martedì 31 agosto 2021

MARCO SONAGLIA

 


Marco Sonaglia

Ballate dalla grande recessione

(Vrec / Audioglobe, 2021)

File Under: a muso duro

Sebbene le nuove leve del cosiddetto indie italiano l’abbiano rivista e rivisitata in chiave più moderna, e forse anche più internazionale, la tradizione del cantautorato italiano, figlia di De Andrè e Guccini, sembra non conoscere crisi di nuovi adepti e seguaci. Il quarantenne Marco Sonaglia ad esempio è un autore che chi segue il genere conosce ormai bene, vuoi per i suoi primi due dischi da solista (Il Pittore è l'Unico che Sceglie i Suoi Colori del 2012 e Il Vizio Di Vivere del 2015), vuoi per quelli più recenti con i Sambene (Sentieri Partigiani, tra Marche e Memoria del 2018 e I Sambene Cantano De Andrè nel 2019) che ben fanno capire le sue radici musicali, opere che lo hanno portato ad esempio a seguire le tournee di nomi come Claudio Lolli, Modena City Ramblers e Massimo Bubola. E fin qui tutto chiaro, ma con questo Ballate Dalla Grande Recessione  Sonaglia prova un ulteriore passo in avanti, costruendo una serie di belle ballate, ispirate alle strutture rese celebri dal francese François Villon, intorno alle composizioni di Salvo Lo Galbo, poeta “militante” alla vecchia maniera. Loro le hanno chiamate “canzoni emergenziali” perché nate in epoca-covid, ma alla fine il disco è una sorta di campionario di alcune battaglie per l’umanità e la dignità che la pandemia ha solo un po’ fatto dimenticare. Canzoni che ricordano chi era alla ricerca di un rifugio dalla miseria già prima del Covid (Primavera a Lesbo), di lotte civili che restano vive e ancora non vinte attraverso episodi e personaggi noti (Canzone per Stefano, dedicata a Cucchi, o Canzone Dello Zero dedicata al ex sindaco di Riace Mimmo Lucano) e meno noti (Canzone per Sacko, dedicata ad un sindacalista morto in Calabria, o Ballata a una Ballerina, dove lo spettro di Auschwitz torna nella storia di Lola Horovitz, nome d’arte della ballerina polacca Franceska Mann). E infine doverosi omaggi (a Lolli in Canzone per Claudio), e una serie di brani “da combattimento” come Ballata per Cuba e La Mia Classe. Prodotto, arrangiato e suonato con Paolo Bragaglia e gli interventi del violoncello di Julius Cupo, Ballate Dalla Grande Recessione è una sorta di urlo di battaglia che ricorda che la canzone d’autore di stampo politico non è morta, e che ci sono anche tante questioni ancora da risolvere, anche a suon di note.

 

Nicola Gervasini

 

 

lunedì 23 agosto 2021

VAN MORRISON

 


Van Morrison

Latest Record Project, Vol. 1

(BMG Rights Management, 2021)

File Under: I Fought The Law

Accade un fatto curioso riguardo a Van Morrison. Va bene, nessuno credo possa discutere che Van “The Man” abbia dato il meglio con la sua produzione passata. E va ricordato, per contro, che rispetto a molti suoi contemporanei, lui è uno dei pochi che può vantare di aver tenuto un livello eccelso anche negli anni 80 (riconosciuto da tutti ai tempi), trovando il suono giusto per continuare a suonare moderno senza troppi compromessi anche in quegli anni difficili per la prima generazione rock. Poi però, a partire dagli anni 90, improvvisamente la sua musica è diventata vecchia, anzi, forse il simbolo del vecchio per antonomasia per tantissime riviste musicali (anche nostrane), un po’ per l’effettivo calo di ispirazione, unito quel senso di “rimescolamento della stessa minestra” che i suoi dischi degli ultimi 30 anni hanno avuto, un po’ però anche per un insensato e aprioristico ostracismo di una critica che lo ha trattato con più severità di molti suoi colleghi altrettanto non più brillanti come un tempo, molto spesso ignorando completamente le sue uscite discografiche. Invece per questo Latest Record Project, Vol. 1 si sono tutti affrettati a parlarne, perché il disco è stato anticipato da una serie di dichiarazioni e “instant-songs” che seguivano un po’ il filone complottista del periodo covid, e quindi, per la prima volta dopo anni (o forse proprio per la prima volta in assoluto), anche su Van Morrison c’è la possibilità di montare un caso mediatico utile strappare click. Alcuni di quei brani sono qui, ma neanche tutti, lasciando presagire davvero un secondo volume. Qui si impone dunque una riflessione: da quando infatti riteniamo davvero gli artisti (musicali, ma non solo) importanti per quello che pensano e non per come lo esprimono, tanto da usare la sensatezza dei loro discorsi come unico metro di giudizio della loro opera? Quando è successo che ci siamo davvero curati del fatto che il loro pensiero fosse coerente, logico, etico, e via dicendo? Ancora oggi di fatto ascoltiamo un sacco di testi rock che sono infantili, ingenui, inutilmente visionari, esagerati, incoerenti, violenti, politicamente e socialmente non più accettabili, eppure non smettiamo di farlo neppure quando ce ne rendiamo conto.  L’artista non è colui che può tracciare un sentiero, l’artista è colui che ti fa scoprire della sua esistenza, esprimendo con l’arte, e non con le teorie, le emozioni che quel sentiero suscita in lui. Lasciamo ad altri il compito di tracciare sentieri quindi. Il discorso vale per Van Morrison: stroncare questo album per le teorie sull’attualità che contiene (come si è affrettata a fare molta stampa estera, anche quella che da tempo lo ignorava) ha poco senso, perché qui bisognerebbe invece notare che queste 28 canzoni, tra gli inevitabili alti e bassi di una mole esagerata e, nel finale, anche un po’ sfiancante, sono le meglio cantate, suonate, prodotte, e - in alcuni casi - anche scritte dei suoi ultimi anni. Non che ci siano grandi novità di sorta rispetto “al suo solito”, anche se l’assolo di chitarra quasi garage-rock di Where Have All the Rebels Gone è una rarità nel suo menu, e ovunque impazzano degli azzeccatissimi cori in stile doo-wop anni 50 che paradossalmente rendono più fresco e moderno ciò che innegabilmente resta “vecchio” e passatista. Ma quella che è diversa è proprio la sua motivazione a cantare, ad aggredire la vita con i primi testi che da tempo non si adagiano nel quieto vivere della sua “splendid isolation”, per dirla alla Warren Zevon. Anche a costo di scadere ogni tanto nel patetico (vedi Why Are You on Facebook), un rischio che ritengo comunque doveroso che un artista del suo calibro si prenda. Insomma, l’ultimo disco di Van Morrison vede in pista di nuovo un uomo che esce dal suo guscio con le armi migliori che ha, la voce e la musica, il che mi porta a sperare che “s’incazzi” ancora di più per il volume due.

Nicola Gervasini

domenica 1 agosto 2021

DANIEL LANOIS

 


Daniel Lanois – Heavy Sun

Maker, 2021

 

Daniel Lanois rappresentava uno stranissimo caso in un mondo della musica che per anni ha ragionato per generi che facevano fatica a parlarsi e riconoscersi. Di certo negli anni ottanta la musica elettronica/ambient di Brian Eno non era esattamente quella che si ascoltava a New Orleans tra un disco di Allen Toussaint e uno di Dr. John, eppure lui ha incarnato alla perfezione le anime di due mondi così diversi, mettendo poi la sua esperienza al servizio dei più grandi (per U2, Bob Dylan, Peter Gabriel, Robbie Robertson, Neville Brothers, Willie Nelson, Emmylou Harris, Neil Young le sue produzioni più memorabili). La sua carriera solista ha sviluppato ancora meglio il concetto, con album di bellissime canzoni nate nel fango del Mississippi come Acadie o For the Beauty of Wynona, alternati a quelle sperimentazioni di studio imparate negli anni in cui si è fatto la gavetta come assistente proprio di Brian Eno (va ricordato perlomeno Belladonna del 2005). Ma probabilmente è questo nuovo Heavy Sun la migliore sintesi della sua musica, un disco di canzoni gospel-oriented concepito con una band creata con gli amici Rocco DeLuca (chitarra), Jim Wilson (basso) e Johnny Sheperd (organo), tutti impegnati a creare con le loro voci splendidi impasti vocali, a cui manca davvero solo il falsetto di Aaron Neville per riportare in auge il suono che creò per i Neville Brothers in quel capolavoro che fu Yellow Moon. L’elettronica c’è, ma per l’occasione Lanois ha preferito dare l’impressione di un gruppo che suona dal vivo in studio, nonostante resti evidente che il lavoro di produzione resta imponente e certosino come sua abitudine. Ma a questo giro Lanois ha voluto concentrarsi soprattutto sulle canzoni, lanciando, in un clima di totale ritrovata pace spirituale, appelli come Power, brano contro le disumane dittature africane, imbeccato proprio da una petizione lanciato dall’amico Brian Eno, ma anche altri richiami tipici di questa nuova era-covid come Every Nation, Mother's Eyes e Angels Watching. Protagonista, tra gli strumenti, è sicuramente l’organo Hammond di Johnny Sheperd, musicista che proviene proprio dal mondo della musica di chiesa, e che Lanois ha imbarcato anche nelle vesti di consulente sull’argomento. Il risultato è un disco molto intimo, melodico, rilassato, in cui per una volta ci si gasa più per la brillantezza delle soluzioni vocali, piuttosto che per la perfezione delle soluzioni tecniche adottate. Ed è questo che rende Lanois uno dei musicisti più completi della nostra era, ormai poco presente purtroppo come produttore per conto terzi (ma l’epoca dei grandi produttori è tramontata con la triste vittoria del più economico home-record), ma sempre attivo come teorizzatore di una musica che unisca in egual misura tecnica e anima, due spiriti che il mondo del rock è sempre riuscito a conciliare con grande fatica.

 

Nicola Gervasini

Voto: 7,5

BILL RYDER-JONES

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