lunedì 3 ottobre 2022

John Doe

 


John Doe

Fables in a Foreign Land

(Fat Possum, 2022)

File Under: Folkways

 

Rispetto a tanti eroi dei bassifondi del mercato discografico degli anni ottanta, l’ X John Doe è un piccolo caso particolare di continua maturazione. Con la band ormai col fiato corto di chi aveva dato tanto in breve tempo, nel 1989 Doe aveva inaugurato la sua ormai lunga carriera solista con un disco di discreto mainstream-roots come Meet John Doe, e mentre gli X chiudevano la loro storia con un poco degno testamento (Hey Zeus! del 1993, ma fortunatamente nel 2020 Alphabetland ha ripreso il percorso con rinnovato vigore), lui faceva un po’ fatica a trovare non solo un suo spazio, ma anche una sua personale modalità espressiva. I suoi anni ’90, spesi con la sigla The John Doe Thing, restano poco memorabili, e si è dovuto attendere il decisivo passaggio alla Yep Rock nel 2005 con album come Forever Hasn't Happened Yet e A Year in the Wilderness per risentirlo in azione con produzioni sempre più sicure e personali, fino ad arrivare a dischi davvero belli come Keeper del 2011 o Westerner del 2016. Per questo non sorprende che anche questo Fables in a Foreign Land sia un disco di gran spessore, perché il suo aver ormai definitivamente abbracciato un linguaggio folk (o da cantautore di area texana) non sembra davvero una facile scappatoia di un artista senza più troppo da dire, quanto il naturale porto d’attracco scoperto dopo una lunga navigazione. E il nuovo album calca ancor più la mano sul concetto, sviluppandosi in una sorta di concept sull’America del 1890, registrato con un trio composto dal bassista Kevin Smith (visto spesso alle spalle di Willie Nelson) e il batterista Conrad Choucroun, con un sound decisamente scarno ed essenziale che non dà mai però la sensazione di essere povero o raffazzonato. E Doe si conferma anche ottimo performer in grado di reggere una classicissima folk-song come Down South (impreziosita dal violino di Carrie Rodriguez), ma sono le canzoni ad essere di gran livello, vuoi per quel gusto alla John Steinbeck di raccontare con freddezza quasi giornalistica la tragedia dei pionieri della provincia americana, vuoi perché ad aiutare a trovare le parole giuste è intervenuto persino un gigante come Terry Allen, la cui mano si sente eccome nell’iniziale Never Coming Back. Il disco spazia comunque nel tex-mex alla Ry Cooder di Guilty Bystander (con la fisarmonica di Josh Baca), brani in misto tra spagnolo e inglese (El-Romance-o) e cavalcate western come The Cowboy and The Hot Air Ballon o Travellin’ So Hard. Il ritmo generale in ogni caso è da racconto sussurrato davanti al camino, perché anche un vecchio combattente del rock come lui, alla soglia dei 70 anni, ha probabilmente più voglia di raccontare alcune storie raccolte nel corso della sua avventurosa esistenza, piuttosto che infiammare i palchi con i vecchi amici di un tempo. Che comunque sono sempre lì che lo aspettano, perché la storia degli X non è finita, ma anche se lo fosse, quella del John Doe odierno basta a non farsi prendere troppo dalla nostalgia.

 

Nicola Gervasini

 

mercoledì 28 settembre 2022

Florence + The Machine

 


Florence + The Machine - Dance Fever

Polydor, 2022

Strano fenomeno quello di Florence + The Machine, band britannica che ruota intorno alla carismatica figura di Florence Welch. Particolari perché rappresentano un felice connubio tra vendibilità (perdonate se tradisco la mia età ragionando anche in termini di vendite e non ascolti) e qualità. Gli album Lungs del 2009 e il decisamente accomodante Cerimonials del 2011 sono già dei piccoli classici, a cui la band ha dato seguito con altri 2 capitoli che ne hanno comunque confermato la statura. Dance Fever arriva dopo che nel 2021 avevano fornito la canzone Call Me Cruella al film Crudelia di Craig Gillespie (con Emma Stone), momento che li ha decisamente affermati nel mainstream, ed è forse proprio per quello che il singolo King, che ha anticipato l’album con un bel video girato in Ucraina poco prima dello scoppio della guerra da Autumn de Wilde (cercate anche il suo film Emma del 2020), ha spiazzato un po’ tutti. Nessuna febbre danzereccia infatti qui, ma un bellissimo e teso brano molto intimo (posto significativamente in apertura dell’album) che riflette sul proprio ruolo di madre/sposa, non necessariamente un incattivito inno femminista, quanto una disperata analisi dell’obbligo ad essere “multi-tasking” del ruolo femminile di oggi. Un brano davvero intenso che già ben predispone ad accettare invece un disco che poi cambia subito rotta ritornando ai suoi arrangiamenti un po’ barocchi e pop in Free e Choreomania. Ma episodi come Back In Town (un lento gospel appoggiato sulle suggestive tastiere di Isabella Summers) e Girls Against God (una tenue folk-song alla Laura Marling) dimostrano come la Welch ci tenga a spingere la propria arte anche verso la canzone d’autore, non perdendo la propria marca stilistica. Che è comunque figlia di certi momenti maestosi alla Kate Bush (Dream Girl Evil), non disdegna i ritmi radiofonici promessi dal titolo del disco (My love), e non dimentica il proprio background da dark-lady con il poster di Siouxsie and the Banshees nella cameretta (Cassandra). Il finale di Morning Elvis è lì a dimostrare quanto l’autrice sia davvero valida, ma anche quanto contino i suoi compagni di viaggio (il chitarrista Robert Ackroyd, ad esempio è bravo a dare un contributo importante ad un sound che certo non ha la chitarra come strumento centrale). Prodotto da Jack Antonoff dei Bleachers e Dave Bayley dei Glass Animals, Dance Fever è stilisticamente il classico disco di riassunto delle puntate precedenti, con presenti tutte le facce della band da quella intimista a quella kitsch-pop, ma è dal punto di vista della caratura dei brani che arriva la nota positiva di una ulteriore crescita. “Dici che il rock and roll è morto, ma è solo perché non è risorto a tua immagine e somiglianza?” canta Florence in Choreomania, e non esiste modo migliore per descrivere la sua concezione artistica finemente sospesa tra futuro e passato.

VOTO: 7,5

Nicola Gervasini

domenica 25 settembre 2022

Craig Finn

 


Craig Finn

A Legacy of Rentals

(Positive Jams/Thirty Tigers, 2022)

File Under: Every Picture Tells a Story

Se si sommano i dischi a proprio nome (A Legacy of Rentals è il quinto) e quelli usciti come Hold Steady (otto a oggi), ci si rende conto come in meno di vent’anni Craig Finn abbia davvero scritto e prodotto tanto. Non è un dato indifferente per un autore che fa dell’idea di testo visto come piccolo racconto letterario una propria marca stilistica, e non sarebbe una sorpresa un giorno vederlo imbarcarsi in una carriera parallela di scrittore come il collega Willy Vlautin dei Delines e Richmond Fontaine. C’è anche una certa differenza di base tra le produzioni a suo nome e quelle con la band, le prime solitamente meno votate all’arena-rock corale che caratterizza molte canzoni degli Hold Steady, ma sostanzialmente le due discografie si poggiano su un'unica fonte d’ispirazione derivante dalla sua penna. Nei brani di Finn, infatti, la musica segue il testo e non viceversa, lo storytelling è sempre al centro di tutto, tanto che spesso (come anche in questo nuovo album), i brani si risolvono sostanzialmente in una sorta di reading (sentite i sei minuti di A Break From The Barrage), anche perché la sua vocalità non certo melodica ne favorisce la modalità spesso declamatoria anche nei brani più veloci e rockeggianti. A Legacy of Rentals è nato ovviamente nei mesi del lockdown, ma per lui che vive stabilmente a Minneapolis, è stato anche un modo per reagire all’assassinio di George Floyd che ha funestato la sua città creando non pochi problemi di reazione all’odio razziale in tutti gli Stati Uniti, un fatto che, a sua detta, ha ridefinito molto il suo modo di raccontare le vicende umane, perché una realtà così cruda proprio sotto casa lo ha fatto riflettere sulla distanza che c’è sempre tra una storia come accade nella realtà, e come poi viene raccontata, sia dal giornalismo che dalla letteratura. Per questo nei nuovi brani serpeggia una nuova crudezza (The Amarillo Kid) e un palpabile disincanto (The Year We Fell Behind), ma il suo tocco personale emerge comunque, confermando (non ci stancheremo mai di ribadirlo), quanto sia un autore alquanto sottovalutato rispetto a tanti giovani artisti moderni più acclamati di lui. Dove sorge qualche problema stavolta è sulla produzione di Josh Kaufman, che se da un lato fa quello che può intervenendo su registrazioni casalinghe inserendo spesso una drum machine non sempre opportuna e addirittura una sezione d’archi, dall’altro si caratterizza da un continuo (e alla fine un po’ monotono) dialogo tra voce narrante e coro femminile, quasi una struttura da tragedia greca, affascinate da un punto di vista dello sviluppo del racconto, ma un po’ meno da quello musicale. Non so quindi se A Legacy of Rentals sarà il titolo giusto per portare alla luce anche la sua carriera solista, che fino a oggi è rimasto decisamente all’ombra di quella degli Hold Steady, sicuramente per noi rappresenta uno nuovo capitolo di un bellissimo libro.

Nicola Gervasini

mercoledì 21 settembre 2022

Bonnie Raitt

 


Bonnie Raitt

Just Like That…

(2022, Redwing Records)

File Under:

Anni fa assistetti ad una gag sul palco tra John Hiatt e Lyle Lovett, in cui John ringraziava Bonnie Raitt di aver pagato ai suoi figli l’Università grazie al successo della sua versione di Little Thing Called Love, mentre Lovett fingeva risentimento perché Bonnie non aveva riservato lo stesso trattamento ad una delle sue canzoni. È forse tutto in questa scenetta il senso della carriera di Bonnie Raitt, fin dai suoi esordi una sorta di trait d'union tra il mondo del blues, la canzone d’autore anche più oscura degli anni settanta, e il pubblico mainstream degli airplay radiofonici. In cinquant’anni di carriera la Raitt ha reso hit canzoni che in mano ai loro autori restavano relegate al mondo dei cultori, e il suo più grande merito è stato quello di non aver mai perso questa gran capacità di far salire a galla canzoni bellissime che meritavano una audience più vasta. In questo lei ci ha messo una voce gradevole, un grande appeal melodico, uno stile chitarristico caratterizzato da un uso della slide molto simile a quello del compianto Lowell George dei Little Feat (che la portò ad essere definita la prima donna bianca ad essere stimata dai bluesman neri), e produzioni sempre di gran livello, anche nel suo periodo più commerciale e mainstream dei primi anni 90. Da anni la Raitt pubblica poco ma sempre bene, e non fa eccezione questo suo diciottesimo album intitolato Just Like That..., che presenta la sua solita formula fatta di funky (Made Up My Mind), ballate eleganti e intime (Something Got A Hold Of My Heart, brano di Al Anderson), sano old time rock and roll (Livin’ For The Ones), confessioni sussurrate con una chitarra acustica (la bellissima Just Like That), notturni feeling bluesy (When We Say Goodnight), balzellanti reggae (Love So Strong, un pezzo dei Toots & the Maytals), se non proprio veri e propri blues (Blame It On Me). Il disco è a tratti molto personale, con un evidente impegno nelle liriche a sondare i misteri dei rapporti amorosi che ancora la animano dopo una vita anche abbastanza burrascosa. Nelle interviste racconta di aver avuto l’impulso a tornare a cantare anche brani suoi dalla morte di John Prine, che considera il suo maggiore riferimento da songwriter, e direi che nel finale di Down The Hall l’influenza pare evidente. Il disco resta formalmente ineccepibile, a tratti anche troppo, con quella distante perfezione delle sue produzioni che la rende anche un po’ fredda per certe orecchie abituate a cercare più polvere e sudore in questa musica. Potremmo vederla come il lato levigato e ingentilito di Lucinda Williams, e nel ruolo continua ad essere una delle migliori sulla piazza, anche se non è a lei che chiederemo mai di sconvolgerci la vita.

Nicola Gervasini

mercoledì 14 settembre 2022

Spiritualized

 


Spiritualized – Everything Was Beautiful

Fat Possum, 2022

Intorno al trentaduesimo anno di carriera i Rolling Stones stavano pubblicando Voodoo Lounge, disco che venne accolto anche come una piccola rinascita dopo i controversi anni ottanta, ma che non cambiò la sensazione che la band avesse esaurito la migliore vena creativa ai tempi di Tattoo You (1981) e appartenesse ormai ad un passato spazzato via dal nuovo rock anni novanta. Dico questo perché oggi pare invece molto diverso il modo in cui accogliamo una band come gli Spritualized, nati 32 anni fa, e ormai a tutto diritto dei veterani della scena del rock alternativo mondiale. Sicuramente non ci aspettiamo più un grande cambio di rotta rispetto alla loro ormai consolidata proposta, ma nessun recensore li accoglierebbe mai come un gruppo di vecchi bolliti buoni per la pensione, come già accadeva Jagger e soci (andate a rileggervi come fu accolto Steel Wheels nel 1989, pareva si parlasse di vecchi prossimi alla morte). È cambiata la nostra percezione di rapporto rock/età probabilmente, se a 57 anni Jason Pierce viene ancora trattato come un giovane propositore di musica per il futuro. Sarà anche che la sigla Spiritualized non si è mai consumata in una sovraproduzione (questo Everything Was Beautiful è solo il loro nono album), e che quindi ogni loro centellinata uscita ha fatto storia a sé, ma quello che ci offre Pierce con i suoi cinque compagni di viaggio appare come qualcosa di moderno e tranquillamente vendibile anche ad un giovane che si interessi di questa neo-psichedelia lenta e sognante (a me verrebbe da definirli “post-shoegaze” più per l’atteggiamento che per il suono, ma su di loro le definizioni si sono sprecate nel tempo, fino ad arrivare a definirli space-rock). La parola d’ordine è quindi “continuità”, fin dal titolo che completa la citazione di Kurt Vonnegut introdotta dal disco precedente And Nothing Hurt (“everything was beautiful and nothing hurt” è una frase tratta da Mattatoio N.5), anche se musicalmente stavolta Pierce calca la mano sull’aspetto corale, quasi gospel, di certe canzoni, con il consueto escamotage di trovare un finale maestoso ad una partenza intima e soffusa fin dall’iniziale Always Together With You. È, se vogliamo, un disco che guarda ancora di più al classic-rock del loro solito, addirittura abbozzando un giro da vera rock-band in The Best Thing You Never Had (The D Song), o citando miti a destra e a manca come in Let It Bleed (For Iggy) che riesce in un sol titolo a prendere due piccioni con una fava (ma non è una cover del noto brano omonimo dei Rolling Stones) aggiungendo al menu anche esplosioni di fiati da glam-rock. Nulla che possa più sconvolgere il mercato né tantomeno creare nuove orde di proseliti, ma qui tutto è comunque davvero bello come promette il titolo, come anche il fatto che gli Spiritualized sono ancora qui dopo più di trent’anni a farci sognare con la loro musica senza tempo.

Nicola Gervasini

VOTO: 7,5

venerdì 9 settembre 2022

Kurt Vile

 


Kurt Vile

(watch my moves)

(verve,2022)

File Under: nuovi talking blues

 

Credo che il miracolo più grande possa accadere ad un artista è quello di trovare un personale modus operandi che lo distingua sempre e comunque dalla massa. Se il mondo musicale che seguiamo da anni è popolato da miriadi di nomi, il gruppo di artisti che possiamo usare come riferimento stilistico o comunque riconoscere per un certo tipo soluzione stilistica abbastanza esclusiva, sono davvero pochi. Kurt Vile, tra le generazioni più recenti, aveva raggiunto questo importante traguardo, sicuramente grazie agli album Wakin on a Pretty Daze del 2013 e Bottle It In del 2018, incamerando quello che è un suono folk-pop un po’ allucinato che va anche abbastanza di moda di questi tempi, in personalissimi e verbosissimi sproloqui che spesso allungano parecchio le sue canzoni. Potremmo quasi dargli il merito di aver inventato delle pop-song da 6-7 minuti di media, dove il ritornello quasi non lo aspetti più perché presi dai suoi ipnotici semi-talking. In questo senso questo nuovo album, intitolato (watch my moves), da scrivere minuscolo e tra parentesi come se fosse un timido e non invadente invito a occuparci di lui, non si discosta dalla formula, se non per la nota produttiva che lo ha visto registrare il disco nella solitaria clausura dei lockdown. Tempi lunghi (73 minuti), ben 14 brani (più una brevissima intro), con una ricercata e ossessiva monotonia nel canto che rende il tutto uniforme: la maggior parte degli artisti uscirebbe sconfitto da un tour de force del genere, ma non Vile che, nonostante l’album appaia come un capitolo più stanco e forse di passaggio del suo nuovo viaggio, riesce a far reggere ancor il tutto senza annoiare. Lo aiutano in questa impresa alcuni amici collegati in remoto, come i Violators, Sarah Jones che gli fornisce le percussioni di  Flyin (Like A Fast Train e Hey Like A Child,  Cate Le Bon e Stella Mozgawa  che uniscono le forze per rendere Jesus On A Wire uno dei brani più rappresentativi della nuova raccolta, il sax di James Stewart (Sun Ra Arkestra) che porta tocchi quasi free-jazz a Goin On A Plane TodayLike Exploding Stones. Sono diversivi utili, ma va detto che Vile se la stava comunque cavando bene da solo, raccontando le sue allucinate storie (sembra quasi ambire a diventare il nuovo Julian Cope o Robyn Hitchcock in quanto a visionarietà di argomenti) con fintamente annoiata convinzione in tutti gli altri brani, con una personalità decisamente forte, tanto che anche la cover di Wages Of Sin, uno scarto del Bruce Springsteen del periodo Nebraska (pubblicato poi nel cofanetto Tracks del 1998), finisce quasi per confondersi tra le altre canzoni come un qualsiasi brano autografo. Se è vero che il gioco è bello se dura poco, (watch my moves) rappresenta quel momento in cui siamo alle fasi finali del divertimento, già stanchi ma ancora euforici, ma conserva ancora i tratti dell’opera importante che si differenzia dalla massa, e di questo va reso merito a Vile.

Nicola Gervasini

domenica 4 settembre 2022

Orville Peck

 


Orville Peck

Bronco

(Columbia 2022)

File Under: New Elvis

 

Chiedersi come possa il cantautorato di marca country porsi in modo moderno negli anni venti è domanda lecita, rispondere come sta facendo il sudafricano/canadese Orville Peck potrebbe anche essere una delle possibili soluzioni. Partiamo dalla conclusione a questa risposta: quello che sta portando Peck ad essere ascoltato da orecchie che mai avrebbero di loro spontanea volontà affrontato questi suoni è il personaggio che si è creato, un cowboy mascherato un po’ glamour che sta a metà tra la star del rockabilly The Phantom (dimenticato artista degli anni ’50 che si presentava con una maschera nera sugli occhi) e il cowboy dei Village People, con annesso il già visto giochino di tenere nascosto il suo vero volto (dai Kiss ai Daft Punk a Miss Keta, credo che prima o poi la tentazione verrà ancora a qualcuno). Gioco riuscito, perché i suoi video sono affascinanti, e lui (mi dicono, purtroppo la pandemia mi ha impedito di verificarlo personalmente) sul palco ci sa fare davvero. E la musica? Ecco, qui le cose fortunatamente vanno ancora benino, perché il disco di esordio Pony aveva abbastanza sostanza da suscitare qualche applauso anche nelle rigide camere degli amanti della roots musica americana, e questo Bronco, pur perdendo già qualche colpo, riesce perlomeno a non essere un seguito completamente deludente. Anzi, a voler essere positivi, si potrebbe plaudire al fatto di aver resistito alle sirene della modernità, ed essersi arroccato in una ElvisPresley-mania ormai spinta, anzi, dichiarata nel pezzo migliore dell’album Outta Time (“She tells me she don't like Elvis, I say, I want a little less conversation, please”). Insomma, Bronco viene a dirci che Orville Peck dietro la maschera è un vero cultore della materia, che di certo ha studiato bene i classici, e che anche il fatto che scriva di suo pugno tutti i brani del disco è segno che ha delle gambe tutte sue per stare in piedi., Ma viene anche a dirci che però, gratta gratta, è ancora solo un buon scolaro di ben altri maestri, e senza tirare in ballo per forza Presley, che forse nessuno si azzarderebbe a tentare di eguagliare, basterebbe anche solo un Chris Isaak, primo nome che viene in mente ascoltando le chitarre suadenti e “wickedgamesiane” di Duncan Jay Hennings, per fare una differenza di statura. E per chiudere il discorso intrapreso inizialmente, forse il modo migliore per portare fuori dai suoi recinti questa musica resta ancora quello provato con successo da un Chris Stapleton o dal Daniel Romano più classicista. Credo che Bronco, che resta un album comunque piacevole per quanto anche presto dimenticabile, deluderà però molti di quelli che ci avevano visto un personaggio pittoresco utile anche a ballare una scomposta line-dance in discoteca tra un reggaeton e un altro, ma forse meglio così, magari un giorno anche lui si toglierà la maschera e ci parlerà di sé stesso. La voce e la penna per farlo in maniera convincente le ha, ora serve solo che si scelga un pubblico di riferimento a cui raccontare le sue storie.

 

Nicola Gervasini

giovedì 1 settembre 2022

IL PARADOSSO DI IPPOCRATE esce a GIUGNO 2020


 

ordinatelo a n.gervasini@tin.it

o

https://www.wlmedizioni.com/9788897382584-romanzo-noir-il-paradosso-di-ippocrate/


SINOSSI

Cosa potrebbe spingere Diana Palmieri, pediatra per vocazione e donna dalla condotta irreprensibile, a venire coinvolta in una lotta all’ultimo sangue contro i poteri che governano il mondo ospedaliero? Il caso forse, ma soprattutto la rabbia, il senso del dovere, l’etica professionale, o anche l’incontro con Andrea Barson, ambiguo manager di una azienda di medicali. Appassionato di musica grunge e con una ossessione per la cultura nipponica, Barson incarnerà tutta la profonda sete di giustizia di Diana, frustrata dall’impossibilità di svolgere il proprio lavoro al meglio a causa dell’incapacità e della corruzione del sistema decisionale della sanità. Christofer Boyle, l’AD di una multinazionale, manovra i fili dall’alto, killer professionisti inseguono, un’associazione segreta promette soluzioni a medici dediti alla causa. Affiancata da Donita, fedele amica, goffamente sopra le righe, Diana sarà messa di fronte a una ridefinizione delle coordinate etiche del suo giuramento. Il Paradosso di Ippocrate è un romanzo che si nutre delle contraddizioni tra missione del medico e mondo commerciale, universo femminile e maschile, adolescenza e maturità, amore e passione. E il lettore che si chiederà come si sarebbe comportato al posto di Diana, potrebbe scoprire di non essere più tanto sicuro delle proprie risposte




mercoledì 31 agosto 2022

Father John Misty

 


Father John Misty - Chloë and the Next 20th Century

Sub pop/Bella Union 2022

 

 

Joshua Michael Tillman ha solo 40 anni, ma una lista di album, esperienze, e collaborazioni lunghissima, dagli esordi coi Saxon Shore nei primi anni 2000, ai 9 album realizzati col nome di J.Tillman dal 2001 al 2010, fino all’effimero tentativo di fare il fuoriclasse in una squadra già vincente come i Fleet Foxes (con loro realizzò solo un album nel 2011). Ma è indubbio che l’incarnazione più vincente e, a questo punto, definitiva, è quella di Father John Misty, nome nato quasi per scherzo, o anzi, come ricordava lo stesso Tillman in una intervista, proprio perché il suo vero nome era ormai associato ad un indie-folk triste e depressivo e dal vivo i suoi giochi di parole scherzosi o le sue velleità di leggerezza non venivano mai presi sul serio quanto i suoi lamenti. Trasformazione “gioiosa” quindi, quasi alla David Johansen/Buster Poindexter potremmo azzardare, che lo ha portato anche ad avere un certo successo, tanto da poter vantare anche collaborazioni nell’alto-mainstream con Beyoncè e Lady Gaga oggi. La sua musica è certamente cambiata, e anche questo Chloë and the Next 20th Century si fa subito notare per il divertito gioco dei rimandi ad altri artisti storici, con forse molto meno Elton John del solito, e molto più Harry Nilsson nelle orchestrazioni kitsch (ma anche nel falsetto in vibrato che definisce Kiss Me I Loved You) che lo caratterizzano quasi in ogni brano. Un gioco che pare piacere parecchio a lui e al suo fido co-produttore Jonathan Wilson, vero maestro di passatismo già anche nelle sue opere personali, e che qui forse raggiunge l’apoteosi con una produzione altisonante con quartetto d’archi (i Nona Quartet), una ampia sezione fiati, e con salti temporali stilistici che lo portano da Nat King Cole (Funny Girl) a Randy Newman (Everything But Her Love) passando per Lee Hazlewood (Only Fool), Burt Bucharach (Olvidado Otro Momento) a George Gershwin (Chloe). Parrebbe dunque un mero esercizio di stile che gli ha preso la mano, ma Tillman esiste ancora come autore, e qui sta il valore aggiunto, perché la magniloquenza degli arrangiamenti finisce solo ad essere un contenitore più accattivante per una serie di testi dove il vecchio J.Tillman riaffiora con le sue verbose elucubrazioni, le sue ansie rigettate sul pubblico e la sua visione feroce della realtà. L’apoteosi in questo senso è il finale di The Next 20th Century, quasi una Murder Most Foul di Bob Dylan capovolta, con uno sguardo sul futuro alquanto negativo, con pochi padroni che rubano tutto nell’ombra a tanti schiavi distratti da altro (“The Boss Wants to be Anonymous,The Talent Wants to be Seen”). Pezzo straordinario anche nell’interpretazione, e punto di arrivo di un percorso artistico che si prende in prestito forse anche troppo da altri (Goodbye Mr. Blue sta tra una cover di Everybody’s Talkin e una parodia un qualsiasi cantautore della West Coast anni 70), ma rimacina il tutto in una visione personale che rende l’epopea di Father John Misty sicuramente una delle più valide dell’ultimo decennio.

VOTO 7,5

venerdì 15 luglio 2022

BASIA BULAT

 

Basia Bulat - The Garden

(Secret City Records, 2022)

 


Esiste un sottogenere di prodotto discografico che ho deciso di definire “Ho una intera orchestra a disposizione, perché non ne approfitto per rifare i migliori brani del mio catalogo in versione orchestrale? Mi pare una buona idea!”. Poi, se volete, troviamo un acronimo alla definizione per mere questioni di brevità, ma il succo è quello, ed è una tentazione a cui non sono sfuggiti grandi e piccoli nomi, non ultimo recentemente anche Sir Paul Weller. Ora è il turno di Basia Bulat, autrice che arriva a questo appuntamento con solo cinque album all’attivo, e con una carriera che, dopo il botto iniziale di Oh, My Darling del 2007, ha vissuto fasi altalenanti, non sempre all’altezza delle grandi aspettative che aveva innescato. Di fatto lei è una bravissima artista che si muove con grande delicatezza nelle trame del folk e della canzone d’autore, potremmo dire la vera figlia del matrimonio artistico tra la sua connazionale Joni Mitchell e Sandy Denny. Uscita soddisfatta ma non del tutto rinfrancata dall’esperienza del suo ultimo sofferto album Are You in Love?, prodotto con il suo solito gusto un po’ barocco dal My Morning Jacket Jim James, Basia Bulat pubblica ora questo The Garden, sorta di personale Greatest Hits rivisitato in chiave sinfonica, in verità punto di arrivo di una serie di concerti in cui si è fatta accompagnare da ensamble classici con grandi applausi. Non è un vero live però questo, semmai un disco registrato in presa diretta da Mark Lawson (già ingegnere del suono degli Arcade Fire) con la sola aggiunta delle chitarre e del basso di Andrew Woods e Ben Whiteley. Il risultato è sicuramente affascinante, e concede alla Bulat anche la giusta occasione per dimostrare doti vocali non indifferenti, e magari non fa male a nessuno riascoltare alcune gemme del suo repertorio che la voracità produttiva di questi anni 2000 rischia di gettare nel dimenticatoio come Heart Of My Own, The Shore, Fables o la più tradizionale The Pilgriming Vine. Quello che purtroppo però non accade è il miracolo di sorpassare gli originali o affiancarsi come irrinunciabile alternativa, quello che riuscì ad esempio, con gran sorpresa di molti, ai Portishead ai tempi del loro splendido Roseland NYC Live. Più che altro nella fredda comunicazione di un disco ascoltato da lontano nel nostro vivere quotidiano (a casa, in treno, in ufficio, ovunque poi voi abbiate occasione di ascoltarlo), pare evidente che ci si perda qualcosa del calore comunicativo di una proposta così intensa nei suoni, ma nel suo complesso inevitabilmente omogenea e poco idonea a catturare l’attenzione di un orecchio distratto. Resta comunque un punto della situazione importante per lei, sperando possa essere preludio per quel salto di maturità anche le ultime prove discografiche avevano lasciato un po’ in sospeso. E mi raccomando, “play it low” e in silenzio.

Nicola Gervasini

VOTO: 7

giovedì 7 luglio 2022

MIKE CAMPBELL

 

Mike Campbell & The Dirty Knobs
External Combustion
[Mike Campbell/ Bmg 2022]

 Sulla rete: thedirtyknobs.com

 File Under: The Show Must Go On


di Nicola Gervasini (05/04/2022)


Una buona idea per uno speciale per una rivista musicale sarebbe scrivere la storia del rock attraverso i dischi solisti dei chitarristi normalmente abituati ad essere la spalla di un artista in particolare. Buona per il valore storico probabilmente, ma sicuramente non per attirare tanti lettori, visto che questa storia percorrerebbe inesorabilmente un sentiero fatto di dischi minori, curiosi nel migliore dei casi, trascurabili nel peggiore. Nessuno metterebbe in dubbio l’importanza di un Mick Ronson per la musica di David Bowie, un po’ meno quella delle sue sortite soliste, e credo che nemmeno Joe Perry consideri i suoi lavori personali importanti quanto quelli fatti con gli Aerosmith, per arrivare magari a citare Keith Richards, che spesso ha ribadito che i suoi dischi solisti (che sono comunque tra i migliori di questo sottogenere) servivano solo a tenerlo occupato mentre Jagger aveva altro da fare.

La storia per Mike Campbell è un po’ diversa, visto che purtroppo non ha più un Tom Petty da aspettare, uno che davvero non poteva fare a meno di lui tanto da chiamarlo a suonare e produrre anche i dischi non attributi agli Heartbreakers come WildflowersFull Moon Fever Highway Companion. Mike ora fa vita da session-man puro, ma dal 2019 ha dato vita anche una band, i Dirty Knobs, con i quali ha esordito nel 2020 con l’album Wreckless Abandon. È significativo che il loro secondo sforzo cambi la sigla in Mike Campbell and The Dirty Knobs, segno che forse non tutti i fans di Petty si sono accorti che dietro i Dirty Knobs si celava il loro vecchio guitar-hero. Questioni solo di intestazione, perché poi External Combustion cambia davvero poco le carte in tavola, a partire dai partners che restano gli ex Five Easy Pieces Jason Sinay (chitarra) e Matt Laug (batteria), session man visti anche alle spalle di grandi nomi come Alanis Morrissette e Neil Diamond, e il bassista Lance Morrison, già chiamato in causa anche da Don Henley.

Al secondo giro Campbell chiama anche qualche amico, il vecchio leone Ian Hunter che porta adrenalina in Dirty Job, la bella voce di Margo Price che impreziosisce la ballad State of Mind e qualche intervento del vecchio amico “spezzacuori” Benmont Tench. Le novità sono queste, perché per il resto Campbell ha una sua filosofia di rock americano buono sia per una garage-band (Lightning Boogie), sia per una american-band da grandi arene (Cheap Talk) che qui trova buona rappresentazione soprattutto nei brani iniziali del disco come la “petttianissima” Wicked Mind o Brigitte Bardot. Resta però quel gusto amaro di un qualsiasi disco di un chitarrista in libera uscita dalla strada principale, e cioè che troppo spesso si sente più la mancanza di un vero cantante (e magari anche di un grande autore, anche se la finale Electric Gypsy regala qualche soddisfazione in quel senso), piuttosto che la presenza del suo immortale e sempre perfettamente dosato tocco chitarristico.


venerdì 1 luglio 2022

DELINES

 

The Delines - The Sea Drift

2022, Decor/ Audiglobe 2022


 

Ci vorrebbero non uno, ma almeno dieci speciali per spiegare al pubblico italiano quanto importante stia diventando sempre più Willy Vlautin per la cultura americana. Noto (sempre troppo poco purtroppo) nel mondo musicale per la sua creatura ormai abbandonata nel 2016 (i Richmond Fontaine, una sorta di appendice ancor più letteraria della lezione degli Uncle Tupelo), Vlautin è diventato uno dei più importanti e prolifici romanzieri statunitensi, vero e proprio erede di una tradizione alla Steinbeck fatta di province desolate e antieroi in fuga. Ma se ad un certo punto pareva quasi che il mondo della musica non fosse più di suo interesse, ecco che un progetto nato quasi per caso come i Delines lo ha riportato in prima linea. Eppure ai tempi del loro esordio, l’ancora molto consigliabile Colfax del 2014, la sigla doveva servire a lanciare più che altro la vocalist Amy Boone, già nel giro dei musicisti da tour dei Richmond Fontaine fin dal 2003, ma ora che siamo arrivati al quarto album (dopo Scenic Sessions, distribuito solo online nel 2015, e The Imperial del 2019) è evidente che l’ensemble, ormai assestatosi in una numerosa formazione di sette elementi, ha assunto un ruolo stabile di primo piano nel mondo della musica americana più legata alle radici. Di fatto anche questo The Sea Drift non cambia le carte messe in tavola dai suoi tre predecessori, puntando su un suono etereo, cinematografico (gli strumentali The Gulf Drift Lament e Lynette’s Lament parlano chiaro in questo senso), ma soprattutto sempre appoggiato sul sensibile tocco di Vlautin nella composizione dei brani, piccoli episodi di una ipotetica serie tv sul tema della fuga nella cultura americana, topic che pare essere ancora ben attuale nell’imaginario d’oltreoceano. Musicalmente, oltre alla voce della Boone, rinfrancata dopo il brutto indicente d’auto che l’ha tenuta ferma per tre anni, è però Cory Gray il vero perno su cui poggia tutto, sia quando puntella i brani con le sue tastiere dando un tocco quasi soul, sia quando li ricama con la tromba. Non è certo un disco per chi cerca energia, anzi, più si addentra nella parte centrale, più rallenta e si fa sognante, con un rimando sonoro che può anche rievocare il country da camera dei Cowboy Junkies dei tempi d’oro. Ma sono ancora una delle poche band che pensa la musica come racconto, che crede nella letteratura come base di un testo, e che le canzoni migliori che parlano di noi, di un mondo, di una nazione e di una maniera di vivere sono quelle che lo fanno attraverso personaggi di fantasia che non hanno mai nulla di particolare se non quello di vivere intensamente la loro voglia di riscatto, o semplicemente il loro modo di arrendersi ai rimpianti e alla malinconia. Quello che questo album ha reso perfettamente.

VOTO: 8

 

lunedì 27 giugno 2022

CENTRAL UNIT

 

Central Unit – Parallelism

Snowdonia, 2021


La storia dei Central Unit ha origini lontane, fin dal 1980 e dai primi esperimenti di new wave synth-oriented fatti nella allora fervente scena bolognese. Il loro primo EP del 1982, Living Machinery, è un piccolo cult-record della scena italiana dell’epoca, e conteneva anche una cover di What Use? dei Tuxedomoon, giusto per indirizzarvi subito sulle influenze. Nel 1983, all’epoca dell’uscita del primo album omonimo per la CGD (il bassista dei Tuxedomoon Peter Principle restituì l’omaggio producendo il disco), con il nucleo storico formato da Alberto Pietropoli, Alvise Cristinelli, Enrico Giuliani, Natale Nitti e Roberto Caramelli, divisero anche il palco con band come Einstürzende Neubauten e aprirono persino i concerti degli Spandau Ballet nella loro fase di passaggio dalla new wave al pop new-romantic. Poi però la loro storia si era fermata, fino al 2004, epoca in cui si riesumò la sigla per l’album Internal Cut, a cui hanno poi fatto seguito I See You (2010) e Whatever Day Suits You Best (2018). Arriviamo così a Parallelism, disco nato come semplice colonna sonora, ma poi finito per essere un progetto discografico indipendente. Le musiche, infatti, fanno riferimento ad un film di Marco Bolognesi dallo stesso titolo, a cui è abbinata anche una installazione dello stesso artista (da anni un gigante dell’arte multi-mediale, paradossalmente forse più riconosciuto all’estero che da noi, vista la pletora di premi internazionali che l’opera ha già avuto). La pellicola è un corto che sperimenta l’unione di immagini e musica, suoni che però hanno una potenza sperimentale tale da risultare interessanti e suggestivi anche se suonati dal vostro stereo senza interventi visivi. La musica di Parallelism, infatti, è pura elettronica come genere di riferimento, ma spazia in diversi ambiti. Del nucleo storico sono rimasti Petropoli (sax e voce) e Giuliani (basso), a cui si è aggiunto ormai da tempo il produttore e tastierista Riccardo Lolli (impegnato anche al theremin) e per l’occasione la violinista Isabella Bui, il cui ruolo è stato abbastanza determinante in alcuni momenti dell’album (Modern Pioneers o Codex, ad esempio, che vede l’intervento di Andrea Ventura alla batteria). Il tutto per un viaggio che vi consigliamo di fare in ore notturne e ancora meglio in cuffia per apprezzare le suggestioni- di brani come Exit Freedom of Thought, The Rest of our Lives o Sit Here and Dream. Per quanto intervenga anche l’uso delle voci, il disco è da considerarsi come strumentale, ma se non è la forma canzone che state ricercando, Parallelism è sicuramente uno dei prodotti nostrani più interessanti del momento.

VOTO: 7

lunedì 20 giugno 2022

BIG THIEF

 

Big Thief
Dragon New Warm Mountain
I Believe in You

[4AD 2022]

 Sulla rete: bigthief.net

 File Under: Moonlight in Vermont


di Nicola Gervasini (24/02/2022)

Che siano due album usciti nello stesso anno o un unico doppio, la mole non cambia: a distanza di tre anni dall’accoppiata che ce li fece amare (U.F.O.F e Two Hands), tornano i Big ThiefDragon New Warm Mountain I Believe in You è il frutto di queste tre stagioni di scrittura in reclusione da parte della cantante Adrianne Lenker, il che ha fatto deviare un poco dal progetto iniziale pensato nel 2019 dal batterista e produttore dell’album James Krivchenia, che era quello di registrare in quattro studi differenti, in quattro posti tra loro molto diversi per ispirazione e suoni (New York, il Topanga Canyon in California, il Sonoran Desert in Arizona e la zona montuosa del Colorado), col fine di catturare così la musica della band in ogni suo aspetto e sfumatura. Poi l'arrivo del Covid li ha costretti a rinchiudersi prima nel Vermont, ma alla fine il disco è il risultato della scelta di 20 pezzi sui 45 registrati in 5 mesi, il che fa pensare che forse per il prossimo capitolo non si dovrà aspettare tanto.

I doppi album nell’era dello streaming suonano ormai come una provocazione, ma va detto che la band vive un momento di evidente grazia che è giusto sfruttare al massimo, dato che ci sarà tempo poi per riscendere nella normalità, come è naturale che accada per qualsiasi gruppo dopo qualche anno di rodaggio. Per cui, fin dal primo ascolto, Dragon New Warm Mountain I Believe in You dona subito la sensazione che qui siamo all’apice artistico e al massimo delle loro possibilità, con episodi di puro folk rurale con la Band nel cuore (ChangeSparrow), a momenti in cui invece si spingono più in là abbracciando suoni più prodotti, e, se volgiamo, anche più radiofonici (Little Things). Dunque alla fine sì, il risultato è quello voluto, e cioè di offrire un piatto ricco e composito che potrebbe suscitare le reazioni più disparate (dalla noia all’entusiasmo, o al classico commento ”se fosse stato un singolo album sarebbe stato meglio” che accompagna qualsiasi doppio album da Blonde on Blonde in poi), ma che con più equilibrio potremmo definire un disco di conferma per una delle realtà musicali più vive del momento.

Piace in particolare il loro essere una combo davvero rodata, con contributi paritari di tutti i membri (le chitarre di Buck Meek restano il fulcro di tutto, mentre il bassista Max Oleartchik gioca un po’ un ruolo alla John Paul Jones, spargendo tastiere e elettronica laddove gli è concesso, come in Blurred View o Wake Me Up to Drive), e il fatto che sappiano passare con disinvoltura da brani intimi (Simulation Swarm) ad altri che ti si incollano addosso come Love Love Love. Il tutto con testi che raccontano con grande semplicità il continuare a vivere l’amore e le solitudini di artisti, o semplicemente di persone, del nostro tempo. Quello che i Big Thief stanno raccontando decisamente bene.


lunedì 13 giugno 2022

EELS

 




Eels

Extreme Witchcraft
[E Works/ Pias 2022]

 Sulla rete: eelstheband.com

 File Under: Extreme (F)eels


di Nicola Gervasini (18/02/2022)

Ho visto gli Eels in azione nel 2019 a Milano e ne conservo un bel ricordo, la sensazione di aver sentito anche solo una piccola parte di quello che la band (o Mr. E. se vogliamo sposare la tesi che il nickname rappresenti solo lui) abbia espresso in 25 anni di carriera. Chitarre elettriche in primo piano, musica ad alto voltaggio, e rocciosi riff da vecchio hard-blues a farla da padrone: il set fu divertente e scanzonato, ma rispecchiava quella voglia di classic-rock che ogni tanto prende un artista che invece è forse più riconosciuto per il suo indie-pop decisamente introverso e cantautoriale.

Quando nel 2001 pubblicò Souljacker, sorprendendo tutti con questo suono dopo tre album iper-acclamati, Everett si prese anche non poche pernacchie da fans e critica, e le cronache ancora oggi parlano di un disco deludente, ma il nuovo Extreme Witchcraft riparte esattamente da lì. Innanzitutto dalle riff-songs, piazzando fin dall’inizio un 1-2 formato da Amateur Hour e Good Night on Earth che potrebbe ricordare i Black Keys dei tempi d’oro, e secondariamente dallo stesso collaboratore d’allora, John Parish, produttore (ma anche co-autore) di tutto il nuovo album, quasi a voler ribadire con forza la bontà di certe scelte. Oggi però l’album viene accolto meglio, il che forse potrebbe dare occasione di rivalutare Souljacker per quello che era (un discreto disco di indie-hard potremmo definirlo), e questo è forse segno di tempi meno legati a visioni settarie anche nel campo musicale.

Il quattordicesimo album della sigla, comunque, dopo una partenza che fa capire subito che si riprende un discorso interrotto vent’anni fa, cerca stavolta più variazioni sul tema, con innesti pop (Strawberries & Popcorn) e di elettronica, e un alternarsi di brani che virano prepotentemente sull’hard-blues (Steam Engine) e altri che camminano su altri lidi come So Anyway. Il problema, a volerlo trovare, è che si ha la stessa sensazione della sua produzione dal 2009 ad oggi, e cioè che non tutto il materiale viaggi allo stesso livello, e che ogni tanto il Signor E pecca un po’ di fretta e superficialità tirando via una seconda parte del disco che non si fa ricordare quanto il frizzante inizio. Ma chi ama il personaggio sa che in verità sarebbe sbagliato giudicare i singoli album, quanto pensare alla sua opera come ad un unico diario personale (qui siamo al capitolo “cosa sto facendo dopo la fine del mio secondo matrimonio”) in cui compaiono racconti finiti e meravigliosi, ma spesso anche appunti e idee appena abbozzate.

Prendere o lasciare insomma, Extreme Witchcraft non sarà il titolo che ricorderemo subito degli Eels, ed entra nell’elenco degli album che amerete da irriducibili fan, ma vi potrebbero lasciare indifferenti se invece cercate nuove vibrazioni.

lunedì 6 giugno 2022

MAISIE

 


Maisie - 2013-2021 Dal diario di Luigi La Rocca, cittadino. Cronaca di un viaggio troppo allucinante dalla tenebra della barbarie alla luce troppo meravigliosa della civiltà

Snowdonia, 2022

Il titolo 2013-2021 Dal diario di Luigi La Rocca, cittadino. Cronaca di un viaggio troppo allucinante dalla tenebra della barbarie alla luce troppo meravigliosa della civiltà è lungo, vero, ma è decisamente proporzionato alla mole di questo doppio album, composto da 62 brani con titoli non certo sintetici. Ma loro, i Maisie, giurano che sarà l’ultima volta, e che da qui in poi entreranno in un percorso di tagli di formato fino ad arrivare ad un 45 giri registrato su un lato solo. Ad Alberto Scotti e Cinzia La Fauci piace da sempre scherzare, fin dal 1994 quando formarono la band a Messina, e se già il precedente Maledette Rockstar era un chilometrico album dedicato alle nostre ipocrisie moderne, qui l’idea di concept album è ancora più centrale, e segue le immaginarie vicende di un “medioman” italiano chiamato Luigi La Rocca che cerca nei mille rivoli del facile opinionismo da social (ma anche in quello degli stessi rappresentanti politici che dovrebbero molto teoricamente navigare al di sopra da questo mare di idee alla rinfusa), una propria via di pensiero che sia allo stesso tempo politically correct ma alternativa, non allineata ma collaborativa, e così via, di contraddizione in contraddizione (loro stessi definiscono il suo percorso come “un viaggio che da invasato fascistoide lo condurrà a diventare invasato progressista, rimanendo purtroppo lo stesso cretino di sempre”). E così basta leggere la tracking list, sorta di antologia dei più comuni “topic” letti nei post degli ultimi anni, per capire che in un certo senso l’autore della band Alberto Scotti, lui stesso un attivo animatore di discussioni “tuttologhe” sui social, si è immaginato una propria antitesi che segue “come un boccalone” tutto ciò che lui abitualmente esamina minuziosamente e spesso polemicamente nei suoi post quotidiani. Gioco che pare riuscire, perché sebbene gli intenti siano tutt’altro che comici (di fatto dal disco traspare la loro visione alquanto critica ed estrema della nostra società a tutti i livelli), i testi finiscono per essere spesso spassosi. Sulla lunghezza del disco poi non c’è molto da dire di nuovo, tutti i prodotti della Snowdonia, etichetta discografica che loro stessi dirigono, sono fondamentalmente più delle opere teatrali da portarsi in casa attraverso lussuose confezioni a libro dei cd, più che un semplice album da ascoltare distrattamente via streaming (nel booklet Scotti si fa fotografare con un cartello “No Streaming “, giusto per ribadire il concetto). Quello che rende però l’opera di valore, al di là del suo moderno e ironico storytelling (si dice così oggi no?), è il fatto che dietro titoli provocatori si celano anche canzoni ben scritte e un caleidoscopio di generi e suoni davvero ammirevole, con i tanti strumentali che ricordano quelli del Lucio Battisti di Amore non Amore nella scelta di lunghi titoli, e che spesso si buttano verso un jazz-rock di “Zappiana” memoria (l’uso dei fiati- ad esempio) e sperimentazioni di larghissimo raggio. Come potrete immaginare, inutile citare titoli, a meno di scriverci un libro, ma a garanzia che qui quando si suona non si scherza mica, c’è sia il nucleo della band (che ha imbarcato anche Cristiano Lo Mele dei Perturbazione), ma anche una lista di collaboratori lunga quanto due pagine di booklet, tra artisti della Snowdonia, e musicisti di ogni tipo di estrazione, oltre al produttore deluxe Riccardo Lolli. Non posso elencarveli, ma potrete ritrovarli anche loro, come noi, in quel mondo online fatto di chi crede, dubita, segue, banna, si infervora, ignora, declama, si esalta, si indigna, riflette, si mostra e si nasconde, che i Maisie hanno qui rappresentato perfettamente.

Voto: 8

Nicola Gervasini

mercoledì 1 giugno 2022

GRACE CUMMINGS

 


Grace Cummings

Storm Queen
[ATO 2022]

 Sulla rete: gracecummings.bandcamp.com

 File Under: aussie folk


di Nicola Gervasini (08/02/2022)

Grace Cummings viene da Melbourne, ed è una delle più interessanti e direi particolari nuove leve del cantautorato al femminile, giunta con questo Storm Queen al suo secondo album. Chi l’ha conosciuta con l’esordio Refuge Cove sa già cosa aspettarsi, visto che qui si respira aria di conferma più che di cambio di rotta (e, per il momento, direi meno male), ma i neofiti vanno avvertiti che il timbro vocale potrebbe sorprendervi, se non anche infastidirvi, per quel suo essere molto impostato e persino sopra le righe a volte, ma che superato lo shock iniziale, c’è davvero molto da apprezzare nella sua proposta musicale. Quest'ultima di fatto guarda all’America del folk, del country e del blues, trovando una sorta di sintesi moderna alle vecchie lezioni impartite da Odetta o Nina Simone, per citare le voci forse più vicini a lei, anche se certo non sempre assimilabili nello stile.

Il nuovo disco è breve ma centra l’obiettivo, non ha frenesie di stupire musicalmente (persino l’assolo finale di theremin di Fly a Kite è un qualcosa che non sorprende troppo, visto quanto è di moda questo particolare strumento in questi ultimi anni), perché basta già il suo canto a creare l’effetto novità, e così il tutto viaggia su canonici standard da canzone americana, con citazioni dylaniane (in Raglan cita Highway 61 Revisited) e tanto amore per i grandi songwriters (lei stessa cita Townes Van Zandt nella title-track). I testi sono molto personali, sospesi tra amori e visioni spirituali a metà tra religione tradizionale e misticismo, un mix letterario un po’ melodrammatico (sarà forse anche merito o colpa della sua formazione da attrice teatrale), ma decisamente adatto allo spirito di canzoni come HeavenHere is The Rose o i bozzetti folk di Dreams e Freak.

Il tutto però regge grazie alla sua interpretazione, talmente piena da non avere bisogno di grandi arrangiamenti, di base scarni, a parte qualche intervento di sax o violino, tutti offerti da una serie di musicisti della scena australiana orbitanti intorno all’etichetta Flightles, che aveva creduto subito nel suo album d’esordio, ma che ha ceduto alla più internazionale ATO la licenza di distribuzione per questo secondo disco, su cui evidentemente si punta molto. E infatti speriamo che basti a farla conoscere quanto per esempio una Weyes Blood, che proprio lei volle come artista di apertura per un suo tour australiano, perché sebbene non scompigli le carte della scena folk moderna, questo Storm Queen è sicuramente un disco che spero di rivedere spesso nelle classifiche finali di questo 2022.


mercoledì 25 maggio 2022

ELVIS COSTELLO

 


Elvis Costello & The Imposters

The Boy Named If

(Capitol/EMI)

File Under: Pump it Up Again

Anno 1978, Elvis Costello realizza This Years Model, forse il massimo punto di arrivo di tutto il pub-rock inglese dell’epoca, con quel suo mix di rock americano, ritmi tarantolati della nuova new wave, e pop inglese, che ha reso unico il suo stile. A suonare con lui c’erano Stevie Nieve al piano, e Pete Thomas alla batteria, cioè il 66% degli Attractions.

Anno 2022, Elvis Costello realizza The Boy Named If, un deciso ritorno, 44 anni dopo, al pub-rock, con quel suo classico mix di rock americano, ritmi tarantolati della new wave che fu, e pop inglese, che conferma come unico il suo stile. A suonare con lui ci sono ancora Stevie Nieve al piano e Pete Thomas alla batteria, cioè il 66% degli Imposters (al basso oggi c’è Davey Faragher).

Dove sta la differenza quindi? Non è tanto sul fatto che forse questo disco chiude definitivamente il cerchio di una ricerca musicale che è arrivata a toccare anche jazz e classica prima di tornare alla base dei suoi esordi, quanto che comunque i frutti di questo percorso di 45 anni di carriera si sentono eccome, anche se lo spirito di queste canzoni e i musicisti sono praticamente gli stessi. Costello scherza sul fatto, ribadendo che in fondo una buona idea del 1978, resta tale anche nel 2022 se lo è veramente, ma è ovvio che qui dentro non possiamo più trovare l’urgenza giovanile di brani come Pump it Up o No Action, ma la ragionata esperienza di un uomo che continua a usare l’ironia come lente d’ingrandimento per descrivere la realtà che lo circonda, confermandosi, se mai ce n’era bisogno, come uno dei più intelligenti autori di testi della vecchia guardia.

Per cui se il tono inevitabilmente nostalgico e passatista del disco resta il più evidente Tallone d’Achille, che magari farà storcere il naso a chi aveva apprezzato l’ecletticità e apertura a nuovi mondi dei suoi ultimi due dischi (Look Now e Hey Clockface, ma aggiungerei anche l’esperienza con i Roots), dall’altro il Costello di The Boy Named If dimostra di essere artista tutt’altro pronto al pensionamento da routine, perché non è certo possibile raccontare le storie (camuffate da fiabe per bambini in questo caso) in bilico tra cronaca e letteratura di Paint the Red Rose Blue, The Difference, What If I Can’t Give You Anything But Love?, The Man You Love to Hate vivendo in un ritiro dorato. Costello invece continua a vivere tra dischi e concerti come se stesse ancora ricercando il suo punto di arrivo, e questi risciacqui del suo songwriting nel suo rock originario non sono certo nuovi (in fondo Brutal Youth o Momofuku erano operazioni simili), ma ogni volta ci si trova nuovi elementi nati dalle sue tante ispirazioni, e qui ad esempio non sfuggono le tracce rimaste dalle sue frequentazioni in ambito Roots/Americana del periodo di National Ransom.

Difficile dire quanto possa poi essere un disco importante nell’ambito della sua ormai cospicua discografia (arriva forse troppo tardi per esserlo veramente), ma è certo che The Boy Named If vince la grande sfida di non far sembrare vecchia e polverosa la sua “solita solfa”, e per uno che produce dischi da 45 anni, praticamente senza pause, davvero è un traguardo più che raro.

 

Nicola Gervasini

venerdì 20 maggio 2022

CAT POWER

 


Cat Power – Covers

Domino, 2022

Diciamoci la verità, sette album in 22 anni, dei quali ben tre sono di cover, non danno una immagine di grande produttuivtà creativa, ma fin dal The Covers Record del 2000, Cat Power non ha mia nascosto di considerarsi anche e forse soprattutto una interprete. E così dopo che Wanderer nel 2018 aveva un po’ riconciliato Chan Marshall con il suo pubblico, soprattutto quello della prima ora, rimasto deluso dalle non proprio riuscitissime divagazioni di Sun del 2012, la Power torna a rileggere songbooks altrui, chiudendo così una triade che aveva in Jukebox del 2008 il punto centrale. Se Jukebox era dal punto di vista produttivo una sorta di ottimo compendio al “soul-folk” di The Greatest, questo Covers (forse magari un titolo più originale lo meritava però…) si distacca dai suoi predcessori cercando di amalgamare classici vecchi e nuovi in uno stile che unisce la vena indie-folk della prima ora, con le sperimentazioni più recenti. Al di là di quello che poi uno può trovare nella singola interpetazione di brani magari già più che amati (ad esempio personalmente trovo azzeccata la These Days di Jackson Browne perché guarda con rispetto alla primissima versione di Nico, mentre invece l’epica Against The Wind di Bob Seger ne esce un po’ distrutta nello spirito), quello che un po’ infastidisce stavolta è che più che di un omaggio complessivo, si tratta di un gioco, se non quasi una sfida, a rendere propri e uniformi materiali apparentemente inconciliabili come brani di Frank Ocean o dell’amica Lana Del Rey (la sua White Mustang resta una delle cose più riuscite), con classici dei bassifondi degli anni Ottanta come Here Comes a Regular dei Replacements o il classico dei Pogues, A Pair of Brown Eyes, per non parlare di standards come I’ll Be Seeing You di Billie Holiday o il suo consueto atto d’amore per la country music con It Wasn’t God Who Made Honky Tonk Angels di Kitty Wells. Paradossalmente le cose migliori arrivano laddove non ci si aspetta nulla, perché Pa Pa Power dei Dead Man’s Bones dell’attore Ryan Goslin non se la ricordava nessuno, e qui ne esce come uno dei pezzi più notevoli, oppure anche grandi nomi come Iggy Pop o Nick Cave vengono riletti in episodi poco celebrati come Endless Sea (era su New Values del 1979) o I Had a Dream Joe, brano la cui enfatica teatralità dell’originale ben si sposa con il suo modo di cantare. C’è tempo anche per l’auto-cover di Unhate, remake della Hate che era su The Greatest, piccolo tripudio di voci sovraregistrate che esalta il suo lato più coraggioso e musicalmente autarchico. Nel complesso però se The Covers Album pareva il giusto elenco di influenze che avevano animato i suoi primi quattro album (dove comunque non erano mancate altre cover), Jukebox la dichiarazione di raggiunta maturità e padronanza dei propri mezzi (tanto da uscirne vincente anche da una rilettura di New York, New York di Liza Minelli), Covers pare più un disco in cui Cat power ha voluto sviluppare nuove idee stilistiche, ma senza rischiare di sprecare brani propri in un prodotto che appare riuscito solo in parte, e forse inesorabilmente destinato ad apparire minore nell’ambito della sua discografia.

VOTO 6,5

Nicola Gervasini

venerdì 6 maggio 2022

BILL FAY

 


Bill Fay

Still Some Light - Part 1

(Dead Oceans, 2022)

File Under: Lost gems

Delle tante storie di recuperi di artisti perduti nelle severe logiche discografiche dei primi anni Settanta, quella di Bill Fay resta una delle più felici, sia perché la ristampa e ricoperta dei suoi unici due album dell’epoca (l’omonimo esordio del 1970 e Time of the Last Persecution del 1971), hanno ridato luce ad un autore davvero particolare, sia perché i tre dischi realizzati negli ultimi anni, con l’aiuto di qualche cultore della materia, sono andati ben oltre le aspettative in termini di qualità e soprattutto di intensità. E così pareva logico che qualcuno si mettesse anche a cercare tra glia archivi (fortunatamente ancora esistenti) della Deram Records per cercare registrazioni inedite. Ci avevano pensato subito a dire la verità quelli della piccola label Jnana Records nel 2010, dando a David Tibet il compito di compilare un doppio CD intitolato Still Some Light, con un primo CD di demo e inediti del 1970 e 1971, e un secondo con dei demo casalinghi del 2009, con brani che verranno in gran parte recuperati nei dischi degli anni Dieci. Il problema fu che l’antologia fu poco distribuita, e soprattutto uscì prima che nel 2012 Life is People lo facesse conoscere anche al pubblico dei nostri giorni come autore più che mai vivo e vegeto. Ci pensa così la sua etichetta, la Dead Oceans, a recuperare il progetto e a ristamparlo in due parti, mantenendo il titolo originale, ma stavolta realizzando una ben più appetibile versione in doppio vinile (nonostante la breve durata, con lati che durano poco più di una decina di minuti) che mancava nella precedente edizione. Ad accompagnare l’uscita anche il primo di una serie di 7 pollici per collezionisti che vede artisti giovani impegnati a interpretare i suoi brani. Il primo 45 giri è così accompagnato dalle interpretazioni di I Hear You Calling da parte di Kevin Morby e di Dust Filled Room di Steve Gunn, sicuramente due artisti che al mondo musicale di Fay devono molto. Per il resto la raccolta ricalca perfettamente quella già edita nel 2010, con una serie di versione alternative ai brani del primo album prive delle orchestrazioni che caratterizzarono le versioni finali, e già studi sui brani del secondo. Lo accompagnano la sua band dell’epoca, composta da Daryl Runswick al basso, Alan Rushton              alla batteria, il bravo Ray Russell alla chitarra (sarà poi produttore del secondo album), con Bill impegnato sia sulle tastiere che alla chitarra acustica. Registrazioni di varia e non sempre omogenea qualità, nonostante il gran lavoro fatto dall’espertissimo mago del mastering Frank Arkwright, il che rende il disco, comunque, un evidente prodotto per completisti e collezionisti del vinile, visto che al di là della qualità di interpretazioni, sicuramente meno impostate e rigide di quelle delle versioni finali, è comunque consigliabile prima procurarsi i due album ufficiali per poter godere appieno anche di questi demos. A breve dovrebbe uscire anche il secondo capitolo con le registrazioni più recenti, e se poi volete anche perfezionare il tutto con i vari 45 giri di cover a corredo (interessanti perché presentano la versione originale di Fay sul lato B), preparate il portafoglio, perché la spesa supererà abbondantemente il centinaio di euro.

Nicola Gervasini

domenica 1 maggio 2022

THE THE

 

The The

The Comeback Special: Live at the Royal Albert Hall.

(Cinéola, Ear Music, 2021)


File Under: Matt has left the building!

Non esistono tante avventure musicali così brevi ma così varie come quella di Matt Johnson, in arte The The, forse uno dei primi artisti ad aver usato uno pseudonimo lasciando sempre il dubbio se parlarne come di un singolo o di un gruppo (pratica divenuta di moda poi negli anni 2000). Nei suoi 7 album in studio pubblicati in trent’anni dal 1981 al 2000, Johnson è riuscito a creare avveniristiche opere di proto-elettronica (Burning Blue Soul), mischiarla con successo con suoni tradizionali in tempi non sospetti (Soul Mining), rileggerla in chiave pop-80 (Infected), o in chiave più “Smithsiana” imbarcando Johnny Marr in formazione (Mind Bomb), fino al botto di Dusk, che in qualche modo faceva un riassunto perfetto di tutto. Giusto il tempo di buttarsi anche nel mondo del country rivisto a suo modo (Hanky Panky, splendido tributo ad Hank Williams) e chiudere il tutto con un album irrisolto, per quanto forse sottovalutato, come Nakedself, che aveva il grosso difetto di non avere la stessa direzione precisa dei suoi predecessori. Da allora Johnson si è chiuso in un isolamento che solo qualche colonna sonora per b-movies di amici hanno interrotto, e per ora ancora non sembra che la delusione per il flop della sua ultima opera sia stata digerita del tutto. Poi nel 2018 la sorpresa di rivederlo dal vivo a risuonare i vecchi pezzi in alcune serate, con la migliore ora finalmente pubblicata in questo The Comeback Special: Live at the Royal Albert Hall. Intanto il titolo che richiama l’omonimo live-record del 1968 di Elvis Presley (che lo volle per sottolineare che l’era delle soundtracks era finita anche per lui) credo sia più che significativo, ma al di là delle egocentriche citazioni, l’operazione è davvero encomiabile per come non si respiri affatto aria di revival autocelebrativo, ma di vitalità artistica. Johnson ha voluto una band di stampo classico alle sue spalle, formata dal tastierista blues Dc Collard, il batterista jazz Earl Harvin (già visto in session anche per Joe Henry e Richard Thompson tra i tanti), il bassista James Eller (già con lui negli anni d’oro), e il sorprendente chitarrista Barrie Cadogan, leader dei Little Barrie, e consigliatogli dallo stesso Johnny Marr, che purtroppo non poté partecipare per altri impegni. L’imperativo fornito ai musicisti è stato quello di evitare campionamenti e aggiunte elettroniche che non siano men che realmente suonate, e quello ancor più coraggioso di riarrangiare tutti i pezzi dandogli nuova linfa vitale. Gioco che in gran parte riesce, sia perché, sebbene non vastissimo, il suo resta un songbook invidiabile, sia perché l’album finisce quasi per suonare come un nuovo progetto da affiancare a quelli vecchi. Magra consolazione forse, visto che nonostante questa resurrezione, ancora non si vede del nuovo materiale all’orizzonte, ma accontentiamoci e cogliamo l’occasione per rientrare nei meandri lirici di pezzi straordinari come The Beat(en) Generation, Love Is Stronger Than Death, This Is The Day o nuove azzeccate riletture come Armageddon Dayd Are Here (again) o Dogs Of Lust. La band lo segue impeccabilmente e l’atmosfera non perde mai d’intensità, come si può anche ben vedere nel video del concerto (l’albume esce anche in DVD nelle varie edizioni previste, tra cui anche una Deluxe con tre cd di suoi interventi radiofonici per veri feticisti dell’inedito). Il repertorio spazia in tutta la sua produzione, compreso il primo album pubblicato a suo nome (da cui riprende una rigenerata Like A Sun Rising Thru My Garden e Bugle Boy) e qualche chicca pubblicata in progetti autoprodotti (A Long Hard Lazy Apprenticeship). Insomma, quasi un “The Best Of” in diretta che speriamo sia davvero un ritorno e non una chiusura.

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

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