mercoledì 28 settembre 2022

Florence + The Machine

 


Florence + The Machine - Dance Fever

Polydor, 2022

Strano fenomeno quello di Florence + The Machine, band britannica che ruota intorno alla carismatica figura di Florence Welch. Particolari perché rappresentano un felice connubio tra vendibilità (perdonate se tradisco la mia età ragionando anche in termini di vendite e non ascolti) e qualità. Gli album Lungs del 2009 e il decisamente accomodante Cerimonials del 2011 sono già dei piccoli classici, a cui la band ha dato seguito con altri 2 capitoli che ne hanno comunque confermato la statura. Dance Fever arriva dopo che nel 2021 avevano fornito la canzone Call Me Cruella al film Crudelia di Craig Gillespie (con Emma Stone), momento che li ha decisamente affermati nel mainstream, ed è forse proprio per quello che il singolo King, che ha anticipato l’album con un bel video girato in Ucraina poco prima dello scoppio della guerra da Autumn de Wilde (cercate anche il suo film Emma del 2020), ha spiazzato un po’ tutti. Nessuna febbre danzereccia infatti qui, ma un bellissimo e teso brano molto intimo (posto significativamente in apertura dell’album) che riflette sul proprio ruolo di madre/sposa, non necessariamente un incattivito inno femminista, quanto una disperata analisi dell’obbligo ad essere “multi-tasking” del ruolo femminile di oggi. Un brano davvero intenso che già ben predispone ad accettare invece un disco che poi cambia subito rotta ritornando ai suoi arrangiamenti un po’ barocchi e pop in Free e Choreomania. Ma episodi come Back In Town (un lento gospel appoggiato sulle suggestive tastiere di Isabella Summers) e Girls Against God (una tenue folk-song alla Laura Marling) dimostrano come la Welch ci tenga a spingere la propria arte anche verso la canzone d’autore, non perdendo la propria marca stilistica. Che è comunque figlia di certi momenti maestosi alla Kate Bush (Dream Girl Evil), non disdegna i ritmi radiofonici promessi dal titolo del disco (My love), e non dimentica il proprio background da dark-lady con il poster di Siouxsie and the Banshees nella cameretta (Cassandra). Il finale di Morning Elvis è lì a dimostrare quanto l’autrice sia davvero valida, ma anche quanto contino i suoi compagni di viaggio (il chitarrista Robert Ackroyd, ad esempio è bravo a dare un contributo importante ad un sound che certo non ha la chitarra come strumento centrale). Prodotto da Jack Antonoff dei Bleachers e Dave Bayley dei Glass Animals, Dance Fever è stilisticamente il classico disco di riassunto delle puntate precedenti, con presenti tutte le facce della band da quella intimista a quella kitsch-pop, ma è dal punto di vista della caratura dei brani che arriva la nota positiva di una ulteriore crescita. “Dici che il rock and roll è morto, ma è solo perché non è risorto a tua immagine e somiglianza?” canta Florence in Choreomania, e non esiste modo migliore per descrivere la sua concezione artistica finemente sospesa tra futuro e passato.

VOTO: 7,5

Nicola Gervasini

domenica 25 settembre 2022

Craig Finn

 


Craig Finn

A Legacy of Rentals

(Positive Jams/Thirty Tigers, 2022)

File Under: Every Picture Tells a Story

Se si sommano i dischi a proprio nome (A Legacy of Rentals è il quinto) e quelli usciti come Hold Steady (otto a oggi), ci si rende conto come in meno di vent’anni Craig Finn abbia davvero scritto e prodotto tanto. Non è un dato indifferente per un autore che fa dell’idea di testo visto come piccolo racconto letterario una propria marca stilistica, e non sarebbe una sorpresa un giorno vederlo imbarcarsi in una carriera parallela di scrittore come il collega Willy Vlautin dei Delines e Richmond Fontaine. C’è anche una certa differenza di base tra le produzioni a suo nome e quelle con la band, le prime solitamente meno votate all’arena-rock corale che caratterizza molte canzoni degli Hold Steady, ma sostanzialmente le due discografie si poggiano su un'unica fonte d’ispirazione derivante dalla sua penna. Nei brani di Finn, infatti, la musica segue il testo e non viceversa, lo storytelling è sempre al centro di tutto, tanto che spesso (come anche in questo nuovo album), i brani si risolvono sostanzialmente in una sorta di reading (sentite i sei minuti di A Break From The Barrage), anche perché la sua vocalità non certo melodica ne favorisce la modalità spesso declamatoria anche nei brani più veloci e rockeggianti. A Legacy of Rentals è nato ovviamente nei mesi del lockdown, ma per lui che vive stabilmente a Minneapolis, è stato anche un modo per reagire all’assassinio di George Floyd che ha funestato la sua città creando non pochi problemi di reazione all’odio razziale in tutti gli Stati Uniti, un fatto che, a sua detta, ha ridefinito molto il suo modo di raccontare le vicende umane, perché una realtà così cruda proprio sotto casa lo ha fatto riflettere sulla distanza che c’è sempre tra una storia come accade nella realtà, e come poi viene raccontata, sia dal giornalismo che dalla letteratura. Per questo nei nuovi brani serpeggia una nuova crudezza (The Amarillo Kid) e un palpabile disincanto (The Year We Fell Behind), ma il suo tocco personale emerge comunque, confermando (non ci stancheremo mai di ribadirlo), quanto sia un autore alquanto sottovalutato rispetto a tanti giovani artisti moderni più acclamati di lui. Dove sorge qualche problema stavolta è sulla produzione di Josh Kaufman, che se da un lato fa quello che può intervenendo su registrazioni casalinghe inserendo spesso una drum machine non sempre opportuna e addirittura una sezione d’archi, dall’altro si caratterizza da un continuo (e alla fine un po’ monotono) dialogo tra voce narrante e coro femminile, quasi una struttura da tragedia greca, affascinate da un punto di vista dello sviluppo del racconto, ma un po’ meno da quello musicale. Non so quindi se A Legacy of Rentals sarà il titolo giusto per portare alla luce anche la sua carriera solista, che fino a oggi è rimasto decisamente all’ombra di quella degli Hold Steady, sicuramente per noi rappresenta uno nuovo capitolo di un bellissimo libro.

Nicola Gervasini

mercoledì 21 settembre 2022

Bonnie Raitt

 


Bonnie Raitt

Just Like That…

(2022, Redwing Records)

File Under:

Anni fa assistetti ad una gag sul palco tra John Hiatt e Lyle Lovett, in cui John ringraziava Bonnie Raitt di aver pagato ai suoi figli l’Università grazie al successo della sua versione di Little Thing Called Love, mentre Lovett fingeva risentimento perché Bonnie non aveva riservato lo stesso trattamento ad una delle sue canzoni. È forse tutto in questa scenetta il senso della carriera di Bonnie Raitt, fin dai suoi esordi una sorta di trait d'union tra il mondo del blues, la canzone d’autore anche più oscura degli anni settanta, e il pubblico mainstream degli airplay radiofonici. In cinquant’anni di carriera la Raitt ha reso hit canzoni che in mano ai loro autori restavano relegate al mondo dei cultori, e il suo più grande merito è stato quello di non aver mai perso questa gran capacità di far salire a galla canzoni bellissime che meritavano una audience più vasta. In questo lei ci ha messo una voce gradevole, un grande appeal melodico, uno stile chitarristico caratterizzato da un uso della slide molto simile a quello del compianto Lowell George dei Little Feat (che la portò ad essere definita la prima donna bianca ad essere stimata dai bluesman neri), e produzioni sempre di gran livello, anche nel suo periodo più commerciale e mainstream dei primi anni 90. Da anni la Raitt pubblica poco ma sempre bene, e non fa eccezione questo suo diciottesimo album intitolato Just Like That..., che presenta la sua solita formula fatta di funky (Made Up My Mind), ballate eleganti e intime (Something Got A Hold Of My Heart, brano di Al Anderson), sano old time rock and roll (Livin’ For The Ones), confessioni sussurrate con una chitarra acustica (la bellissima Just Like That), notturni feeling bluesy (When We Say Goodnight), balzellanti reggae (Love So Strong, un pezzo dei Toots & the Maytals), se non proprio veri e propri blues (Blame It On Me). Il disco è a tratti molto personale, con un evidente impegno nelle liriche a sondare i misteri dei rapporti amorosi che ancora la animano dopo una vita anche abbastanza burrascosa. Nelle interviste racconta di aver avuto l’impulso a tornare a cantare anche brani suoi dalla morte di John Prine, che considera il suo maggiore riferimento da songwriter, e direi che nel finale di Down The Hall l’influenza pare evidente. Il disco resta formalmente ineccepibile, a tratti anche troppo, con quella distante perfezione delle sue produzioni che la rende anche un po’ fredda per certe orecchie abituate a cercare più polvere e sudore in questa musica. Potremmo vederla come il lato levigato e ingentilito di Lucinda Williams, e nel ruolo continua ad essere una delle migliori sulla piazza, anche se non è a lei che chiederemo mai di sconvolgerci la vita.

Nicola Gervasini

mercoledì 14 settembre 2022

Spiritualized

 


Spiritualized – Everything Was Beautiful

Fat Possum, 2022

Intorno al trentaduesimo anno di carriera i Rolling Stones stavano pubblicando Voodoo Lounge, disco che venne accolto anche come una piccola rinascita dopo i controversi anni ottanta, ma che non cambiò la sensazione che la band avesse esaurito la migliore vena creativa ai tempi di Tattoo You (1981) e appartenesse ormai ad un passato spazzato via dal nuovo rock anni novanta. Dico questo perché oggi pare invece molto diverso il modo in cui accogliamo una band come gli Spritualized, nati 32 anni fa, e ormai a tutto diritto dei veterani della scena del rock alternativo mondiale. Sicuramente non ci aspettiamo più un grande cambio di rotta rispetto alla loro ormai consolidata proposta, ma nessun recensore li accoglierebbe mai come un gruppo di vecchi bolliti buoni per la pensione, come già accadeva Jagger e soci (andate a rileggervi come fu accolto Steel Wheels nel 1989, pareva si parlasse di vecchi prossimi alla morte). È cambiata la nostra percezione di rapporto rock/età probabilmente, se a 57 anni Jason Pierce viene ancora trattato come un giovane propositore di musica per il futuro. Sarà anche che la sigla Spiritualized non si è mai consumata in una sovraproduzione (questo Everything Was Beautiful è solo il loro nono album), e che quindi ogni loro centellinata uscita ha fatto storia a sé, ma quello che ci offre Pierce con i suoi cinque compagni di viaggio appare come qualcosa di moderno e tranquillamente vendibile anche ad un giovane che si interessi di questa neo-psichedelia lenta e sognante (a me verrebbe da definirli “post-shoegaze” più per l’atteggiamento che per il suono, ma su di loro le definizioni si sono sprecate nel tempo, fino ad arrivare a definirli space-rock). La parola d’ordine è quindi “continuità”, fin dal titolo che completa la citazione di Kurt Vonnegut introdotta dal disco precedente And Nothing Hurt (“everything was beautiful and nothing hurt” è una frase tratta da Mattatoio N.5), anche se musicalmente stavolta Pierce calca la mano sull’aspetto corale, quasi gospel, di certe canzoni, con il consueto escamotage di trovare un finale maestoso ad una partenza intima e soffusa fin dall’iniziale Always Together With You. È, se vogliamo, un disco che guarda ancora di più al classic-rock del loro solito, addirittura abbozzando un giro da vera rock-band in The Best Thing You Never Had (The D Song), o citando miti a destra e a manca come in Let It Bleed (For Iggy) che riesce in un sol titolo a prendere due piccioni con una fava (ma non è una cover del noto brano omonimo dei Rolling Stones) aggiungendo al menu anche esplosioni di fiati da glam-rock. Nulla che possa più sconvolgere il mercato né tantomeno creare nuove orde di proseliti, ma qui tutto è comunque davvero bello come promette il titolo, come anche il fatto che gli Spiritualized sono ancora qui dopo più di trent’anni a farci sognare con la loro musica senza tempo.

Nicola Gervasini

VOTO: 7,5

venerdì 9 settembre 2022

Kurt Vile

 


Kurt Vile

(watch my moves)

(verve,2022)

File Under: nuovi talking blues

 

Credo che il miracolo più grande possa accadere ad un artista è quello di trovare un personale modus operandi che lo distingua sempre e comunque dalla massa. Se il mondo musicale che seguiamo da anni è popolato da miriadi di nomi, il gruppo di artisti che possiamo usare come riferimento stilistico o comunque riconoscere per un certo tipo soluzione stilistica abbastanza esclusiva, sono davvero pochi. Kurt Vile, tra le generazioni più recenti, aveva raggiunto questo importante traguardo, sicuramente grazie agli album Wakin on a Pretty Daze del 2013 e Bottle It In del 2018, incamerando quello che è un suono folk-pop un po’ allucinato che va anche abbastanza di moda di questi tempi, in personalissimi e verbosissimi sproloqui che spesso allungano parecchio le sue canzoni. Potremmo quasi dargli il merito di aver inventato delle pop-song da 6-7 minuti di media, dove il ritornello quasi non lo aspetti più perché presi dai suoi ipnotici semi-talking. In questo senso questo nuovo album, intitolato (watch my moves), da scrivere minuscolo e tra parentesi come se fosse un timido e non invadente invito a occuparci di lui, non si discosta dalla formula, se non per la nota produttiva che lo ha visto registrare il disco nella solitaria clausura dei lockdown. Tempi lunghi (73 minuti), ben 14 brani (più una brevissima intro), con una ricercata e ossessiva monotonia nel canto che rende il tutto uniforme: la maggior parte degli artisti uscirebbe sconfitto da un tour de force del genere, ma non Vile che, nonostante l’album appaia come un capitolo più stanco e forse di passaggio del suo nuovo viaggio, riesce a far reggere ancor il tutto senza annoiare. Lo aiutano in questa impresa alcuni amici collegati in remoto, come i Violators, Sarah Jones che gli fornisce le percussioni di  Flyin (Like A Fast Train e Hey Like A Child,  Cate Le Bon e Stella Mozgawa  che uniscono le forze per rendere Jesus On A Wire uno dei brani più rappresentativi della nuova raccolta, il sax di James Stewart (Sun Ra Arkestra) che porta tocchi quasi free-jazz a Goin On A Plane TodayLike Exploding Stones. Sono diversivi utili, ma va detto che Vile se la stava comunque cavando bene da solo, raccontando le sue allucinate storie (sembra quasi ambire a diventare il nuovo Julian Cope o Robyn Hitchcock in quanto a visionarietà di argomenti) con fintamente annoiata convinzione in tutti gli altri brani, con una personalità decisamente forte, tanto che anche la cover di Wages Of Sin, uno scarto del Bruce Springsteen del periodo Nebraska (pubblicato poi nel cofanetto Tracks del 1998), finisce quasi per confondersi tra le altre canzoni come un qualsiasi brano autografo. Se è vero che il gioco è bello se dura poco, (watch my moves) rappresenta quel momento in cui siamo alle fasi finali del divertimento, già stanchi ma ancora euforici, ma conserva ancora i tratti dell’opera importante che si differenzia dalla massa, e di questo va reso merito a Vile.

Nicola Gervasini

domenica 4 settembre 2022

Orville Peck

 


Orville Peck

Bronco

(Columbia 2022)

File Under: New Elvis

 

Chiedersi come possa il cantautorato di marca country porsi in modo moderno negli anni venti è domanda lecita, rispondere come sta facendo il sudafricano/canadese Orville Peck potrebbe anche essere una delle possibili soluzioni. Partiamo dalla conclusione a questa risposta: quello che sta portando Peck ad essere ascoltato da orecchie che mai avrebbero di loro spontanea volontà affrontato questi suoni è il personaggio che si è creato, un cowboy mascherato un po’ glamour che sta a metà tra la star del rockabilly The Phantom (dimenticato artista degli anni ’50 che si presentava con una maschera nera sugli occhi) e il cowboy dei Village People, con annesso il già visto giochino di tenere nascosto il suo vero volto (dai Kiss ai Daft Punk a Miss Keta, credo che prima o poi la tentazione verrà ancora a qualcuno). Gioco riuscito, perché i suoi video sono affascinanti, e lui (mi dicono, purtroppo la pandemia mi ha impedito di verificarlo personalmente) sul palco ci sa fare davvero. E la musica? Ecco, qui le cose fortunatamente vanno ancora benino, perché il disco di esordio Pony aveva abbastanza sostanza da suscitare qualche applauso anche nelle rigide camere degli amanti della roots musica americana, e questo Bronco, pur perdendo già qualche colpo, riesce perlomeno a non essere un seguito completamente deludente. Anzi, a voler essere positivi, si potrebbe plaudire al fatto di aver resistito alle sirene della modernità, ed essersi arroccato in una ElvisPresley-mania ormai spinta, anzi, dichiarata nel pezzo migliore dell’album Outta Time (“She tells me she don't like Elvis, I say, I want a little less conversation, please”). Insomma, Bronco viene a dirci che Orville Peck dietro la maschera è un vero cultore della materia, che di certo ha studiato bene i classici, e che anche il fatto che scriva di suo pugno tutti i brani del disco è segno che ha delle gambe tutte sue per stare in piedi., Ma viene anche a dirci che però, gratta gratta, è ancora solo un buon scolaro di ben altri maestri, e senza tirare in ballo per forza Presley, che forse nessuno si azzarderebbe a tentare di eguagliare, basterebbe anche solo un Chris Isaak, primo nome che viene in mente ascoltando le chitarre suadenti e “wickedgamesiane” di Duncan Jay Hennings, per fare una differenza di statura. E per chiudere il discorso intrapreso inizialmente, forse il modo migliore per portare fuori dai suoi recinti questa musica resta ancora quello provato con successo da un Chris Stapleton o dal Daniel Romano più classicista. Credo che Bronco, che resta un album comunque piacevole per quanto anche presto dimenticabile, deluderà però molti di quelli che ci avevano visto un personaggio pittoresco utile anche a ballare una scomposta line-dance in discoteca tra un reggaeton e un altro, ma forse meglio così, magari un giorno anche lui si toglierà la maschera e ci parlerà di sé stesso. La voce e la penna per farlo in maniera convincente le ha, ora serve solo che si scelga un pubblico di riferimento a cui raccontare le sue storie.

 

Nicola Gervasini

giovedì 1 settembre 2022

IL PARADOSSO DI IPPOCRATE esce a GIUGNO 2020


 

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SINOSSI

Cosa potrebbe spingere Diana Palmieri, pediatra per vocazione e donna dalla condotta irreprensibile, a venire coinvolta in una lotta all’ultimo sangue contro i poteri che governano il mondo ospedaliero? Il caso forse, ma soprattutto la rabbia, il senso del dovere, l’etica professionale, o anche l’incontro con Andrea Barson, ambiguo manager di una azienda di medicali. Appassionato di musica grunge e con una ossessione per la cultura nipponica, Barson incarnerà tutta la profonda sete di giustizia di Diana, frustrata dall’impossibilità di svolgere il proprio lavoro al meglio a causa dell’incapacità e della corruzione del sistema decisionale della sanità. Christofer Boyle, l’AD di una multinazionale, manovra i fili dall’alto, killer professionisti inseguono, un’associazione segreta promette soluzioni a medici dediti alla causa. Affiancata da Donita, fedele amica, goffamente sopra le righe, Diana sarà messa di fronte a una ridefinizione delle coordinate etiche del suo giuramento. Il Paradosso di Ippocrate è un romanzo che si nutre delle contraddizioni tra missione del medico e mondo commerciale, universo femminile e maschile, adolescenza e maturità, amore e passione. E il lettore che si chiederà come si sarebbe comportato al posto di Diana, potrebbe scoprire di non essere più tanto sicuro delle proprie risposte




BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...