mercoledì 30 dicembre 2020

ODLA

 

Odla

Oltre il cielo alberatO

[Snowdonia 2020]

 File Under: Cantautori e detta schiera

Snowdonia.bandcamp.com

di Nicola Gervasini


Giovane e poliedrico (ha al suo attivo anche un libro di poesie), il trentino Odla approda alla Snowdonia (l’etichetta dei Maisie) beneficiando della loro passione per i progetti musicali nati con spirito letterario (e spesso accompagnanti da veri e propri libri) per il suo primo album Oltre il Cielo Alberato. Si tratta di un concept che prova a tracciare una linea parallela tra la storia personale dell’artista, fatta di tutte le problematiche in cui può facilmente incappare un ventisettenne italiano di oggi (depressione, delusioni amorose, frustrazione da lavoro precario e poca fiducia nel futuro) e la vita (questa invece immaginaria) di Hassan, bambino in perenne fuga dalla guerra, per cui la speranza rappresenta non più un lusso, ma una necessità. Nessun intento politico o polemico però nel confronto, ma solo una ricerca di un tratto comune esistenziale da esprimere nei versi di undici brani che si rifanno a quella nuova tradizione di cantautorato italiano con De Andrè e Fossati nel cuore, comunque figlia della storia scena indipendente italiana di questi anni 2000. Il suono, realizzato in collaborazione con il produttore roveretano V.Edo, è scarno e acustico, ma non mancano i diversivi come la quasi-tarantella di I Pescatori di Lete, impreziosita dal mandolino siciliano di Davide Prezzo. Diviso tra pezzi lenti e oscuri come Il Sogno di Una Madre ad altri anche più scanzonati e cantabili come Al Fuoco di Luna, Odla lavora bene anche sugli arrangiamenti, da quelli più da folk psichedelico anni 60 come All’Alba Una Terra a quelli con taglio più da canzone popolare (San Giuseppe da Copertino), anche se ovunque la base resta il suo arpeggio alla Leonard Cohen prima maniera.

domenica 27 dicembre 2020

NERO KANE

 

Home page

Informativa sull'utilizzo dei cookies in RootsHighway


Made in Italy   cose di casa nostra


Nero Kane

Tales of Faith and Lunacy

[BloodRock Records 2020]

 File Under: spiritual trip

nerokane.com

di Nicola Gervasini

Non è mai finito il viaggio dell’italiano Nero Kane attraverso i misteri della provincia americana, e se con il precedente Love In A Dying World, che vi avevamo presentato due anni fa, il viaggio attraversava i deserti americani anche come colonna sonora di un interessante cortometraggio, stavolta la tappa della sua profonda ricerca spirituale, pur partendo comunque da una tradizione d’oltreoceano, approda nell’Europa antica dei mistici cristiani (Metchild) e delle cupe atmosfere medievali che l’inserimento degli archi (il violinista è Nicola Manzan dei Bologna Violenta) ha portato nella sua musica. In ogni caso la formula resta quel suo tipico e originalissimo approccio decisamente psichedelico alla materia folk, qualcosa che ha rimandi all’America raccontata cinquant’anni fa dai Pearl Before Swine, ma venati della religiosità pagana dei testi, di vere e proprie preghiere gospel come Mary Of Silence e Magdalene, e passati al setaccio poi dall’oscurità del country di Johnny Cash (I Believe e Lost Was The Road) o dell’arte del racconto noir in musica creato da Nick Cave e poi da PJ Harvey nel corso del tempo (Angelene’s Desert). Lo accompagna, come al solito, la poliedrica Samantha Stella alla voce e alle tastiere, che, oltre ad essere l’autrice di alcuni dei testi, è anche la regista dei suoi suggestivi video, sempre in bilico tra sacro e profano. Lo è ad esempio anche il bianco e nero scelto per il lancio del nuovo singolo Lord Won’t Come In, dichiarato omaggio al regista Bela Tarr. In ogni caso ancora una volta un prodotto multimediale che andrebbe apprezzato anche nelle loro performances dal vivo. Il disco, prodotto da Matt Bordin, è distribuito anche nelle versioni in vinile (Nasoni Records) e musicassetta (Anacortes Records).


mercoledì 23 dicembre 2020

ADRIANNE LENKER

 


  

 

Adrianne Lenker
Songs/ Instrumentals
[4AD 2020]

 Sulla rete: adriannelenker.com

 File Under: The Massachusetts campfire tapes


di Nicola Gervasini (26/11/2020)


Il 2019 è stato senza dubbio l’anno dei Big Thief, capaci di finire in tutte le classifiche annuali con ben due dischi realizzati a pochi mesi di distanza (U.F.O.F. e Two Hands), due facce di una band che, pur non inventandosi nulla, ha portato una ventata di freschezza in quel territorio a metà tra musica delle radici e freak-music degli anni 2000 (che a chiamarla “indie” ormai si diventa anche troppo generici). Il 23 febbraio 2020 ero uno dei tanti nuovi fans che attendevano di vederli sul palco a Milano, anche per testare il loro vero spessore, ma quello fu proprio il primissimo concerto a dover essere annullato per la scoperta dei primi malati di Covid19 a Codogno, per cui dovremo attendere perlomeno il prossimo anno per riprovarci.

Per loro il 2020 doveva essere un anno di concerti e pause di riflessione, ma vista la forzata inattività, la cantante Adrianne Lenker ha trovato tempo per registrare un doppio album. Innanzitutto va ricordato che la carriera solista della Lenker esiste fin dal 2005, e che quando ha dato vita ai Big Thief nel 2015 aveva già dieci anni di vita da musicista professionista sulle spalle, con all’attivo due album autoprodotti, e un vero e proprio esordio (Hours Were the Birds del 2014) uscito per la Saddle Creek, la stessa etichetta che ha poi pubblicato nel 2018 Abysskiss, album che era rimasto nel cassetto proprio per gli impegni con i Big Thief. Songs/Instrumentals è composto da due dischi teoricamente indipendenti, nati in un volontario isolamento in una casetta in Massachusetts, con la Lenker che suona e canta in solitaria e con una produzione decisamente lo-fi. Le undici canzoni che formano il primo disco sono quanto di più aderente alla tradizione delle folksinger di fine anni 60/primi 70, e penso sia a quelle più classiche come Anne Briggs che alle più coraggiose come Judee Sill. Addirittura, il singolo Zombie Girl ha una melodia da vera folks-song da Greenwich Village (e ricorda vagamente Mr Tambourine Man).

Volutamente vintage è anche il modo di registrare la voce, con quella lontananza tipica delle registrazioni di un tempo, in verità risultato di una registrazione fatta con un walkman e un missaggio gestito in casa con un registratore a otto piste. Di suo Adrianne ci mette una scrittura con testi molto personali, piccoli flussi di coscienza di una donna chiusa in ritiro con il partner, che ricordano non poco la poetica della prima Joni Mitchell. Decisamente più ostico, ma a suo modo molto affascinante, il disco di strumentali, che sono solo due lunghi brani (Music for Indigo e Mostly Chimes) nati per trovare un perfetto connubio tra la musica prodotta nel voluto esilio e la natura che circondava la casa, che si fa sentire tra fruscii e uccellini nel mezzo di lunghe improvvisazioni chitarristiche. Ovvio che il risultato è qualcosa che necessita una vostra predisposizione mentale alla riflessione e a una musica da ascoltare a occhi chiusi con le cuffie per non perdersi nulla di un mondo lontano.

Mancano qui le strutture complesse create con i Bg Thief, ma per quelle attendiamo volentieri, ora forse è il caso di fare tutti un po’ silenzio, e questo disco è proprio quello che ci vuole per zittirci tutti in questo mare di parole inutili che questo anno disgraziato ci ha portato.


domenica 20 dicembre 2020

DEAD FAMOUS PEOPLE

 


  

 

Dead Famous People
Harry
[Fire records 2020]

 Sulla rete: deadfamouspeoplefire.bandcamp.com

 File Under: Old Zealand


di Nicola Gervasini (12/11/2020)


La storia dei Dead Famous People ha origini lontane, addirittura nel 1986, quando ad Aukland, in Nuova Zelanda. Dons Savage e Elizabeth (Biddy) Leyland fondarono il quintetto. Qualcuno magari si ricorda la loro versione di True Love Leaves No Traces di Leonard Cohen contenuta in uno dei primi tribute-records dedicati al canadese (I’m Your Fan del 1991), oppure il loro disco di esordio del 1989 Arriving Late in Torn and Filthy Jeans, fortemente voluto da Billy Bragg, che lo fece uscire per la sua Utility. Harry è però soltanto il terzo album della band (il secondo, Secret Girls Business, uscì nel 2002), perché i due negli anni hanno avuto tante pause, ma sono stati comunque semore attivi, anche con collaborazioni di rango (la voce di Dons Savage si può sentire in alcuni brani dei Saint Etienne e dei Chills).

Sarà forse per questo che Harry, disco realizzato grazie alla Fire Records, suona davvero come un freschissimo disco di power-pop degli anni 80, in cui la scuola Elvis Costello (l’organetto che segna l’iniziale Looking At Girls è tutto suo, e Dog addirittura potrebbe appartenere a Graham Parker) e quella di tutto il college-rock di quel decennio, si fonde con lo spirito indie degli anni 2000. E così i fiati e campanelli di perfette pop-song come Safe and Sound Turn On The Light fanno ben capire come si è arrivati nel tempo a certe ariose aperture pop di Belle And Sebastien, così come il piglio puramente pub-rock di Goddes of Chill ricorda quanto la filosofia della chitarra jingle-jangle resti la colonna portante di tutto un mondo indie-pop. Ovvio che nel 2020 sia tutto un “già sentito”, perché poi forse basta prendere un disco dei Sundays dei primi anni 90 o degli Shins nei 2000 per ritrovare gli stessi sapori, ma qui abbiamo dei veterani che semplicemente cercano di riprendersi qualche onore perso per strada in una carriera a singhiozzo.

E allora prendete una ballata come Dead Birds Eye, immersa in una costruzione armonica fatta di cori, organi e chitarre e un basso che governa il tutto, e vi rendete conto di quando l’arte dell’arrangiamento pop, al limite del wall of sound di Phil Spector, è qualcosa che pochi sanno maneggiare con destrezza, evitando quindi lo stucchevole. Harry è un disco che prende fin dal primo ascolto, non cerca di complicarsi la vita con canzoni troppo intricate (Groovy Girl sa di brano scritto in due minuti, ma funziona alla grande forse proprio per quello), ma ha comunque sostanza anche nella scrittura (l’intensa The Great Unknown con il suo cambio di passo improvviso è veramente un piccolo manuale in tal senso), arrivando anche con la title-track finale a toccare corde melodiche da pop anni 80 alla Aztec Camera o Prefab Sprout.

33 minuti il minutaggio finale, non uno di troppo, e se non è Harry il disco che cambia le sorti di questo infausto 2020, sicuramente lo rende più allegro e sopportabile.


martedì 15 dicembre 2020

HUGO RACE

 


  

 

Hugo Race and The True Spirit
Star Birth/ Star Death
[Gusstaff records 2020]

 Sulla rete: hugoracemusic.com

 File Under: We Shall Overcome


di Nicola Gervasini (02/11/2020)


Artista da sempre votato a una lunga serie di progetti e collaborazioni, Hugo Race torna dopo cinque anni a riunire la sua band principale, i True Spirits, dopo i grandi onori ricevuti dall’ottimo The Spirit del 2015. È singolare notare che se il loro esordio arrivò negli anni della caduta del Muro di Berlino, forse il momento più permeato di ottimismo sul futuro della storia del secolo scorso, questa loro quindicesima fatica, intitolata Star Birth (che esce direttamente con un cd di bonus tracks strumentali intitolato Star Death), nasce invece in uno dei momenti più cupi, e cioè tra gli incendi apocalittici che hanno devastato l’Australia e l’esplosione della pandemia del Covid-19.

Registrato a Melbourne tra il 2019 e il 2020 nel pieno di un inferno, il disco riflette quindi l’inevitabile pessimismo suggerito dalla situazione. Sospeso a metà tra le sonorità che da sempre lo caratterizzano, nel guado tra il dark-roots dei Walkabouts e ovviamente la scuola Nick Cave & The Bad Seeds da cui proviene, l’album ingloba anche tutte le altre strade intraprese, siano esse il side-project dei Dirtmusic creato con Chris Eckman, o la curiosa rilettura del songbook di John Lee Hooker creata tre anni fa con l’artista molisano Michelangelo Russo, ormai considerato parte integrante del combo, e che incide non poco nel nuovo suono della band con le sue sperimentazioni elettroniche. Il primo brano, Can’t Make This Up, è una sorta di lugubre rap dal testo oscuro ma con un finale positivo (We did overcome…), e se 2dead2feel è un brano che rispetta in pieno la sua marca stilistica, la ballata Darkside è un superbo testo che ricorda molto le sue cose più roots-oriented fatte con i Fatalists (recuperato l’album dello scorso anno Taken by the Dream).

Embryo riporta invece il discorso su binari più sperimentali, una danza indiavolata che viene stoppata dall’evocativa Heavenly Bodies, che fa da introduzione ad una Only Money che pare uno dei piccoli pensieri a ruota libera di Leonard Cohen, e presenta un arrangiamento decisamente accattivante, in cui confluiscono un po’ tutti i sapori della sua musica. Holy Ghost è forse il brano centrale come testo (da qui arriva anche il titolo del disco), con una visione che parte alquanto negativa (“lo spettacolo non può andare avanti, il Sole ululò alla Luna, un nuovo giorno non verrà”). Il breve spoken United riflette invece sulla possibilità di trovare un modo comune ad uscire dalla tragedia, citando il noto motto “United we stand, Divided we fall” che fu ripreso anche da Winston Chuchill, una piccola introduzione alla più minacciosa Expendable (”ehi fratelli, siamo tutti sacrificabili? Non c'è nessun paradiso non c'è nessun inferno, tutto quello che abbiamo è qui e ora, gente”), brano che si congiunge alla perfezione agli ultimi due per atmosfera e ritmo (The Rapture e Where Does It End).

Il secondo cd Star Death è invece una sorta di fotografia sul work in progress dei brani (ma con qualche titolo diverso), con pieno spazio alle velleità da kraut-rock del duo Michelangelo Russo e Nico Mansy. “In modo silenzioso combatto le mie piccole guerre, in cento modi muoio un po 'di più” canta in Everyday Hugo Race, autore di un disco solo apparentemente soffocante, ma intriso di una fiducia che si fa spesso semplice ricerca di una via di uscita e di una speranza.


domenica 13 dicembre 2020

JOAN OSBORNE

 


  

 

Joan Osborne
Trouble and Strife
[Womanly Hips/ Goodfellas 2020]

 Sulla rete: joanosborne.com

 File Under: There’s a Riot Going On


di Nicola Gervasini (07/10/2020)


Ho conservato grande stima per Joan Osborne e la sua storia artistica. Certamente il mondo la ricorderà sempre per One of Us, l’hit scritta da Eric Bazilian degli Hooters che nel 1995 fece vendere quasi 4 milioni di copie dell’album Relish. Che sì, resta il suo disco più importante e memorabile, ma la storia dice che dopo averci messo cinque anni a produrre un seguito troppo schiavo delle leggi di mercato come era Righteous Love, la Osborne ha vissuto gli anni 2000 suonando la musica che più le piaceva, mantenendo un livello comunque sempre più che dignitoso.

Trouble and Strife
 (letteralmente significa “problema e conflitto”, ma è una espressione idiomatica inglese che si usa per definire, in maniera non del tutto “politically correct”, una moglie particolarmente arcigna e rompiscatole) è il suo dodicesimo album, e arriva a sei anni di distanza dall’ultimo disco scritto più che altro di suo pugno (il quasi ignorato dai più Love and Hate del 2014), con l’arduo compito di capitalizzare il rinnovato interesse nei suoi confronti suscitato da Songs of Bob Dylan del 2017, cover-record che ottenne il miracolo di farsi notare pur presentando una materia certo non innovativa come un disco dedicato a Mr. Zimmerman. La stima di cui sopra deriva dal fatto che mai nella sua carriera ha ceduto alla tentazione di rifare un nuovo Relish, ma dopo essere stata un po’ esclusa dal grande giro, ha fatto scelte coraggiose.

E coraggioso lo è sicuramente Trouble and Strife, album che affronta con anche una certa tagliente ferocia argomenti di politica e crisi sociale del mondo americano a suon di new soul (Take It Any Way I Can Get It) e funky (What’s That You Say), ma non solo. Musicalmente il disco infatti è un collage esattamente come la sua copertina, in cui elementi blues (Hands Off), soul-pop alla Dusty Springfield come Never Get Tired (Of Loving You), con i suoi sintetizzatori vintage, la puramente dylaniana title-track, o classicissime black-ballads come Whole Wide World, convivono alla perfezione. Certo, non aspettatevi da Joan il colpo di genio a sorpresa, lei è soprattutto una interprete che si cimenta nella scrittura con passione e una certa naïveté, ma dopo un ventennio di sonno in termini di dischi “politici”, il fatto che pure un’artista che di certo non si pone come una maestra di pensiero sociale come la Osborne senta il bisogno di fare un disco del genere, la ritengo una cosa positiva nell’ottica di una rinascita del ruolo civile della musica (un indiretto ringraziamento andrebbe forse a Mr. Trump).

Autoprodotto e anche auto-distribuito tramite la sua label personale, il disco si avvale della collaborazione di validi musicisti come il tuttofare Nick Govrick e il tastierista Keith Cotton, oltre all’ormai fidato chitarrista Andrew Carillo.


mercoledì 9 dicembre 2020

DELTA SPIRIT

 


  

 

Delta Spirit
What Is There
[New West 2020]

 Sulla rete: deltaspirit.net

 File Under: Searching for the Spirit


di Nicola Gervasini (29/09/2020)


Più che “seguirli”, i Delta Spirit noi di Rootshighway li “inseguiamo”, a vista e di nascosto, nella speranza di non dover ammettere di aver preso un granchio dieci anni fa. Non che non esistano nella storia parecchi gruppi in grado di fare il buon disco per poi perdersi nel tragico tentativo di fare per forza di meglio, ma con loro abbiamo sicuramente un conto aperto. Era il 2010 quando il loro secondo album, History From Below, ci piacque parecchio, quasi una diversa versione dei My Morning Jacket ancora più vicina ai nuovi linguaggi del mondo indie. Vado a rileggere la recensione che scrissi ai tempi, con un prudente 7,5 che poteva anche essere un 8, e un finale di confronto con Okkervil River e Felice Brothers, band che oggi vantano una lunga ed encomiabile carriera quasi senza passi falsi, al contrario di loro che invece non si sono più ripetuti.

O, peggio, hanno stravolto la loro formula di hippie-music moderna in favore del pop barocco freddo e geometrico degli album Delta Spirit (2012) e Into The Wide (2014). Paradossalmente dischi che hanno avuto anche un certo successo di vendite rispetto ai primi due (il debitto era Ode To Sunshine del 2008), e molti ci assicurano che sul palco la band non aveva perso in capacità di mostrare i mille colori d’una tavolozza musicale nata stilisticamente nella California del Flower Power degli anni Sessanta. Ma evidentemente Matthew Vasquez ha avuto bisogno di ricaricare le pile se è vero che questo quinto album, What Is There, esce a sei anni di distanza dall’ultimo, con un cambio significativo di etichetta che li accasa nella patria della “roots-music-che-vende-ancora-qualche-cosa” della New West. In verità lui non si era fermato (tre album solisti tra il 2016 e il 2019), ma questo nuovo lavoro sembra voler riprendere la dimensione di band-collettivo con i compagni Kelly Winrich Jonathan Jameson, Will McLaren e Brandon Young, e ritrovare lo spirito fresco e naif degli esordi.

Purtroppo il risultato, sebbene veda un encomiabile sforzo compositivo volto a cercare brani che possano risultate interessanti in qualsiasi veste li si presenti (la title-track che chiude l’album, così come le ottime Home Again o Just The Same), è ancora lontano dai migliori auspici. E se la sovraproduzione che rendeva stucchevoli i due dischi precedenti qui fortunatamente viene tenuta a bada, resta però una generale sensazione di suono di “plastica” che non rispetta per nulla quello esibito nei loro concerti. Insomma, What is There sembra cercare la genuinità degli esordi (lo producono loro stessi forse proprio nell’intento di trovarla), ma si continua a barcamenare tra brani un po’ troppo di facile presa come Better Now Lover's Heart e altri semplicemente minori come Can You Ever Forgive Me?. Ne risulta quindi che possiamo continuare a considerare i Delta Spirit un buon gruppo da seguire, se mai potremo vederli dal vivo, ma la cui personalità e originalità si è un po’ persa nella disperata ricerca di un qualcosa che forse non si erano neanche accorti di avere trovato subito al secondo album, e non era una fortuna da buttare così al vento.


venerdì 30 ottobre 2020

X

 

   
 

X
Alphabetland

[Fat Possum 2020]

 Sulla rete : xtheband.com

 File Under: the unheard music


di Nicola Gervasini (31/08/2020)


Son passati 40 anni esatti dall’uscita di Los Angeles, uno degli esordi più fulminanti e meno invecchiati del rock californiano dell’epoca, vera e propria Stele di Rosetta per capire tutto il rock sotterraneo USA degli anni 80, eppure siamo ancora qui oggi a recensire un disco degli X. Non me l’aspettavo devo dire, anche se la reunion dei Flesh Eaters dello scorso anno aveva già fatto capire che John Doe e il batterista DJ Bonebrake erano in vena di rimpatriate. La seconda era della band d’altronde aveva lasciato un po’ di amaro in bocca dopo quattro album senza difetti, a causa del disperato tentativo di aggiornare un sound probabilmente inaggiornabile, prima abbracciando le tastiere degli anni 80 (Ain’t Life Grand del 1985), poi facendosi guidare da Dave Alvin nel mondo della roots music con il comunque convincente See How We Are del 1987, e infine con il disastro di Hey Zeus!, cioè come suonare già vecchi nel 1993, anno in cui davvero succedeva di tutto nel rock, e non approfittarne fu davvero un sacrilegio.

Nel frattempo John Doe si è costruito una più che soddisfacente carriera da rocker americano di razza, dimostrando che l’episodio via-Dave Alvin non era un caso, ma una regola futura, mentre Exene Cervenka, dopo due discreti album quasi da cantautrice come Old Wives’ Tales e Running Sacred, ha fatto più fatica a trovare una sua regolarità artistica. Gli X si riuniscono dopo 27 anni dall’ultimo album (ci fu un singolo natalizio del 2009 a rompere il silenzio), ma ben 35 dall’ultima uscita con questa formazione, che vede quindi tornare in squadra il chitarrista Billy Zoom, di nuovo in sella nonostante abbia passato gli ultimi anni tra una chemioterapia e un’altra. Ma la vera sorpresa è che Alphabetland pare davvero ripartire da zero, suona come se fosse il loro terzo album uscito appena dopo Wild Gift del 1981, e se ormai non ci si meraviglia più di quanta energia si possa ancora avere a settant’anni, impressiona però sentire un disco che pare registrato davvero in uno scantinato della Sunset Strip di Los Angeles da una banda di ragazzini con tanta rabbia in corpo da sfogare.

Insomma, l’aria di revival tira più sulla carta che in canzoni come la pogo-song Delta 88 Nightmare o Star Chambered, dove l’alternarsi delle voci di Doe e della Cervenka ritrova l’antica intesa. Stavolta non c’è ovviamente lo scomparso Ray Manzarek in cabina di regia, e allora si invita Robby Krieger a dare il suo inconfondibile tocco-Doors allo spoken finale di All the Time in the World, brano che fa l’occhiolino al talking di Jim Morrison in The Wasp (Texas Radio & the Big Beat). Ma il vero artefice della riuscita dell’operazione è il produttore Rob Schnapf, l’uomo dietro molti titoli del compianto Elliott Smith, capace di rendere il suono X decisamente attuale anche a quarant’anni di distanza, come dimostra l’uno-due iniziale di Alphabetland e Free. Billy Zoom pare in gran forma, anche se non c’è un solo riff che non suoni già sentito, con pochissime variazioni sul tema (la danzereccia Cyrano DeBerger’s Back, un vecchio scarto proprio di Los Angeles), giusto per tirare a 27 minuti di un rock che forse può ancora dire qualcosa anche alle giovani generazioni.

martedì 27 ottobre 2020

THROWING MUSES

 BY  · SET 4, 2020

Il lungo cammino delle Throwing Muses fino a Sun Racket.

Il tempo passa per tutti, e così realizziamo che le Throwing Muses (mi prendo la libertà di declinarle al femminile, anche se non tutti i membri sono donne) l’anno prossimo compiranno 40 anni di attività. Le sorellastre Kristin Hersh e Tanya Donnelly iniziarono infatti sul finire del 1981 con il nome di “Kristin Hersh and the Muses”, prima di mutare il nome in quello attuale nel 1983, ed esordire poi nel 1984 con l’ep Stand Up. Non è stata una storia continuativa la loro, tanto che questo Sun Racket, loro decimo album, va a rompere l’ennesimo lungo silenzio (il precedente Purgatory/Paradise è del 2013) per la necessità della Hersh di seguire i propri progetti solisti.

Recensione: Throwing Muses – Sun Racket

Fire Records – 2020

Tanya Donnelly si è ormai chiamata fuori da tempo (qualche coro nell’omonimo album del 2003 è il suo ultimo contributo alla band), e così la sigla è ormai ridotta ad un trio, dove la sessione ritmica di Bernard Georges e dello storico batterista David Narcizo sono ormai solo un supporto alle idee della Hersh. Che ultimamente sfoga una rinnovata voglia di chitarre e rock, presentandoci così un disco roccioso e muscolare nel suono (ma non nei ritmi), corredato al solito dalla scrittura comunque di impostazione folk di Kristin.

Kristin Hersh è l’anima delle Throwing Muses e di Sun Racket

Il risultato è un album che sa fortemente di primi anni novanta, come dimostra già subito l’iniziale Dark Blue, con le sue asprezze da rock alternativo. Bywater e Maria Laguna però fanno capire che il tema del disco saranno le lente ed ipnotiche ballate della Hersh, mai banali, e solo in pochi casi concilianti nella melodia (forse solo la finale Sue’s, con il suo pianoforte a contrappuntare le strofe, concede qualche cosa in orecchiabilità), ma spesso improntate su un canto lisergico e allucinato che sarebbe piaciuto alla Kim Gordon dei Sonic Youth di un tempo.

Altrove Bo Diddley Bridge o la breve e percussiva St Charles ripartono là dove i Pixies si erano interrotti nella loro prima gloriosa fase, mischiando sapori da garage-rock, riff antichi, e molta attenzione comunque anche sulla scrittura della canzone.

Datato ma solido. Come il rock

Un mix che le Throwing Muses ripropongono senza concedere nulla alla musica degli anni 2000, evitando quindi le nostalgie degli anni ottanta o le leggerezze indie in voga in questi ultimi anni, ma badando al sodo con brani come la sofferta Frosting, che forse 30 anni fa avremmo anche chiamato avanguardia, ma che oggi suona come potevano suonare i Rolling Stones negli anni 90, sempre uguali a sé stessi, eppure in fondo ancora al passo con i tempi. Abbiamo forse smesso di aspettarci dalle Throwing Muses il disco importante, e i tempi in cui album come Red Heaven o University finivano abbastanza in alto nelle classifiche sia UK che USA sono lontani, ma Sun Racket dimostra quanto abbiano deciso di invecchiare bene con il loro ormai vecchio rock.

venerdì 23 ottobre 2020

ROBERT JON & THE WRECK

 

  
 

Robert Jon & The Wreck
Last Light on The Highway

[Robert Jon Music 2020]

 Sulla rete: robertjonandthewreck.com

 File Under: travellin' band


di Nicola Gervasini (25/08/2020)


Strade e cieli stellate, l’esistenza raminga del sud degli Stati Uniti come way of life, la gomma bucata del Van in copertina come simbolo della voglia di superare ogni ostacolo pur di suonare la propria musica. Parlano chiaro fin dall’immagine di copertina Robert Jon & The Wreck, logico quindi aspettarsi fin dal primo brano una ballata di cara vecchia southern music come Oh Miss Caroline, con il suo ritmo blando, la sua epica a pacchi nel testo e nel coro da grandi spazi, e l’aggiunta di assoli di chitarre taglienti. Insomma, l’ennesima band che conferma che se certa blue-collar music urbana fa ormai sempre più fatica a trovare nuovi convincenti eroi, la musica rurale del sud invece persevera nel rigenerarsi in nuove realtà (penso agli Steel Woods, per esempio), che si guardano bene dallo spostare una qualsivoglia riga o regola grammaticale scritta a suo tempo dagli Allman Brothers Band, dai Lynyrd Skynyrd, o in questo caso metterei anche i Marshall Tucker Band.

Non si distinguono certo in originalità quindi neanche Robert Jon & The Wreck, combo attivo senza soste e cedimenti da una decina d’anni, composto da Andrew Espantman alla batteria, Steve Maggiora alle tastiere, Henry James alla chitarra e Warren Murrel al basso. Last Light on the Highway è un disco che dimostra quindi il buono stato di salute di quel sound, e ovviamente riceve un nostro semaforo verde presupponendo che è quello che cerchiate, visto che resta un prodotto buono solo per i cultori di nicchia e siamo ben lontani dalla possibilità che possa succedere quello che erano riusciti a fare i Drive By-Truckers negli anni Duemila, e cioè far ascoltare musica southern-rock anche ad un pubblico abituato a ben altro. Robert Jon Burrison comunque sa il fatto suo, indulge forse troppo spesso nell’escamotage della ballata sudista (Tired of Drinking AloneGoldOne Last Time, This Time Around) ma senza mai in fondo sbagliarne una, e dimostra di saper anche pensare in grande con la suite finale in due parti di Last Light on the Highway, tra orchestrazioni elaborate e chiari echi degli Eagles di The Last Resort.

L’album trova i punti più interessanti proprio nei momenti più melodici, perché quando Jon dà spazio al blues e alle chitarre, invade territori dove ancora non impensierisce band come i Gov’t Mule (Don’t Let Me Go), o segue con eccessiva fedeltà lo schema della soul -song sudista alla Eddie Hinton (Work It Out). In ogni caso se sognate di trovare ancora registrazioni in stile Capricorn Records passate pure di qui, nel 2020 sapere che questa musica è ancora viva fa comunque bene al cuore.


lunedì 19 ottobre 2020

GIANT SAND

 

 

 

Giant Sand
Ramp (Record Store Day Edition)

[Fire records 2020]

firerecords.com

 File Under: rock & dust

di Nicola Gervasini (11/06/2020)

Nelle interviste rilasciate all’epoca dell’uscita dell’album Ramp dei Giant Sand (era il 1991), il leader Howe Gelb ebbe a definire ironicamente i suoi collaboratori come “una jazz-band, ma senza il talento”, un po’ per giustificare lo scherzo strumentale di Jazz Sniper che apriva la seconda facciata, ma quasi più a voler sottolineare che il risultato era frutto di tanta improvvisazione. Ramp, album che esce in una nuova edizione ampliata per il Record Store Day del 28 giugno 2020, fu un disco spartiacque nella storia della band, fino a quel momento ancora legata ad un’idea di roots-rock anni Ottanta alla Green On Red (Neon Filler qui è ancora Dan Stuart-style al 100%) o Rain Parade. Il disco, infatti, omaggiava il rock americano più radiofonico, quasi un fratello di Huevos dei Meat Puppets nel provare a incastrare la lezione degli ZZTop nelle maglie di un suono da alternative-rock dei bassifondi (e qui Z.Z.Quicker arriva a citare direttamente la band di Billy Gibbons).

Se l’apertura di Warm Storm, con il suo "big drum sound" e le sue veementi chitarre da FM-rock è ancora legata al decennio precedente, lo stile da desert-rocker, che caratterizzerà il suono dei Giant Sand nei successivi anni Novanta (vi rimando alla recensione della ristampa di Glum del 1994 a tal proposito), comincia ad affiorare in episodi come Resolver (siamo già in zona Calexico, in grande anticipo) o nei country-rock più tradizionali come Seldom Matters o Nowhere, cominciando a far presagire il cambio di rotta operato con il successivo Center of The Universe del 1992. Altrove Romance of Falling, con le sue chitarre distorte, sembra un brano dei Dream Syndicate, con la voce della moglie di allora di Gelb, Paula Jean Brown (era una delle Go-Go’s di Belinda Carlise), in grande evidenza, mentre nella (s)ballata country Wonder interviene Victoria Williams. Il blues sbilenco di Anti.Shadow comincia invece a vedere il perfezionarsi del team ritmico formato da Joey Burns (che esordiva in formazione proprio in occasione di questo album) e John Convertino.

È anche l’album che fa entrare nel giro Giant Sand lo strambo cowboy Poppy Allen, personaggio di cui Gelb si innamorò talmente tanto da fargli cantare spesso un brano negli album che verranno (qui è Welcome To My World), e forse l’ultimo loro disco dove le chitarre suonano così fortemente in primo piano (a dare manforte c’erano anche Rainer Ptacek e Duane Jarvis). Interessante anche il secondo disco di bonus tracks (Mad Dog sessions), con un primo lato del vinile caratterizzato da tre lunghe jam che dimostrano sempre più come il cambio di rotta già scorreva nelle vene. E se Trickle Down System e lo spoken jazzato Bible Black, Book II tradiscono la loro natura di prova da studio rimasta allo stato grezzo, la bella Back To The Black And Grey non avrebbe stonato come finale del disco originale al posto dell’interlocutoria Patsy’s Blues. Chiudono gli inediti una interessante Still Too Far, una seconda versione lunga e rallentata “alla Neil Young” di Romance of Falling, e due brani (Can’t Find Love e Shadow To You) segnati da chitarre in presa diretta e in piena libertà, con totale assenza di post-produzione.

Non è forse il disco che più si ricorda dei Giant Sand questo Ramp, inesorabilmente legato al suono dell’epoca, e senza quel piglio avanguardistico che renderà l’opera di Gelb più attuale negli anni a venire, ma resta pur sempre un bel disco di un rock americano oggi un po’ in via d’estinzione.

venerdì 16 ottobre 2020

PAUL WELLER

 

   
 

Paul Weller
On Sunset

[Polydor 2020]

paulweller.com

 File Under: The Lounge Father

di Nicola Gervasini (16/07/2020)


Quando sei Paul Weller, uno che la stampa britannica ha soprannominato The Modfather, indiscusso punto di riferimento di un modo di essere british a tutto tondo, è logico che non hai più nulla da dimostrare. Ogni sua uscita discografica (e lui, bene o male, non si è mai concesso grandi pause) è sempre salutata con devozione e rispetto dai fans della musica inglese come di quella americana, perché Paul è uno che può anche sbagliare una canzone, ma non esiste un suo album che non proponga qualcosa di intrigante e interessante, o semplicemente non insegni stile a tutte le generazioni più giovani. Da tempo si sottolinea come anche i tempi del capolavoro Stanley Road siano ormai lontani, e che a partire da 22 Dreams (era il 2008) il nostro stia un po’ oscillando tra tanti esperimenti stilistici che non sempre hanno colpito nel segno, come il caso del non memorabile Sonic Kicks del 2012. Ma se un momento di calo c’è stato, è anche vero che da Satturn Patterns (2015) si respira aria di rinnovato vigore e ispirazione, ancora non asservita a quella semplice riproposizione dei propri vecchi schemi, quella che ti aspetteresti da un sessantaduenne.

Lo conferma anche On Sunset, suo quindicesimo album solista mal presentato da una orrenda copertina, purtroppo funzionale ad essere vista in piccolo sui canali streaming, ma che a differenza del monoliticamente rilassato True Meanings del 2018, rigioca la carta della varietà. La lunga Mirror Ball infatti è messa lì in apertura con il chiaro intento di spiazzare l’ascoltatore, con le sue tastierine dance-pop e una costruzione del tutto atipica, un brano che parrebbe anche una convincente risposta alle uscite di confine del Beck più recente. Ma la sequenza successiva mischia subito il mazzo e distribuisce carte che trasudano la sua musica di un tempo, dal soul tutto fiati di Baptiste e di Old Father Thyme, alle stilose ballad Village e More (quest’ultima con la voce di Julie Gros dei Le SuperHomard, e forte di una coda strumentale che vede un bellissimo scontro tra fiati, archi e chitarre che rappresenta il momento musicalmente più esaltante del disco).

La title-track cambia ancora toni, ricerca gli Style Council più “stilosi” che furono, e ancora una volta gioca su arrangiamenti di archi e fiati quasi alla Lee Hazlewood, mentre le svogliate marcette pop di Equanimity e Walkin’ sono forse “cosette” un po’ ovvie e risapute per uno come lui, anche se, pure in occasione di brani “minori”, l’attenzione all’arrangiamento e ai particolari è davvero encomiabile, nonostnate qualcuno abbia già parlato di eccessi e sovraproduzione. A questo punto il singolo Earth Beat, che a marzo aveva anticipato il disco, pare davvero un po’ un pesce fuor d’acqua con le sue atmosfere dance, e la ballata Rockets risolleva un finale in tono minore di un album che comunque conferma il suo buon stato di forma, e una facilità a trovare il ritmo, il suono o la melodia giusta, che resta uno dei più grandi patrimoni di sempre della musica britannica.


Paul Weller – More (da “On Sunset”)

 

Quasi setti minuti, Burt Bacharach e Lee Hazlewood che fanno una uscita a coppie con Dionne Warwick e Nancy Sinatra, l’eleganza musicale degli anni 60 insomma. Era questo che inseguiva Paul Weller con More, aiutato dalla voce di Julie Gros dei Le SuperHomard, ma arrivato al minuto 3.30, con la canzone ormai finita, lui ci ha messo una coda fatta di classe pura, con dialoghi tra archi, fiati e chitarre che fanno capire perché rifare una “sixties-lounge-pop-song” è cosa alquanto di moda in questi anni 2000, ma con lui siamo davvero nella modernità e non nel mero vintage.

 

Nicola Gervasini

 


lunedì 12 ottobre 2020

JASON MOLINA

 

   
 

Jason Molina
Eight Gates

[Secretly Canadian/ Goodfellas 2020]

 Sulla rete: secretlycanadian.com

 File Under: The Piper at the Gates of Dawn


di Nicola Gervasini (06/08/2020)


Paradossalmente uno dei torti più grandi fatti a Jason Molina (o ai suoi tanti moniker, da Songs:Ohia a Magnolia Electric Co.) è stato quello di insistere spesso sul suo debito artistico con Neil Young, complice una reale e innegabile influenza, certo, e un modo di cantare che ovviamente lo ha ricordato molto in alcuni album. Eppure Molina oggi può tranquillamente essere visto come la colonna portante di tutta la musica messa sotto la voce “indie-folk“ (al pari di un Will Oldham, un Bill Callahan, o un Mark Kozelek) prodotta perlomeno dalla metà degli anni Novanta ad oggi, e sicuramente non può essere solo un buon seguace colui che segna la via ad una enorme schiera di giovani artisti.

La storia di Molina è purtroppo finita nel 2013 con la sua tragica scomparsa, ma sebbene non abbia mai avuto un seguito tale da giustificare il raschiamento del barile che stiamo vedendo per grandi nomi come David Bowie o Prince, la sua etichetta storica, Secretly Canadian, si sta prodigando a ricercare nei suoi cassetti progetti che valga la pena di rendere pubblici. Lo è sicuramente questo Eight Gates, album abortito e rimasto dunque incompleto più di dieci anni fa, con un totale del minutaggio che arriva a 25 minuti (siamo quasi in zona EP insomma, anche se i brani sono nove). Il progetto, tra l’altro, era anche importante, nato nel 2008 quando Jason rimase a Londra per curarsi da un fantomatico morso di ragno subito in Italia (per il suo medico frutto della sua fantasia malata, ma lui reagì assumendo dosi ingenti di farmaci in pieno delirio ipocondriaco). In quei tempi di isolamento, Jason decise di prendersi dei giorni per sé per elaborare un nuovo disco che doveva essere una sorta di concept dedicato alla capitale britannica, vista però a modo suo.

L’ottava porta del titolo infatti era quella che, nella storia, si era immaginato aver aperto lui stesso all’entrata di Londra (che, come è noto, ha sette ingressi storici). I nove bozzetti che registrò appaiono davvero straordinari per intensità, dove a risaltare è proprio la voce di Jason, mai così pulita probabilmente, accompagnata quasi soltanto da un organo, una chitarra acustica e un bellissimo violino. È un disco con un suono oscuro e lisergico, che riporta a certe produzioni degli anni Sessanta, se è vero che Thistle Blue addirittura ci riporta ai tempi di Starsailor di Tim Buckley, She Says e Old Worry cercano ancora Syd Barrett, e la dolce The Misson’s End probabilmente Nick Drake. Di Neil Young neanche l’ombra, direi stavolta. Le emozioni arrivano fortissime con l’inizio a cappella di Fire on The Rail e con le iniziali Whisper Away e Shadow Answer To The Wall (già il titolo è bellissimo), e, sebbene sia solo un piccolo assaggio di quello che poi avrebbe voluto realizzare, basta a consigliarvelo.

È un disco che vi chiede in fondo di ascoltare in silenzio (anzi, lo chiede lui stesso all’inizio di Crossroad + The Emptiness), magari al buio, per capire perché la lezione di Molina non vada dimenticata.


venerdì 9 ottobre 2020

HUMPTY DUMPTY

 BY  · AGO 19, 2020

Humpty Dumpty,  Lie/Ability e Robyn Hitchcock.

Forse non c’era neanche bisogno di scriverlo nel libretto, ma l’omaggio artistico in alcuni momenti è talmente evidente, che ad Humpty Dumpty è parso doveroso dedicare il suo nuovo disco a Robyn Hitchcock, vero nume tutelare di questo Lie/Ability, a rischio forse di togliere la sorpresa sul contenuto (e anche un po’ il mestiere al povero recensore di turno).

Humpty Dumpty – Lie/Ability

Subterra – 2020

Artista messinese attivo ormai da più di vent’anni, con una copiosa produzione fieramente autoprodotta e autopromossa, Alessandro Calzavara alias Humpty Dumpty ha attraversato gli anni duemila con una marca stilistica molto personale, alternando dischi in italiano come il precedente La Vita Odia la Vita (costruito intorno ai testi della moglie Giulia Merlino), a quelli in inglese, come questo nuovo Lie/Ability, stavolta ispirato dalle liriche di Gianluca Ficca.

Lo stile di Humpty Dumpty

Stilisticamente Humpty Dumpty è un evidente figlio della dark/new wave inglese (e di riflesso italiana) degli anni 80 (gli arpeggi di Shy Pink Dots riportano subito ai Cure ad esempio), come dimostra qui l’apertura di una Cacophony in pure stile Joy Division, sempre però in bilico tra esperimenti elettronici e amore per le chitarre acide (White Noise ne è piena) o jingle-jangle (come Standard o il singolo My Little Toad, impreziosito dall’armonica di Giuseppe Minolfi). Che in sintesi si possono tradurre appunto in amore per il mondo sia musicale, ma anche lirico (e qui Ficca si è calato bene nella parte) di Robyn Hitchcock, come già evidente fin dal secondo brano Self Crucify.

Per l’occasione però Calzavara non ha fatto tutto da solo, ma ha coinvolto anche il bassista Giovanni Mastrangelo, per un disco costruito a distanza durante il recente lockdown. Brani di impatto immediato come Summer o The Monster’s Ride si alternano ad altri più complessi nella struttura come The Dreg o Bordermines, tra inserti elettronici (I Found You Have Gone) e momenti più cupi (We Would Cry). Calzavara ha ormai esperienza da vendere nella costruzione casalinga di suoni e canzoni, ed è un peccato che la sua scelta di autoproduzione, e ancor più di apparire raramente in pubblico, gli abbia probabilmente impedito di guadagnarsi un seguito maggiore almeno in Italia.

Humpty Dumpty – Lie/Ability: un esperimento da ascoltare

Lo dimostra un pugno di canzoni che farebbero gola a parecchi artisti d’oltremanica, figlie di una cultura musicale a 360°, che è poi l’unica ancora di salvezza per poter dire ancora qualcosa di veramente particolare nel mare magnum delle produzioni indipendenti di questi anni, dove non è forse più possibile sperare di scrivere classici per tutti (“Potresti suonarmi uno standard, ma non Summertime, ti prego, che la odio” scrive ironicamente Ficca in Standard), ma almeno entrare nella vita dei singoli con la canzone giusta. Il cd è acquistabile nella sua versione fisica (molto curata la confezione e la copertina ideata da Daniele Santagiuliana), o scaricabile gratuitamente in quella “liquida” sul Bandcamp dell’autore.

lunedì 5 ottobre 2020

WILL HOGE

 BY  · LUG 15, 2020

Will Hoge riprende un genere poco frequentato nel rock moderno con il suo Tiny Little Movies.

Will Hoge - Tiny Little Movies

Edlo/ Goodfellas – 2020

È davvero possibile che la classe operaia sia scomparsa (come hanno decretato anche le nuove classificazioni sociali dell’ISTAT), o che davvero sia andata in paradiso (come voleva Elio Petri), ma una cosa è certa, questi anni 2000 non sono stati l’era giusta per il cosiddetto rock “blue-collar”. Viviamo anni di cantautori disoccupati e chiusi nella propria stanza evidentemente, e c’è poco da sfogarsi la sera dopo il lavoro (“quale lavoro?” appunto) sul palco di un pub. Così voleva l’immaginario nato negli anni 70 alle spalle di mostri sacri come Bruce Springsteen o Bob Seger, padri di quel mix tra rock e musica soul della Stax che ha da sempre caratterizzato il genere.

Un cantautore che merita attenzione

Eppure, anche gli anni 2000 hanno visto qualche giovane leva provare a riscrivere canzoni con quel sapore, gente come Will Hoge ad esempio, uno che anni fa con una bella accoppiata di dischi che trasudavano heartland-rock come The Man Who Killed Love (2006) e Draw the Curtains (2007), fece sperare in una ondata di post-springsteeniani feconda come quella dei primi anni 90. In seguito, però, anche Hoge ha dovuto abbassare i toni del suo rock, rinunciando spesso ai fiati, alle influenze black, e aumentando la dose di quel songwriting a metà tra roots-rock e pop, insegnato a tutti da Ryan Adams negli anni precedenti. Una veste più in linea con i tempi che, sebbene maneggiata discretamente (da recuperare Anchors del 2017), ha finito per farlo diventare uno dei tanti.

Will Hoge – Tiny Little Movies

Oggi però questo Tiny Little Movies, undicesimo album di una carriera ormai più che ventennale, dimostra che il nostro sta rinunciando a suonare anche per forza moderno, e ha deciso di proporre il suo rock senza troppo pensarci. Registrato con un trio di musicisti energici e nati per la vita da session-men di strada, (Thom Donovan, Allen Jones e Christopher Griffiths), Tiny Little Movies è un disco nato per essere suonato in un locale, con la gente accalcata sotto il palco, attenta a non perdere il ritmo senza rovesciare la birra più che a non spingersi (scene che speriamo torneranno presto possibili), e non certo da ascoltare la sera in pantofole prima di addormentarsi.

Will Hoge riprende un genere poco frequentato nel rock moderno con il suo Tiny Little Movies.

Will Hoge - Tiny Little Movies

Edlo/ Goodfellas – 2020

È davvero possibile che la classe operaia sia scomparsa (come hanno decretato anche le nuove classificazioni sociali dell’ISTAT), o che davvero sia andata in paradiso (come voleva Elio Petri), ma una cosa è certa, questi anni 2000 non sono stati l’era giusta per il cosiddetto rock “blue-collar”. Viviamo anni di cantautori disoccupati e chiusi nella propria stanza evidentemente, e c’è poco da sfogarsi la sera dopo il lavoro (“quale lavoro?” appunto) sul palco di un pub. Così voleva l’immaginario nato negli anni 70 alle spalle di mostri sacri come Bruce Springsteen o Bob Seger, padri di quel mix tra rock e musica soul della Stax che ha da sempre caratterizzato il genere.

Un cantautore che merita attenzione

Eppure, anche gli anni 2000 hanno visto qualche giovane leva provare a riscrivere canzoni con quel sapore, gente come Will Hoge ad esempio, uno che anni fa con una bella accoppiata di dischi che trasudavano heartland-rock come The Man Who Killed Love (2006) e Draw the Curtains (2007), fece sperare in una ondata di post-springsteeniani feconda come quella dei primi anni 90. In seguito, però, anche Hoge ha dovuto abbassare i toni del suo rock, rinunciando spesso ai fiati, alle influenze black, e aumentando la dose di quel songwriting a metà tra roots-rock e pop, insegnato a tutti da Ryan Adams negli anni precedenti. Una veste più in linea con i tempi che, sebbene maneggiata discretamente (da recuperare Anchors del 2017), ha finito per farlo diventare uno dei tanti.

Will Hoge – Tiny Little Movies

Oggi però questo Tiny Little Movies, undicesimo album di una carriera ormai più che ventennale, dimostra che il nostro sta rinunciando a suonare anche per forza moderno, e ha deciso di proporre il suo rock senza troppo pensarci. Registrato con un trio di musicisti energici e nati per la vita da session-men di strada, (Thom Donovan, Allen Jones e Christopher Griffiths), Tiny Little Movies è un disco nato per essere suonato in un locale, con la gente accalcata sotto il palco, attenta a non perdere il ritmo senza rovesciare la birra più che a non spingersi (scene che speriamo torneranno presto possibili), e non certo da ascoltare la sera in pantofole prima di addormentarsi.

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...