy for Life dimostra quanto ormai sia veramente inutile suddividere culture un tempo più nettamente antagoniste come quella dei rockers da garage e quella dei dance-clubbers da nottata in discoteca (insomma, la lezione dei Primal Scream non è passata invano). Qui, infatti, i cambiamenti di un suono nato con ispirazione puramente rock (direi genere “post-Strokes”) dieci anni fa, che già si erano palesati nel precedente Wide Awale! (dove la presenza di Danger Mouse si faceva sentire), si trasformano in un ben più marcato cambio di direzione. Sempre di New York si tratta, solo che i quattro si fanno aiutare da varie collaborazioni a salire dalla cantina alla sala da ballo dei club della Big Apple. Non certo un atto rivoluzionario insomma (in fondo cambi di rotta simili li abbiamo sentiti negli ultimi anni da Beck o persino dagli Arcade Fire). Prodotto da Rodaidh McDonald (The XX e King Rule tra le sue collaborazioni più note, ma anche David Byrne si è avvalso dei suoi servizi), il disco era in verità pronto da prima della Covid-era, a parte un brano aggiunto (Marathon of Anger, brano dedicato al movimento Black Lives Matter) e due poi ritoccati nientemeno da John Parish, ma ovviamente un album del genere avrebbe avuto senso in tempi in cui ci si poteva accalcare nelle feste e non certo nell’isolamento del lockdown. Eppure, i brani proprio di quello parlano, con riflessioni su incomunicabilità e solitudine come Homo Sapien Applicatus Apparatus o la stessa title-track. Difficile dire subito se la svolta sia riuscita, sicuramente la band di Andrew Savage ha vinto con questo album la sfida di dimostrare di poter evolvere nel tempo e di non essere solo una mezza cover-band di modelli passati, ma è anche vero che qualcosa si è perso in termini di rabbia e vigore della loro musica. Che è rock pur non essendolo più, che non è morto neppure in questo mare di batterie programmate e bassi pulsanti (anche se il singolo Black Widow Spider è un delizioso e classicissimo power-pop ispirato a loro detta a On The Road Again dei Canned Heat), e quindi inutile fare distinzioni, al massimo segnalare che il gioco si fa un po’ ripetitivo esaurita la sorpresa e, seppur i testi siano tutt’altro che spensierati e superficiali, la scrittura delle canzoni non è quella da autore di primo livello. Per il resto i Parquet Courts almeno ci provano a trovare una sintesi al tutto, rendendo le discussioni tra partigiani della musica sempre più obsolete.

 

VOTO: 6,5

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